FONDAMENTI DELLA TEORIA DEI NUMERI REALI(*)
(Umberto Bartocci)(ø)
1.
Nel partecipare ad un Convegno dedicato ai "modelli scientifici della realta' fisica", risulta spontaneo di riflettere sulla circostanza che in effetti ormai l'attivita' scientifica nel suo complesso viene considerata piu' come una produttrice per l'appunto di modelli, anziche' di descrizioni, per quanto possibile oggettive, e naturalmente poi piu' o meno fedeli e semplificate, della realta' fisica. Addirittura anzi, chi conosca lo stato attuale della conoscenza in fisica, e' "rassegnato" a riconoscere il frutto delle indagini in tale campo come un insieme di "rappresentazioni locali" della realta', le quali per lo piu' presentano, dal punto di vista globale, la particolarita' di non intersecarsi affatto, mentre sono tali che, quando invece si intersecano, la loro sovrapposizione puo' avvenire in modo contraddittorio. R. Thom(1) afferma ad esempio che in fisica "si ha cosi' un orribile miscuglio tra una scorrettezza dei concetti di base ed una precisione numerica fantastica", e che i fisici "pretendono di ricavare un risultato numericamente molto rigoroso da teorie che concettualmente non hanno ne' capo ne' coda".
Queste considerazioni rendono meno sorprendente il fatto che sia sempre piu' numeroso il gruppo degli operatori nel campo scientifico i quali trovano "rifugio" nel paradigma secondo cui la scienza non puo' essere considerata altro che come un insieme di ricette piu' o meno efficaci, che la ricerca non ha niente a che fare con concetti inadeguati quali ad esempio quelli di "realta'" e di "verita'", ed infine che ogni giudizio di valore su di essa non puo' basarsi altro che su criteri di "utilita'".
Naturalmente, la storia filosofica ed epistemologica di questa scissione tra prodotti della conoscenza e realta' oggettiva, intesa ormai quest'ultima nella sua intima essenza come qualcosa di inconoscibile e di convenzionale - quando addirittura come non-esistente in se' - ha radici lontane, ancorche' molto chiare, ed una sua discussione esula dalle possibilita' di questo breve intervento. Cercheremo invece nel seguito assai piu' semplicemente di esemplificare il discorso precedente facendo il punto su una tappa significativa della detta teorizzazione, quella comunemente denominata come aritmetizzazione dell'analisi. Questa e' l'espressione usata nella storia della matematica per indicare quel periodo (intorno al 1870) nel quale si forni' un fondamento esclusivamente aritmetico alla teoria dei numeri reali. L'attenzione viene cosi' soltanto apparentemente spostata dal campo della "filosofia naturale" a quello della matematica, sia perche' l'atteggiamento ideologico al quale si accennava e' lo stesso nei due settori, sia perche' e' convinzione dell'autore che, se si vuole capire bene perche' la fisica di oggi presenta di se' un aspetto cosi' sconcertante, bisogna andare ad esaminare quale progetto generale abbia guidato la filosofia della matematica verso l'ultima parte del XIX secolo nelle grandi scuole. Sono infatti le linee direttrici di questo progetto quelle che filtrano nel paradigma della ricerca in fisica, in seguito all'affermazione di quella autentica rivoluzione scientifica costituita dalla teoria della relativita' einsteiniana. Rivoluzione, per l'appunto, piu' che di risultati, di atteggiamento, visto che e' attraverso di essa che si introducono per la prima volta in fisica l'arbitrarieta' costruttiva propria della matematica ed il suo aspetto convenzionale. La conseguente rinuncia alle "categorie ordinarie" del pensiero, fino ad allora intoccate, quali quelle di spazio, tempo e causalita', in favore di una enunciazione matematica sempre piu' "astratta", e l'abitudine crescente a questa, aprirono poi la strada al successo di teorie sempre meno "credibili", nei confronti di alcune delle quali si comincia soltanto adesso, alla fine del secolo, ad opporre una certa reazione(2). Questa irruzione "incontrollata" nella fisica non tanto della matematica, si badi bene, quanto piuttosto di un certo modo di concepire la matematica - che era di moda nel periodo in esame, ed e' rimasto pressoche' inalterato fino ad oggi, a seguito del successo del programma cosiddetto formalista - fornisce una forte motivazione per l'approfondimento del punto di vista matematico in oggetto, e "giustifica" la scelta del tema di questa relazione in rapporto allo spirito del Convegno. Passiamo quindi ad occuparci senza piu' indugi del nostro soggetto specifico, senza dimenticare per finire questa prima parte dedicata ai rapporti tra matematica e fisica(3) quanta importanza in effetti abbiano avuto negli sviluppi della fisica teorica della prima parte del XX secolo (tanto ad esempio nell'elaborazione di teorie relativistiche, quanto in quella di teorie quantistiche) l'"influenza" e le opere di matematici quali H. Minkowski, D. Hilbert, H. Weyl, J. von Neumann, etc., e l'elencazione potrebbe continuare in realta' fino ai nostri giorni (si veda al proposito anche la nota (19)).
2.
