In ordine a proposte di nuovi modelli di universita'...

 

Note le posizioni che condivido oggi sull'argomento, e' stato portato alla mia attenzione qualche settimana fa l'articolo apposto in calce. Ho ritenuto doveroso divulgarlo con qualche adeguato commento, visto che purtroppo l'infatuazione per certe concezioni "americano-liberiste" comincia a farsi sempre piu' diffusa anche nel campo di coloro che - al pari di me - sono insoddisfatti di come e' stata ridotta la nostra istituzione da trenta anni di bombardamento demagocratico, ma rivolgono i tentativi di trovare un rimedio concettuale proprio dalla parte di chi e' responsabile di tutto il dissesto, rischiando di cadere cosi' dalla padella nella brace...

1 - Quale modello di universita' e' fallito?

E' necessario premettere in generale che, se lo scopo della scienza e' di coltivare dei metodi razionali per accrescere la conoscenza, e quindi la capacita' di poter dirimere le controversie di natura oggettiva(1), quella di cui mi occupero' nel seguito e' invece una questione che presenta un alto livello di opinabilita', sicche', dal punto di vista LOGICO-ASTRATTO, non varrebbe la pena di rimproverare nulla agli autori dell'articolo. Le cose si presentano invece in modo assai diverso sotto il punto di vista che possiamo dire STORICO, ovvero relativo a dati di fatto.

Cominciamo dal titolo dello scritto: "Il fallimento dell'università italiana". Esso induce a credere che ci sia stato finora nel nostro paese, diciamo nell'ultimo mezzo secolo, UN SOLO modello di universita', la cui struttura andrebbe superata secondo le linee di un SECONDO tipo di universita', suggerite dagli scriventi [i quali si limitano peraltro a proporre lo scimmiottamento pedissequo del "modello nordamericano"; non a caso indicano come sedi di provenienza due prestigiose istituzioni statunitensi, a fornire cosi' un indiretto elemento di "autorevolezza" delle opinioni espresse]. Ma e' lecito definire l'attuale universita', in cui sono invero palesi i segni del dissesto [di natura maggiormente ideale che non materiale, anche se ci si affanna usualmente a sottolineare le sole difficolta' economiche], quale l'universita' italiana senza ulteriori specificazioni? Non sarebbe invece piu' onesto riconoscere come il detto fallimento sia il (prevedibile) risultato delle tante "riforme" operate dal 1968 in poi da parte dei poco illuminati governi "democratici" che si sono succeduti nella guida del nostro paese(2)? Pure l'odierno Presidente del Consiglio Amato, parlando (durante l'ultima cerimonia d'inaugurazione dell'anno accademico a Perugia) di "poco promettenti" carriere accademiche, di facili imboscamenti, di un modo comune molto discutibile di intendere oggi la ricerca universitaria [che produce lavori la cui alta specializzazione formalistica e' inversamente proporzionale all'interesse culturale del contenuto; il fatto e' che questi "prodotti" vengono intesi quasi esclusivamente come "buoni" spendibili nel gioco della progressione nella gerarchia e nello stipendio], ha potuto comodamente "bacchettare" l'ambiente, senza completare pero' le sue condivisibili contestazioni con l'ammissione che certe disfunzioni sono l'evidente conseguenza delle scelte di ben precise forze politiche, del cui operato anch'egli deve ritenersi largamente responsabile. Immissione selvaggia nei ruoli, esortazioni (esplicite o no) alle promozioni di massa, a coprire cosi' la progressiva "deculturazione" di docenti e discenti, proliferazione di sedi universitarie e corsi di studio a dir poco improvvisati(3), etc.. Facile, oggi che certi guai sono davanti agli occhi di tutti, dire che bisogna cambiare rotta: bisognava pensarci prima, quando era necessario opporsi a un evidente "gioco al massacro" [peraltro non l'unico, ne' il piu' importante, di cui sono state oggetto nel corso degli ultimi decenni le "strutture tradizionali" nel nostro paese].

La conclusione di questa prima parte e' che sarebbe corretto aggiungere, parlando di "fallimento dell'universita' italiana", qualche aggettivo specificativo, per esempio del tipo: dell'universita' italiana "post-sessantottina", oppure "democratica", o "di massa", o "del dopoguerra", etc..