Il modo di introdurre in matematica il concetto di numero reale, che costituisce una nozione chiave per lo sviluppo di tutto l'edificio matematico, rappresenta un sicuro test per la comprensione della "filosofia" che presiede all'intera costruzione. Come noto, verso la fine del secolo scorso, a proposito del problema posto dalla "natura" degli enti matematici, si impose l'opinione che questi non dovessero essere considerati altro che come concetti inerenti alla pura logica formale, senza alcun sostrato intuitivo, e men che meno aventi qualsiasi riferimento ad una sorta di "realta'", vuoi fisica che "psicologica". Questa soluzione, che si basava su una sopravvalutazione del significato filosofico dell'"esistenza" delle cosiddette geometrie non-euclidee(4), scoperte alcuni anni prima, indusse matematici quali K. Weierstrass, R. Dedekind, ed altri, a voler rifondare l'intera teoria dei numeri, sganciandone l'introduzione da ogni aspetto intuitivo espresso mediante i termini della geometria euclidea. Non era stato dimostrato infatti che questa non era l'unica geometria razionale, e che il suo ruolo privilegiato era dovuto probabilmente soltanto ad una commistione tra la nostra ragione e la percezione sensibile del nostro "piccolo" mondo? Con siffatte premesse, furono proposte diverse definizioni dei numeri reali, aventi tutte la caratteristica comune di ricondurre tale concetto a quello di numero razionale, il quale ultimo sembrava potersi ricondurre poi senza difficolta' all'aritmetica, le cui possibilita' di derivazione dalla pura logica sembravano ben piu' sicure(5). Senza entrare adesso qui in dettaglio su definizioni quali ad esempio quella di Dedekind, che dice essere un numero reale costituito da una particolare coppia ordinata di sottoinsiemi (sezione) del campo razionale, notiamo soltanto che la cosa piu' importante dal punto di vista fondazionale e' che si cerco' semplicemente di eliminare dal concetto di numero reale ogni riferimento a proprieta' ed enti di natura geometrica, considerati questi come provenienti da un "momento intuitivo e vago della fondazione"(6). Nelle seguenti parole e' chiaramente enunciato il "programma" dell'aritmetizzazione dell'analisi: "concepire i numeri reali come strutture concettuali, invece che come grandezze intuitive ereditate dalla geometria euclidea"(7).
3.
Purtroppo, soltanto una ristretta minoranza di matematici sembra oggi condividere l'opinione che una fondazione di tipo logico-insiemistico della matematica, se elimina apparentemente all'origine il riferimento a concetti che possono essere ritenuti di natura empirico-psicologica, indica pero' come "basi piu' vere ed adeguate della nuova pratica matematica"(8) un terreno ben piu' infido della diretta percezione intuitiva degli enti della geometria euclidea. Basta invero riflettere sul fatto che la teoria degli insiemi introduce subito nelle basi della matematica alcuni "paradossi" che sono irrisolti oggi non meno di ieri, e la cui radice "va ricercata unicamente nell'arbitrio (...) di considerare un campo di possibilita' costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in se'"(9).
Del resto, una sistemazione assiomatico-formale della teoria degli insiemi non esiste, o meglio, ne esiste piu' d'una, e quindi tanti diversi "modelli", sicche' non e' proprio un caso che in effetti la maggioranza dei matematici non faccia mai cenno a quale delle varie "teorie degli insiemi" si riferisce nei propri lavori, e che siffatte questioni siano di regola escluse dal curriculum degli studi di un ordinario corso di laurea in matematica. In realta', l'insegnamento di questa disciplina continua a presentare "una rozza e superficiale mistura di sensismo e di formalismo"(10), simile a quella gia' prima rimproverata da R. Thom alla fisica a proposito della contrapposizione tra precisione numerica e scorrettezza dei concetti di base. Una matematica che pretende di eliminare dal momento della propria fondazione ogni pur necessario riferimento ad una qualsivoglia "filosofia" dello spazio e del tempo, per cercare di costruirsi letteralmente sul "vuoto", richiama alla mente l'immagine kantiana della "colomba leggera, che portata dalle ali sull'aria, crede di poter volare senza resistenza nel vuoto"(11). Ma ritorniamo al nostro argomento principale, sottolineando alcuni dei difetti presenti nella attuale presentazione dei numeri in generale, e cercando di indicare invece quella che potrebbe essere ritenuta una piu' "giusta" via.
4.
La corrente fondazione formalistica della teoria dei numeri reali rinuncia in linea di principio alla ricerca di cosa possa essere considerato costituire un singolo numero reale, limitandosi ad individuare le proprieta' caratteristiche dell'intera loro totalita'. Ovvero, a fornire una "definizione" del campo di tutti i numeri reali, la quale, per il modo di procedere stesso, non puo' individuare l'oggetto di proprio interesse che a meno di isomorfismi(12). L'indicazione di tali proprieta', ancorche' interessante, lascia pero' irrisolto tutto il problema di "cosa" siano i numeri reali, visto che sembra difficile sostenere che alcuni di questi singolarmente, o peggio l'intera loro totalita', costituiscano un dato immediato e primitivo della nostra percezione, al contrario di quanto accade invece per i numeri naturali: 1, 2, 3, ... .
In effetti, risulta allora necessario, sotto questo punto di vista, introdurre dei precisi "modelli" della teoria, vale a dire, degli "esempi" di campi ordinati archimedei completi, i quali sono costruiti, con una serie di operazioni successive, a partire dalla totalita' dei numeri naturali. E' questa la procedura con la quale si riconduce, come annunciato, la nozione di numero reale ad entita' di tipo aritmetico. Si raggiunge cosi' lo scopo desiderato di fondare la nozione in esame sull'aritmetica, considerata questa come un momento abbastanza "certo" della fondazione, ed il problema della non-contraddittorieta' della matematica si trasforma cosi' in quello della non-contraddittorieta' dell'aritmetica. A prescindere dal particolare modello usato, a seconda delle preferenze, si ha comunque a che fare con una costruzione che, se pur logicamente corretta, certamente e' lontana dalla genesi naturale del concetto che si vuole definire, e pertanto e' da ritenersi, anche soltanto dal punto di vista didattico, poco conveniente. Potremmo aggiungere poi che a tale procedimento si adatta perfettamente l'osservazione di essere soprattutto "not honest in structure"(13), visto che cancella accuratamente le tracce che hanno consentito di arrivare ad una certa concezione, ribaltando poi il punto di vista con il presentare arbitrariamente per la prima l'idea che era invece nata per ultima. La chiave per un'autentica comprensione della nozione di numero reale risiede piuttosto nell'operare una distinzione tra i due aspetti del numero come misura e del numero come quantita', in quanto provenienti da categorie (forme) del pensiero da ritenersi primitive ed indipendenti l'una dall'altra, e nel riconoscere senza pregiudizi ai numeri reali la loro origine nell'intuizione geometrica. Gli stessi numeri razionali, ed i numeri negativi, piu' che concetti di natura aritmetica, vengono ad essere trattati allora piu' propriamente come grandezze "derivate" di natura geometrica (vedi anche la nota (20)).
La distinzione cosi' introdotta si ritrova adombrata nelle seguenti parole di Leibniz:
"Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum, seu de ratione aestimandi...scientia de mensurae repetitione seu de numero"(14).
Da questo punto di vista, allora, il principale difetto di un'introduzione di tipo aritmetico dei numeri reali sarebbe rappresentato da una "commistione" tra le categorie di spazio e di tempo, indebita, ma soprattutto criptica, visto che un tentativo esplicito di "riduzione" dell'una all'altra "forma" apparirebbe chiaramente destinato all'insuccesso. Del resto, ad una cattiva presentazione concettuale delle basi dei numeri reali si accompagna spesso, come e' ovvio in questo stato di cose, anche una cattiva presentazione di quelle dei numeri naturali, tenuto conto del fatto che si accosta di solito questo concetto a quello di numero cardinale (di un insieme finito), e non piuttosto, come dovrebbe invece piu' propriamente essere fatto, a quello di numero ordinale(15).
5.
Oltre al difetto basilare precedentemente indicato, l'attuale presentazione della teoria dei numeri reali mostra anche alcuni altri "inestetismi", ai quali sommariamente accenniamo.
Prima di tutto, si e' condotti ad introdurre, sin dall'inizio della pratica matematica, un abuso di linguaggio, quando si parla ad esempio de "il" campo dei numeri reali, anziche' di "un" campo dei numeri reali, visto che di questi ne "esistono" infiniti, ancorche' tutti tra loro isomorfi.
Cio' conduce ad un altro abuso, quando si dice ad esempio che l'insieme dei numeri razionali e' contenuto in quello dei numeri reali, visto che bisognerebbe fare invece differenza tra un numero razionale, concepito ad esempio come una classe di equivalenza di coppie ordinate di numeri interi, e lo "stesso" numero razionale, concepito invece, se si vuole, come una sezione di Dedekind del campo razionale. L'abitudine a considerare isomorfismi (non necessariamente suriettivi) come vere e proprie inclusioni e' molto diffusa, e soltanto pochi autori(16) la mettono in rilievo, nel linguaggio oltre che nei simboli. Del resto, "la distinzione tra "vecchi" e "nuovi" razionali sembra artificiale, ma e' essenziale"(17), sicche' il detto abuso di linguaggio non appare neppure troppo scusabile, ed e' da considerarsi in effetti rivelatore di quella contraddizione insanabile tra intuizione e linguaggio naturale da un lato, e filosofia formalista dall'altro, di cui abbiamo in precedenza parlato. Ancora, quando si introducano sbrigativamente i numeri reali, identificandoli ad esempio con la propria scrittura decimale (come se si trattasse di cosa ovvia), a parte il fatto che nella pratica didattica non si spiega allora di solito in modo chiaro fino a che punto ci sia corrispondenza biunivoca o no tra numeri e loro possibili scritture, si viene ad avere in questo caso come risultato la sgradevole circostanza che tanto un numero razionale quanto un numero irrazionale possano avere una scrittura "infinita", ovvero, lo spartiacque tra i due tipi di numero, che dovrebbe essere indissolubilmente legato alla distinzione tra finito ed infinito, non apparirebbe piu' cosi' evidente. Infine, la presentazione formalista, non permettendo di riconoscere la differenza tra il numero inteso come quantita' ed il numero inteso come misura, rinuncia in fondo alla comprensione stessa di cosa si debba intendere con il concetto di numero. E la questione e' piu' sostanziale, e meno storico-linguistica, di quanto non potrebbe sembrare a prima vista, se si osserva ad esempio che e' usuale parlare dei "numeri" complessi, dopo averli introdotti mediante una costruzione formale analoga a quella effettuata per i numeri reali, trascurando pero' una circostanza che li distingue nettamente da questi, ovvero l'esistenza di automorfismi propri nella loro struttura. In altre parole, mentre due modelli di campi reali sono tra loro isomorfi mediante un unico isomorfismo (ogni "numero" e' "uguale" soltanto a se stesso!), la stessa circostanza non si verifica invece per due modelli di campi complessi, visto che quanto meno, anche se si considerano soltanto isomorfismi che portano il sottocampo reale dell'uno nel sottocampo reale dell'altro, le due unita' immaginarie i e -i resteranno sempre assolutamente indistinguibili l'una dall'altra(18).
6.