2 - Quali rimedi?!

Essendo scontato che bisogna cambiare rotta, e presto, il problema difficile e' pero' decidere come, in quale direzione. Gli autori dell'articolo all'origine di queste riflessioni [persone che non conosco: non so se siano dei maturi professori, o dei giovani yuppies, specialisti che si trovano piu' o meno per caso in America, con qualche borsa di studio o contratto a termine, e sono rimasti abbagliati dalla ricchezza del paese, dalla "fortuna" che gli e' capitata, dal riconoscimento dei loro talenti, presumibilmente sottovalutati in patria] non fanno invero un grande sforzo di fantasia, e da "medici moderni" (del tipo di quelli che stabiliscono le cure sui testi, ignorando lo specifico malato), strillano a gran voce che bisogna imitare gli attuali "signori del mondo", ma in cio' commettendo almeno DUE errori metodologici.

Il primo consiste nell'ignorare il principio che ho chiamato di Diodati (vedi in questo stesso sito, nella rubrica "Dissensi e Consensi", il punto N. 28, "L'Universita' e i Soloni riformisti"), in ossequio al collega fisico che me lo ha fatto presente un po' di tempo fa:

ESISTONO SEMPRE MOLTI MODI PER PEGGIORARE UNA SITUAZIONE, MA QUALCHE VOLTA NEPPURE UNO PER MIGLIORARLA.

Il secondo, cui si e' gia' accennato, proviene dal non comprendere che la medesima medicina puo' non apportare identici benefici a pazienti diversi. E' a dir poco azzardato proporre l'imitazione del modello nordamericano (o inglese) qui da noi, ignorando le CONDIZIONI AL CONTORNO che lo fanno funzionare nei paesi d'origine: vale a dire, la ricchezza, le strutture economiche, le tradizioni sociali. Ammesso infatti che la nostra universita' si trovi attualmente in un grave stato di malessere (abbiamo detto spirituale prima che materiale), come potrebbe essa stessa porvi rimedio seguendo la prescrizione "liberista" indicata, con le sole proprie forze? E' facile viceversa prevedere quello che succederebbe se si seguisse la ricetta di Alesina e Perotti IN ITALIA OGGI (i proponenti il "rimedio" hanno dimenticato i due piccoli particolari di TEMPO e di LUOGO): quanti dei riconosciuti "mediocri"(4) docenti universitari attuali, che costituiscono "democratiche" maggioranze per lo piu' in virtu' di accordi di spartizione e di "non aggressione", non sarebbero disposti a far propria, in attesa di nuovi sviluppi, la considerazione della marchesa de Pompadour: "Dopo di me il diluvio"? Si e' facili profeti nel prevedere che non sarebbero pochi coloro che si darebbero da fare per "sistemare" in comode "cattedre" parenti, "amici", compagni di partito, etc. [tendenza che appare del resto gia' in atto: la Facolta' di Giurisprudenza dell'Ateneo della capitale ha recentemente assegnato la cattedra di Scienza delle Finanze al ministro Visco, e quella di Diritto Romano all'ex ministro Diliberto - "Il Messaggero", 22.9.2000], fornendo cosi' in ogni caso la base per delle tuttora ricercate "pensioni a vita".