Quanto precedentemente esposto conduce alla convinzione che il successo del punto di vista formalista in matematica possa essere fatto risalire, piu' che alla presenza di condizioni scientificamente oggettive, a quella che potremmo definire soltanto come una "moda positivista"(19), e che le stesse esigenze di rigore della matematica del XIX secolo avrebbero potuto essere soddisfatte utilizzando delle differenti premesse. Del resto, chi volesse oggi (o avesse voluto in passato) tentare una presentazione "geometrica" della teoria dei numeri reali, non dovrebbe neanche fare troppi sforzi di immaginazione, visto che una definizione di numero reale si trova gia' bella e pronta negli stessi Elementi di Euclide. Circostanza questa che era peraltro lecito aspettarsi, in accordo con il ruolo essenziale del numero come misura in ogni settore della matematica. A parte ovviamente la terminologia, una tale definizione si ritrova infatti nel Libro V degli Elementi, Definizione V: un numero reale (positivo) viene ad essere, del tutto coerentemente con quella che consideriamo la genesi naturale del concetto, un classe di equivalenza di coppie ordinate di segmenti(20), dove, va da se', tutto il problema e' costituito dal decidere quand'e' che due coppie di segmenti siano da ritenersi equivalenti. Questo e' per l'appunto l'oggetto della richiamata definizione quinta, la quale specifica quando quattro "grandezze" debbano intendersi tra di loro proporzionali, e si puo' considerare essere, quando applicata ai segmenti della retta, "parola per parola la stessa definizione di Weierstrass o di Dedekind"(21)! Osserviamo esplicitamente pero' che, se si puo' sostenere che "i greci possedevano una nozione di numero nella stessa generalita' e chiarezza che abbiamo oggi"(22), e' anche giusto riconoscere che, ad una adeguata introduzione "ontologica" dei numeri reali, non si accompagna con la stessa chiarezza la comprensione della loro struttura, anche intesa questa soltanto in relazione alle operazioni fondamentali di somma e prodotto. Questa circostanza potrebbe essere forse ascritta, anziche' ad autentiche difficolta' di tipo concettuale, al semplice fatto che Euclide, con un modo di procedere del tutto "moderno"!, ha voluto nella sua teoria delle proporzioni fare forse "troppo" tutto insieme, considerando al tempo stesso il caso dei segmenti e quello di altre grandezze geometriche, tra l'altro lasciando i suoi successori nel dubbio relativamente a quali classi di grandezze poter applicare la sua teoria(23).
E chiudiamo questo paragrafo sottolineando che non costituisce impedimento alla presente interpretazione il fatto incontestabile che i greci non considerassero i "numeri irrazionali" come "numeri" alla stessa stregua degli altri, che' forse non avevano neppure troppo torto nell'operare una cosi' drastica separazione, con una consapevolezza intuitiva dei cosiddetti "paradossi dell'infinito".
7.
Pervenuti cosi' alla persuasione che, sulle orme di Euclide, potrebbe essere data su basi puramente geometriche una teoria dei numeri reali altrettanto rigorosa ed "up-to-date" che quella fornita su basi puramente aritmetiche, ecco che sembrerebbe risolto il problema dei fondamenti che ci si era posto. In effetti, si puo' forse dire di essere arrivati ad indicare la giusta via, ma non e' ancora detto che la presentazione euclidea sia proprio la migliore possibile, e che tutto si possa ritenere definitivo a questo riguardo. Terminiamo quindi questo intervento dando alcuni cenni su tale problema, cominciando pure con il riportare quanto osservato al proposito assai chiaramente dal De Morgan(24):
" - che diritto ha Euclide, o chiunque altro, di aspettarsi che la precedente proposizione, del tutto prolissa e farraginosa, possa essere accettata dal principiante come una definizione di una relazione la cui percezione e' uno dei piu' comuni atti del suo pensiero (...) ?;
- dopo aver risposto chiaramente alla questione precedente, come puo' essere mai usata la definizione di proporzione, ovvero come e' possibile paragonare ciascuno degli infiniti multipli di un termine della proporzione con ciascuno dei multipli dell'altro?"
Tale obiezione e' simile ad una che fu avanzata precedentemente da Galileo, il quale pure si occupo' della questione in un suo interessante scritto composto verso la fine della sua vita(25), ed e' delle osservazioni di Galileo che preferiamo occuparci, visto che esse forniscono degli spunti di meditazione che, in quanto a metodologia della matematica, o, se si preferisce, della didattica della matematica, possono essere considerati del tutto attuali anche ai giorni nostri (o meglio forse, in particolar modo ai giorni nostri!), a conferma del sospetto che "nella maggior parte dei casi la scienza moderna e' piu' opaca, e molto piu' illusoria, della scienza del Cinquecento e del Seicento"(26). E va osservato subito, prima di andare avanti, che questa circostanza si verifica pur non essendo Galileo particolarmente interessato a speculazioni di matematica pura(27), ma che forse e' proprio per questo che le sue riflessioni in materia di metodologia sono tuttora fresche e convincenti.
Prima di tutto, e' evidente come Galileo ritenga che la questione relativa al quando due coppie di grandezze debbano considerarsi tra loro proporzionali, appartiene alla sfera di quei concetti che sono da ritenersi alla base di atti comuni ad ogni umano intelletto:
"avendo il lettore concepito gia' nell'intelletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze (...) mi sforzero' di secondare con la difinizione delle proporzioni il concetto universale degli uomini anche ineruditi nella geometria".
Questa non puo' essere considerata pero' come un dato "primitivo", ed e' necessario di discuterla con attenzione. Inoltre, la definizione proposta da Euclide, ancorche' logicamente ineccepibile, non soddisfa completamente le esigenze di chiarezza inerenti alla fondamentalita' della questione. Tutti e tre i protagonisti del dialogo galileiano confessano infatti tale insoddisfazione:
- Sagredo ("Questa e' una certa ambiguita' che io o' sempre avuta nella mente intorno alla quinta difinizione del quinto libro d'Euclide"; "non restai con quella chiarezza che avrei desiderato nella predetta proposizione");
- Simplicio ("Non ebbi mai il piu' duro ostacolo di questo in quella poca di geometria che io studiai gia' nelle scuole da giovanetto");
- e infine lo stesso Salviati ("Io poi confesso che per qualche anno dopo aver istudiato il V libro d'Euclide, restai involto con la mente nella stessa caligine").
Galileo applica quindi alla definizione euclidea di proporzione un criterio che dovrebbe essere tenuto sempre presente (non solo in matematica!), e che si puo' riassumere nella necessita' di operare una distinzione tra asserzioni le quali, pur logicamente equivalenti, si presentino in sequenza temporale in momenti diversi della riflessione naturale, tanto da potersi distinguere l'una come una derivazione dell'altra, ma non viceversa:
"Per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell'animo del lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma pero' la piu' facile di tutte e quella per appunto che si stimi la piu' intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche",
e proseguendo:
"Cosi' fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand'anche cosi' avesse detto, sarebbero state buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un'altra passione del cerchio, piu' intelligibile della precedente e piu' facile da formarsene concetto, chi non s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella piu' chiara e piu' evidente come difinizione, per cavar poi da essa quell'altre piu' recondite e dimostrarle come conclusioni?".
Naturalmente, la possibilita' di operare una siffatta distinzione non appartiene all'ambito proprio della matematica, almeno in una sua accezione restrittiva (vedi anche la nota (12)), ma e' comunque, specializzazioni a parte, una delle possibilita' a disposizione del pensiero umano.
La questione e' perfettamente illustrata dall' Enriques(28) con parole che ci piace sempre ripetere:
"Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di la' delle stesse matematiche (...) Distinguere una logica della ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non e' comune fra i matematici. Il loro amore per cio' che e' chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione (...) La discussione sulle definizioni mostra in molti casi quale senso logico piu' largo venga ad assumere il giudizio razionale".
8.
Galileo si pone insomma, in relazione alla definizione V del Libro V degli Elementi di Euclide, sostanzialmente le stesse domande formulate molti anni dopo dal De Morgan, ma mentre questi cerco' soprattutto di chiarire, e quindi di giustificare, l'approccio euclideo alla questione, Galileo assai arditamente, come del resto suo costume, oso' proporre una sua propria definizione di uguali proporzioni diversa da quella dell'antico maestro(29).
Non si puo' qui entrare in particolare dettaglio su come Galileo "ritenne di correggere dal punto di vista didattico-intuitivo la definizione V"(30). Cio' che e' importante sottolineare e' comunque il fatto che egli fu spinto ad operare tale correzione, e comprendere quindi le motivazioni che lo ispirarono. In conclusione di questo discorso, possiamo dire che, dopo essere partiti respingendo le costruzioni aritmetiche dei numeri reali, e riproponendo quindi nella fondazione della matematica(31) la centralita' della geometria euclidea (quale unica descrivente la categoria "spazio" dell'intelletto umano), e' merito di Galileo se ci accorgiamo che non e' sufficiente essersi collocati nell'ambito della geometria euclidea per ottenere automaticamente una presentazione la piu' naturale possibile dei vari concetti della matematica. Anche nell'ambito di questa occorrera' prestare ogni attenzione ai dettagli fondazionali, ed esaminare con cura ogni possibilita' di definizione, indagando la conformita' di queste ai processi mentali naturali dell'individuo. Del resto l'esempio di Galileo, qui come altrove, ci spinge anche a maggiore autonomia e coraggio, nel tentare ogni volta diverse strade, quando non si sia perfettamente convinti della validita' delle opinioni comunemente accettate dalla cultura del momento(32).
Nel caso particolare dei numeri reali, vengono cosi' alla mente altre possibili definizioni, diverse e da quella di Euclide e da quella di Galileo.
Accenniamo soltanto a questo proposito alla possibilita' di appoggiarsi per la definizione di uguale proporzione alla geometria del piano ed al "teorema" di Talete. Con un siffatto approccio "statico", contrapposto a quello che si potrebbe dire "dinamico" sia di Euclide che di Galileo, si esce dalla geometria della retta (che potrebbe del resto essere considerata come facente parte di un successivo momento di astrazione), per porre la questione dei fondamenti in relazione alle proprieta' intuitive della geometria del piano, con ogni verosimiglianza direttamente legate ai nostri processi mentali per il tramite del meccanismo della visione.
Si ritrova cosi', come conseguenza abbastanza inaspettata, almeno per chi sia cresciuto nutrito dei "dogmi" del pensiero scientifico moderno, che sono la teoria delle parallele ed il famoso V postulato di Euclide, piu' che l'aritmetica e la logica, a giocare forse un ruolo importante anche nella genesi naturale del concetto di numero come misura.
NOTE
(*) Relazione presentata al Convegno interdisciplinare su "I modelli scientifici nella realta' fisica", Roma e Bari, maggio 1989. Nel testo sono presenti ampie citazioni di precedenti lavori dello stesso autore su analoghe questioni: "Sui numeri come risultato delle operazioni logiche del contare e del misurare", Pubblicazione interna del Dipartimento di Matematica dell'Universita' degli Studi di Perugia, a cura di L. Guerra, F. Pambianco, E. Platoni, A.A. 1983/84; "Tendenze "monofisite" nei fondamenti della matematica", Incontri sulla Matematica N. 3, Quaderni della Mathesis, Ed. Armando, 1986; "Galilei e i numeri reali", Relazione presentata al IV Seminario di Studi su "Momenti della cultura matematica tra '500 e '600", Acquasparta, 1988 (in corso di stampa).