I due nostri "eroi" ricordano, per cautelarsi da siffatti rischi, il luogo comune che il "mercato" punira' chi fa cattive scelte, ma questo e' il loro TERZO errore metodologico: un'opinione assai poco convincente, che piu' viene ripetuta e piu' appare peggio che sciocca, illusoria [in effetti, il concetto dell'auto-organizzazione, ovvero dell'emergenza necessaria dell'ordine dal caos, puo' dirsi un vero e proprio "mito" ideologico di fine millennio], poiche' trascura non solo la circostanza che nel mercato prosperano gli Azzeccagarbugli e i Dulcamara, ma anche il problema del TEMPO necessario perche' una simile entita' astratta possa trovate dei correttivi in modo "spontaneo". La differenza tra lungo, medio e breve termine non e' di poco conto nell'arco di una vita umana, e i Dulcamara sanno bene infatti misurare i tempi delle proprie truffe, cambiando velocemente di sede ("Tanto tempo e' sufficiente per cavarmela e fuggir") - alcune "imprese" moderne che vivono degli espedienti del mercato ricorrono piu' semplicemente al cambio di denominazione! E tutto cio' trascurando il "costo", diciamo pure in termini di "sofferenza popolare", dei tempi d'attesa indispensabili per l'affermazione di questi famosi "giudizi" del mercato (che sarebbero poi verosimilmente influenzati dalle capacita' di controllo dell'informazione, e quindi dalla "pubblicita'" - se "ingannevole" o meno non sembra interessare molto, nel regno dell'effimero). Quanti avvocati, giudici, medici scadenti, etc., dovrebbe sopportare la nostra societa', prima che si possa stabilire un collegamento con le sedi da cui provengono? Gia' adesso mi si dice che ci sono degli atenei i quali, per attirare studenti, ed evitare le intelligenti "disincentivazioni" ministeriali calcolate sulla base di un elevato numero di "fuori corso", promuovono con esami farsa, ma quello che e' peggio con corsi farsa, costruiti intorno a "dispense" di poche decine di pagine [gli "esami facili" li faccio anch'io da tanto tempo, ma i corsi farsa no: ancora oggi, nonostante tutto, non sono, o dovrei forse dire non erano, la norma]. Si dira', ma in America (tralasciamo d'ora in avanti la pur necessaria specificazione di luogo) funziona tutto benissimo cosi': ho molti dubbi su quel "benissimo", e nella prossima sezione affrontero' pure tale argomento. Mi avvio invece verso la conclusione di questa sostenendo che l'universita' "americanizzante" in Italia rischierebbe di trasformarsi assai presto in corsi per la vendita in TV di sistemi per sicure vincite al lotto, o per la lettura dei tarocchi, in cattedre attribuite alle (numerose) Rosemary Althea, a politici di dubbio talento, a uomini di spettacolo sulla via della decadenza, etc. [non a caso, le "lezioni" piu' frequentate alle quali mi e' capitato di assistere negli ultimi tempi, sono state quelle tenute da Carlo Verdone, Sabina Guzzanti, e altri, chiamati "in cattedra" dalla neonata perugina Facolta' di Scienze della Formazione], o (perche' no? visto che l'argomento e' al primo posto nelle classifiche dei siti visitati in Internet, e quindi confortato dai valori del "mercato") a specialisti in pornografia, soft o hard (la distinzione e' d'obbligo, dal momento che se la seconda e' ancora bandita dalla morale comune, la prima si e' ormai largamente affermata pure nelle trasmissioni proposte dalle reti di Stato - e' proprio di questi giorni la notizia che la RAI stipendia lautamente un consulente in pornografia, come dire che c'e' offerta di posti di lavoro anche per tali "professioni"), e cosi' via. Nel migliore dei casi, gli argomenti di tipo "scientifico" favoriti dalle richieste del famoso "mercato" concernerebbero presumibilmente l'inquinamento elettromagnetico (provocato da telefonini e simili), i prioni, l'ingegneria genetica, etc., ovvero, come far fronte ai guasti che un uso dissennato della scienza e della tecnologia sta producendo ANCHE sul versante materiale.

Per riassumere, e' lecito ritenere che certe "cure" avrebbero solo l'effetto di danneggiare maggiormente il "malato", una conseguenza che si puo' supporre largamente prevista, e anzi auspicata, da coloro che hanno interesse a indebolire ulteriormente il nostro sistema educativo, e quindi la "forza" dell'Italia nel suo complesso - poiche' il detto sistema riveste un ruolo ovviamente essenziale nella formazione delle nuove generazioni - e compiere cosi' un decisivo passo in avanti verso il completo disfacimento del paese (caso Jugoslavia docet)(5).

3 - In quale modello di societa' va inserita una proposta di riforma dell'educazione superiore?