(ø) Dipartimento di Matematica, Universita' degli Studi, Perugia.
(1) "Parabole e catastrofi", Intervista su matematica, scienza e filosofia, a cura di G. Giorello e S. Morini, Il Saggiatore, 1980, p. 28.
(2) A proposito della pretesa "irrazionalita'" delle teorie fisiche che non riconoscono il ruolo fondante delle citate categorie del pensiero (costituenti nel loro complesso un "principio di razionalita'"), bisogna affrontare un'obiezione di J.C. Polkinghorne (in "Il mondo dei quanti", Garzanti, 1986, p. 23), il quale rileva come in fondo la matematica non possa non essere considerata come la piu' alta espressione della razionalita' umana, sicche' una "spiegazione" in termini matematici, ancorche' non traducibile nel linguaggio comune dell'esperienza ordinaria, non possa essere ritenuta come non-razionale. A questa osservazione si puo' obiettare che mentre la matematica e' la scienza che indaga tutte le possibilita' razionali, la fisica va intesa piu' restrittivamente come la scienza che indaga la costituzione di quell'unica razionalita' che coincide con il reale, e resta quindi sempre valido l'antico ammonimento di Francesco Bacone secondo il quale "la matematica e' al termine della filosofia naturale, ma non la deve ne' generare, ne' procreare" (Novum Organum, II, 96 - citazione da N. Abbagnano, Storia della Filosofia, Ed. U.T.E.T., 1982, Vol. II, p. 181). Su questo argomento vedi anche la nota (31). Infine, a proposito della accennata "reazione", si vedano ad esempio gli Atti del Convegno su "Physical Interpretations of Relativity Theory", British Society for the Philosophy of Science, Londra, 1988, e tra questi in particolare la relazione di F. Winterberg, il recente testo di F. Selleri, La causalita' impossibile, Ed. Jaca Book, 1988, e la nota di R.L. Oldershaw, "The new physics - Physical or mathematical science?", Am. J. Phys., 56 (12), 1988, pp. 1075-1081.
(3) Si puo' osservare al riguardo che la prima vera enfatizzazione del ruolo della matematica nella fisica avviene nella contrapposizione (non casuale) dei titoli di quelle due opere fondamentali per lo sviluppo della cultura moderna che sono i "Principia Philosophiae" di Cartesio, ed i "Philosophiae Naturalis Principia Mathematica" di Newton. Nella edizione di Amsterdam del 1723 il termine "Mathematica" nel frontespizio della pubblicazione e' stampato in caratteri assai piu' grandi degli altri tre! E' forse interessante aggiungere il parere di R. Thom (loc. cit., p. 8): "Cartesio, con i suoi vortici e i suoi atomi uncinati, spiegava tutto e non calcolava nulla; Newton con la legge di gravitazione calcolava tutto e non spiegava nulla (...) non sono affatto convinto che il nostro intelletto possa accontentarsi di un universo retto da uno schema matematico coerente, privo pero' di contenuto intuitivo".
(4) Si e' sostenuto spesso con eccessiva facilita' che la "scoperta" delle geometrie non-euclidee avrebbe arrecato un "colpo mortale" alla filosofia kantiana dello spazio. H. Meschkowski sostiene ad esempio che sia "impossibile all'uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant" ("Mutamenti nel pensiero matematico", Ed. Boringhieri, 1973, p. 87), mentre B. Russell parla di "quella massa di pregiudizi non analizzati che i kantiani chiamano intuizione" (citazione da C. Mangione, "Logica e problema dei fondamenti nella seconda meta' dell'800"; sta in L. Geymonat, "Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico", Ed. Garzanti, 1971, vol VI, p. 369). Val forse allora la pena di riportare per intero la confutazione di questa opinione effettuata da G. Simmel nel 1904 (citazione da P. Martinetti, "Kant", Ed. Feltrinelli, 1968, p. 47), che pure ci piace spesso ripetere: "Gli assiomi geometrici sono cosi' poco necessari logicamente come la legge causale; si possono pensare spazi, e quindi geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perche' essi solamente la costituiscono. Helmholtz erro' quindi completamente nel considerare la possibilita' di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da Kant affermato. Infatti l'apriorita' kantiana significa solo universalita' e necessita' per il mondo della nostra esperienza, una validita' non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie anti-euclidee varrebbero a confutare l'apriorita' dei nostri assiomi solo quando qualcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudo-sferico, o a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale non valesse l'assioma delle parallele".
(5) All'aritmetizzazione dell'analisi segui' in effetti una fase di logicizzazione dell'aritmetica, secondo quello schema che viene indicato con il nome di riduzionismo ottocentesco. Questo condusse pero' nei primi anni del 1900, dopo la scoperta dei primi paradossi dell'infinito nella teoria degli insiemi, a quel momento che viene ricordato come la crisi dei fondamenti, sicche' il programma riduzionista non puo' comunque dirsi coronato da un vero successo.
(6) Da C. Mangione, loc. cit., p. 369.
(7) Da C.B. Boyer, Storia della Matematica, Ed. I.S.E.D.I., 1976, p. 642.
(8) Da C. Mangione, loc. cit., p. 359.