Un ulteriore elemento di scetticismo nei confronti delle opinioni espresse da Alesina e Perotti mi viene dalla banale constatazione che un sistema educativo e' funzionale evidentemente a un certo modello ideale di societa', a una "concezione globale del mondo", sicche' bisognerebbe chiedersi se l'Italia vuole davvero imitare non solo l'universita' americana, ma pure la societa' americana in generale, con i suoi "valori" di stampo unidimensionale darwinista ("In Go[l]d we trust"), interessati unicamente alla sopravvivenza materiale e al "benessere" economico. Una societa' la cui opulenza e' oggi reclamizzata con grande enfasi [su tale "ricchezza", e le sue "radici", e' lecito avanzare delle riserve - vedi per esempio il punto N. 41, " The american way of life: newyorchesi nell'inferno della riviera adriatica", nella citata rubrica "Dissensi e Consensi"], della quale chi vive al suo interno puo' pero' scrivere, sul tema della famiglia e delle relazioni tra i sessi, e tra genitori e figli:

"The family is finished, fallen into disrepair … The end result is large numbers of men and women living separately - desperate and lonely. The effect on children is an absolute national disaster."

Che non si tratti di una lettura esagerata di determinati fenomeni sociali da parte di persone "vecchie" e sorpassate, e' confermato da numerose fonti, come libri, films, etc.: il recente "American Beauty" bene descrive, tra gli altri, una societa' in completa crisi morale(6). Del resto, non e' forse vero che gli USA dalla loro nascita sono stati coinvolti in un grande numero di conflitti armati, provocati per lo piu' da meri interessi economici? Che hanno bombardato i territori di tanti paesi, sostanzialmente privi di paragonabile forza, senza mai subire da questi un attacco sul proprio? Che hanno praticato l'unico vero genocidio della storia, quello dei Pellerossa? Che hanno seminato l'intero mondo di rivolte militari, congiure di palazzo, sommosse di piazza, intervenendo direttamente con l'oro (in realta', con la "carta") nella corruzione di intere classi politiche? E' irrilevante che decine di milioni di cittadini americani vivano senza una casa, e senza assistenza, e che altrettanti vivano nel terrore di poter perdere da un momento all'altro questi "benefici", in virtu' della "provvisorieta' strutturale" di un sistema economico costruito sul "mercato selvaggio"? Che soltanto una bassa percentuale di cittadini eserciti il diritto di voto(7), permettendo cosi' a delle elites economiche e finanziarie di proseguire indisturbate nel controllo del potere reale, proponendo a quei pochi che continuano a credere in certi giochi di "scegliere tra il lupo e la volpe"? [Per citare un'espressione di Gore Vidal - cio' implica un ruolo crescente dei cosiddetti "consulenti per l'immagine": anche da noi sento oggi diverse rappresentanti del sesso femminile sostenere giulivamente che voteranno per Rutelli perche' "e' piu' bello"!]. Che il 50% dell'enorme ricchezza del paese sia controllata solo da un 5% degli abitanti, e che sia mal distribuita nel restante 95%, comprendente una massa di diseredati strappati dalle loro radici culturali, i quali vivono per lo piu' di miraggi e di illusioni? Che gli USA vantino un tasso di criminalita' tra i piu' alti del mondo? (mi si informa che a Washington ci sono 80,6 omicidi l'anno ogni 100.000 abitanti). E il bello e' che, attraverso la grande macchina della propaganda(8), si dilata sempre piu' nel mondo l'immagine del "miracolo americano", del paese che ambisce la pace, che venera la liberta' e la vera giustizia, ed e' interessato a portare i suoi "valori" a tutti i popoli(9).

4 - Conclusioni

C'e' un altro punto importante da commentare: e' vero, come scrivono gli autori dell'articolo in discussione, che sono privi di fondamento i timori che un certo sistema finirebbe per "[favorire] i ricchi", mentre la verita' e' che "con i voucher, tutti, compresi i meno ricchi, avranno la possibilità di scegliere le università migliori per i loro gusti, interessi, abilità e impegno. È il populismo dell'università di oggi che penalizza i redditi medio-bassi […] [e] serve solo ai ricchi"?

Ho molti dubbi anche sulla fondatezza di queste affermazioni (ma non necessariamente sulla "buona fede" di chi le avanza: c'e' sempre chi serve con entusiasmo la causa della propria rovina), che mi sembrano un'altra di quelle forme di propaganda di cui dicevamo nella sezione precedente(10). E' senz'altro falso che l'universita' che si e' riusciti quasi completamente a distruggere servisse solo i ricchi, al contrario, e chi scrive ne e' testimone diretto. Inoltre, essa era concepita quale "servizio sociale", e funzionava anche come "baluardo di conservazione" morale e culturale, i cui benefici "spirituali" ricadevano sull'intera societa' nel suo complesso (vedi i numerosi punti dedicati alla questione universitaria nella pagina Attualita' del presente sito).

Appare significativo che delle parole assai piu' sagge sul problema della scuola e dell'educazione si possano rinvenire invece in un foglietto dei Padri Rogazionisti di Desenzano del Garda (Agosto 2000, N. 7), di cui citiamo un passaggio essenziale:

"La scuola arranca per rispondere alla domanda diffusa di stare al passo con il mondo produttivo e con la societa'; e la nostra e' una societa' che brucia i tempi, e brucia spesso anche esistenze fragili e incerte di giovani piu' poveri di riferimenti familiari e ideali forti. Ma e' sempre vero che la scuola deve stare, in questo senso, al passo con la societa'? Si dimentica che i tempi della scuola non possono e non debbono essere sempre i tempi artificiosamente accelerati del mercato, perche' la scuola attraverso le mediazioni culturali (le materie d'insegnamento) e attraverso le mediazioni personali (le relazioni tra insegnante e alunno) deve fare 'educazione'. E i tempi dell'educare assomigliano ai tempi rigorosi della gestazione e della crescita, non a quelli della macchina. Educare significa perdere tempo per guadagnarne, a condizione che sia tempo speso per dare senso e significati alle cose e alla vita. Ci sono infatti nella scuola dei beni collettivi di memoria e di cultura da tutelare e da trasmettere, senza che essi debbano avere l'approvazione del mercato. [...] La bonta' della scuola si misura non solo dall'attualita' delle tecnologie che adotta o a cui prepara, o dalle manifestazioni e dalle gite scolastiche che organizza; ma, prima ancora, dal senso e dalla visione di un insegnamento che si misuri con i fini dell'educazione: la verita' e il bene della persona e della comunita'".

Particolarmente appropriate nella precedente riflessione l'attenzione alla dimensione temporale, e la cautela nei confronti dell'esaltazione della corsa sfrenata, di chi continua a ripetere il ritornello ossessivo che tutto cambia rapidamente e che quindi "bisogna adeguarsi". Correre, correre, ma nessuno sembra in grado di sapere, e di spiegarci bene: verso dove? Verso un ritorno alla "medievalizzazione", peggiorata dall'esistenza di una "casta di potenti" senza piu' rivali? Verso micro-conflitti, prima di natura economica ma poi chissa', tra nuove citta'-stato? Verso la rinuncia a quei valori di solidarieta' e di assistenza appena conquistati, per i quali le classi inferiori hanno lungamente e aspramente combattuto negli ultimi secoli? Verso l'abbandono, sia pure solo come progetto limite teorico, di una societa' fondata sulla giustizia e sulla carita', che e' stato sempre presente nello sfondo ideale delle civilta' europee ispirate alle concezioni sociali del cattolicesimo?

Come scrive bene Rino Cammilleri (vedi nella citata rubrica "Dissensi e Consensi" il punto N. 36, "Famiglia, matrimonio, eutanasia: 'opinioni' a confronto…"):

"Imboccata la via dell'egoismo (perche' di questo si tratta, e' inutile nascondersi dietro un dito), la teorizzazione ideologica e' poi facile: "liberta'", "volonta' popolare", "sensibilita' mutata" e via sproloquiando. La verita' e' che la societa' "globalizzata", la new economy, le "sfide" della modernita' hanno deciso di sgravarsi dei pesi morti e di quanto rallenta la corsa a rotta di collo verso dove non si sa".