(9) H. Weyl, "Filosofia della matematica e delle scienze naturali", Ed. Boringhieri, 1967, p. 61.
(10) H. Weyl, "Il continuo, Indagini critiche sui fondamenti dell'analisi", 1917; Ed. italiana, Bibliopolis, 1977, p. 10.
(11) Citazione da F. Enriques, "Le matematiche nella storia e nella cultura", Lezioni pubblicate per cura di A. Frajese, Ed. Zanichelli, 1938, p. 148. A proposito del "vuoto", si pensi al ruolo fondante dell'insieme vuoto in certe assiomatiche della teoria degli insiemi!
(12) "Una scienza non puo', nella individuazione e definizione del proprio campo di indagine, andare oltre una rappresentazione isomorfa di esso. In particolare, ogni scienza rimane del tutto indifferente circa l'"essenza" dei propri oggetti" (H. Weyl, "Filosofia della matematica e delle scienze naturali", loc. cit., p. 31). Si faccia pero' anche riferimento a questo riguardo a quanto successivamente detto a proposito della possibile distinzione tra una "logica dell'intelletto" ed una "logica della ragione", suggerita saggiamente da F. Enriques (cfr. la nota (28)), e si osservi che ovviamente tutto sta qui nell'intendersi sul significato della parola "scienza"! (13) Tanto per usare un'espressione contenuta in una lettera del 1916 di A. Einstein a P. Ehrenfest (da A. Pais, "Subtle is the Lord ... ", Oxford University Press, 1982, p. 261). Il commento di Einstein si riferisce alla presentazione della teoria della relativita' generale elaborata da D. Hilbert, che fu proprio uno dei principali sostenitori della filosofia formalista: "I don't like Hilbert's presentation ... unnecessarily special... unnecessarily complicated ... not honest in structure (vision of the Ubermensch by means of camouflaging the methods)".
(14) Citazione da F. Enriques, loc. cit., p. 140.
(15) Cfr. ad esempio H. Weyl, "Filosofia della matematica e delle scienze naturali", loc. cit., p. 44 e p. 41: "Circa il rapporto in cui il numero si trova con lo spazio e il tempo, si puo' osservare che il tempo, come forma della pura consapevolezza, costituisce un presupposto essenziale, e non accidentale, delle operazioni mentali su cui si fonda il significato degli enunciati numerici"; "occorrono speciali considerazioni per assicurare il fatto fondamentale che il risultato del contare e' indipendente dall'ordine".
(16) Tra questi, ad esempio, G. Scorza Dragoni, Elementi di Analisi Matematica, 3 voll., Ed. Cedam, Padova, 1963.
(17) J.H. Conway, "On numbers and games", Academic Press, 1976, p. 4.
(18) Si veda a questo proposito anche quanto osservato da J.H. Conway, loc. cit., p. 3. Nella affascinante definizione di Conway dei numeri come giochi, che fornisce un "grande" campo di numeri (in termini tecnici, un campo il cui sostegno e' una classe propria, e non un insieme, secondo la distinzione di J. von Neumann), ci si imbatte in tutti i numeri reali, tutti i numeri ordinali, e tanti altri "numeri" inusuali, quali "infinitesimi attuali" del tipo degli inversi degli ordinali infiniti, e le loro radici quadrate, o cubiche, etc.; ma non appare mai un numero che elevato al quadrato sia uguale a -1 : "In the system we shall describe, every number has its own unique name and properties...But the number i = sqr(-1) will not arise in the same way, since there is no property enjoyed by i which is not shared by -i".
(19) Per usare un'espressione che compare in I. Lakatos, "La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici"; sta in "Critica e crescita della conoscenza", Campi del Sapere, Ed. Feltrinelli, 1984, p. 240. Molto si potrebbe dire sulla presenza di una tale moda anche nella fisica, a proposito ad esempio del successo di teorie quali quella della relativita' ristretta, etc.. In effetti, la premessa ideologica per la loro affermazione (naturalmente una volta concepita una teoria fisica come un frammento di informazione sulla costituzione autentica della natura, una intuizione su qualcuna delle sue caratteristiche essenziali, e non gia' come una serie di ricette efficaci) e' identica a quella che si puo' constatare essere presente nella filosofia della matematica del periodo che stiamo illustrando, dopo di aver rilevato anche da un punto di vista storiografico gli "appoggi" che le "nuove" interpretazioni della matematica e della fisica si sono reciprocamente fornite (con espressione significativa, possiamo parlare dello "spirito di Gottinga"). L'aspetto paradossale della situazione e' che da una premessa positivista si sia andati a finire poi in punti di vista decisamente "poco razionali", ed in filosofie "oscure", sicche' diventerebbe difficile dire a questo punto chi sia "piu' positivo" oggi, se l'"ortodossia" attuale, o la sua opposizione.
(20) Questi vanno naturalmente pensati a meno di un punto di applicazione, il che suggerisce l'opportunita' di introdurre esplicitamente sin dall'inizio la nozione di "vettore". Questa conduce poi subito a sua volta al concetto di numero negativo, in relazione alla presenza dei due versi della retta. Un numero negativo viene ad essere definito infatti come un "rapporto" tra due vettori contraversi. Si osservi anche che, sotto questo punto di vista, l'operazione fondamentale non e' tanto il prodotto di un vettore per un numero reale, come si fa nell'ordinaria teoria degli spazi vettoriali, quanto piuttosto il rapporto tra vettori, che produce un numero. Si sostiene cosi' che anche la nozione di numero negativo, come peraltro quella di numero razionale, debba essere piu' opportunamente riconsiderata come propria della concezione del numero come misura, e legata quindi all'intuizione geometrica, piuttosto che di considerazioni di natura aritmetica (costruzioni simboliche del risultato di operazioni non ammissibili, o peggio, come pure si fa spesso, attraverso l'introduzione del concetto di "debito").
(21) Secondo un'opinione di M. Simon, condivisa peraltro anche da H.G. Zeuthen (citazione da T. L. Heath, The thirteen books of Euclid's Elements, Dover Publications, 1956, Vol. II, p. 124).
(22) T. L. Heath, The thirteen books of Euclid's Elements, Dover Publications, 1956, Vol. II, p. 124.
(23) Basta tenere presente la lunga controversia sul tema se si potesse o no applicare la teoria euclidea anche agli angoli curvilinei, quali ad esempio l'"angolo di contingenza". Osserviamo peraltro che un'analisi attenta della situazione individuerebbe in realta' soltanto i segmenti come gli enti concettuali adatti all'applicazione delle prescritte necessarie proprieta'. Se e' vero infatti che Euclide evita accuratamente di parlare di sottomultipli, gia' soltanto il ricorso all'operazione di multiplo, intesa come un'operazione tra "grandezze" che fornisca un risultato univoco, forza la detta conclusione. In particolare, soltanto al segmento sembra potersi applicare la seguente considerazione di Husserl: "permette uno smembramento tale che i pezzi ottenuti appartengono per loro stessa definizione a una specie non diversa da quella determinata dalla totalita' indivisa" (citazione da H. Weyl, "Filosofia della matematica e delle scienze naturali", loc. cit., p. 64).
(24) Citazione da T.L. Heath, The thirteen books of Euclid's Elements, loc. cit., vol. II, p. 122.
(25) Si tratta di un Principio di giornata aggiunta (Giornata quinta) contenuto nei "Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze", intitolato "Sopra le definizioni delle proporzioni d'Euclide" (ci riferiremo qui sempre all'Edizione Boringhieri, 1958). Nonostante si tratti di uno scritto composto come detto negli ultimi anni della vita di Galileo, esso concerne peraltro una questione che certamente Galileo "sentiva" gia' da molto tempo: "avendo io un poco di dubbio gia' antiquato intorno a questa difinizione".
(26) Secondo un'opinione di P.K. Feyerabend, "Contro il metodo, Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza", Campi del sapere, Ed. Feltrinelli, 1984, pag. 53.
(27) Per usare le parole dello stesso Galileo in una lettera al Granduca di Toscana: "Quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei oltre al nome di Matematico, che S.A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato piu' anni in filosofia, che mesi in matematica pura" (citazione da "Galileo e la matematica", Saggi su Galileo Galilei, Comitato Nazionale per le manifestazioni celebrative del IV centenario della nascita di Galileo Galilei, Ed. Barbera, Firenze, 1967).
(28) Loc. cit., p. 148.
(29) Si potrebbe pensare che proprio l'atteggiamento di eccessiva "venerazione" verso il contenuto e l'impostazione degli Elementi di Euclide sia stato responsabile di un cosi' grave ritardo nella comprensione del problema costituito dalle cosiddette "geometrie non-euclidee", la cui "soluzione" non sembra rivestire particolari difficolta' ne' di ordine matematico, ne' di ordine filosofico, a meno di fraintendimenti della questione (vedi anche la nota (4)). In effetti, la stessa attenzione posta fin dall'antichita' nei confronti del V postulato di Euclide sembra originare soltanto dalla particolare forma con cui questo fu proposto da Euclide, il quale anche nella scelta del postulato in oggetto (al posto di altri equivalenti piu' "semplici" e "naturali") appare suscettibile delle stesse critiche che qui vengono avanzate in relazione alla teoria delle proporzioni (sullo stesso argomento vedi anche la nota (23)). Altrettanto discutibile, anche se non e' usuale di farlo, e' il metodo di procedere con un numero il piu' piccolo possibile di grossi "assiomi", posti tutti all'inizio dell'argomentazione, anziche', come pure sarebbe possibile, con un insieme di micro-assiomi introdotti nel discorso di volta in volta non appena se ne presenti la necessita'. Il primo procedimento mette in ombra l'aspetto descrittivo della matematica, facendola erroneamente considerare come un'immensa "tautologia".
(30) Da A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Ed. Veschi, 1962, p. 158.
(31) Intesa questa disciplina, almeno ad un livello iniziale, come una "investigazione delle leggi dell'intelletto", ad imitazione del titolo della celebre opera di G. Boole, 1854 (si veda al proposito anche la nota (29)). E diciamo soltanto ad un livello iniziale, perche' e' giusto, e bello!, che la matematica si trasformi successivamente nello "studio di tutte le possibilita' di pensiero di una mente infinita" (secondo un'espressione di G. Takeuti, citata da R. Rucker, "Infinity and the Mind, The Science and Philosophy of the Infinite", Birkh„user, 1982, Prefazione). Questa trasformazione non deve far dimenticare pero', tanto piu', come si e' spesso qui ripetuto, in un momento didattico, l'ordine naturale con il quale i vari concetti si edificano l'uno sull'altro, senza "camuffamenti" (cfr. la nota (13)).
(32) Anche se "con lo spirito del tempo non e' lecito scherzare: esso e' una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l'ingrata proprieta' di volersi affermare quale criterio assoluto di verita', e pretende di avere per se' tutta la razionalita'" (C.G. Jung, "Realta' dell'anima", Saggi, Ed. Boringhieri, 1970, p. 13).
Perugia, dicembre 1989