Per avviarci ormai verso la conclusione, la questione dell'universita' e' certamente complessa, anche se la si affronta solo da un punto di vista teoretico, ma, a differenza dei soliti soloni americanofili [alfieri di forme di "carita' pelosa", che cercano di portare a compimento nel loro zelo missionario il progetto del Presidente Roosevelt: "americanizzare il mondo e' il nostro destino" - non si dimentichi: "Timeo Danaos et dona ferentes"], non ritengo esistano delle soluzioni ottimali pratiche, e soprattutto immediate. Al contrario, un'azione correttiva dovrebbe essere, in questo caso piu' che negli altri, assolutamente non precipitosa, ispirata alla stessa circospezione che si userebbe nei confronti di un malato quasi allo stato terminale. Eliminare piano piano le disfunzioni su cui "tutti" sono paradossalmente d'accordo; abolire i recenti incentivi "alla rovescia" [per esempio, verso la attuale "ricerca per bande", che favorisce "grandi" progetti, i quali, sotto il confortevole riparo di titoloni ad effetto - di sapore soprattutto "applicativo" - consentono di fatto l'imboscamento di masse assai poco motivate al vero progresso nella conoscenza]; ridimensionare gradatamente la struttura, utilizzando lo strumento del pre-pensionamento, e cessando la corsa alla proliferazione di sedi e di "cattedre"; reintrodurre criteri di selezione ispirati a senso dello stato ed autentica "vocazione" alla ricerca e all'insegnamento, ovvero ad un'etica superiore agli interessi del singolo, o del "gruppo" [questo e' naturalmente uno dei nodi teorici da affrontare: c'e' chi favoleggia che dalla somma di atti ispirati agli egoismi individuali, possa scaturire spontaneamente il benessere dell'intera societa']; etc..

L'equilibrio tra liberta' e moralita' puo' essere espresso solo attraverso un delicato compromesso tra sensibilita' e cultura, che affondi nelle tradizioni specifiche delle diverse civilta', sarebbe un errore tragico credere all'esistenza di "rimedi universali". Il fatto reale e' che gli italiani si trovano oggi di fronte ad un intero paese - e non solo ad un'universita' - che occorre ricostruire dalle fondamenta, sgombrare dalle rovine tanto psicologiche quanto materiali di una sconfitta militare, liberare da uno stato di occupazione economica e soggezione ideologica senza precedenti nella storia. L'impresa si annuncia difficile, se non impossibile, ma puo' confortare la constatazione che nessun "impero" e' eterno, soprattutto quando le sue "radici" sono tanto corrotte...

 

(1) Conformemente all'opinione di Hans Reichenbach, brillantemente espressa nelle seguenti parole: "I believe that there can be no difference of opinion between mathematical philosophers if only opinions are clearly stated".

(2) Dei quali, piu' che demagogici, si potrebbe semplicemente dire che sono stati al servizio di interessi estranei a quelli del paese, in politica sociale, culturale, economica ed estera, e che hanno distrutto con feroce determinazione cio' che ancora restava dopo la guerra dell'identita' nazionale (per esempio la famiglia, e la cultura contadina, strutture decisamente non omogenee al senso di precarieta' e di nomadismo propri dei disegni mondialisti), utilizzando la strategia di disseminare, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, da essi rigorosamente controllati, i germi di uno stolto oltre che autolesionistico fanatismo anti-nazionalista. Questo si puo' supporre ispirato da veri e propri "dipartimenti per la propaganda e la guerra psicologica" (vedi anche la successiva nota 8), un vero e proprio "conflitto" combattuto da "professionisti" camaleontici e proteiformi - attorniati naturalmente da una massa di "bravi", smaniosi di raccogliere le briciole: persone capaci di dissimulare sul momento di fronte a un'eventuale mala parata, per poi tornare a colpire con maggiore forza in un momento piu' favorevole; abituate a sostenere senza vergogna oggi il contrario di ieri; avvezze ad ogni artificio retorico e ad ogni programmata falsificazione,… la lotta contro le quali e' pertanto molto difficile, soprattutto da parte di persone isolate. Gli avversari hanno infatti tutti gli elementi necessari perche' il successo sia piu' che probabile: progetto, capitale, organizzazione, personale, reclutamento, strategia, coordinamento, ne' sono nel caso frenati nelle loro azioni da nessuno scrupolo di natura morale.

(3) Mi sembra opportuno citare a questo punto, a beneficio del lettore, alcune considerazioni di ben altro spessore tratte dalle "Considerazioni integrative per la stesura del documento su scuola ed università", di Roberto Sanseverino: "Il criterio della definizione di classi di corsi di studio sembra volto alla ricerca di una artificiale parcellizzazione e frammentazione la cui numerosità si scontra anche con la duplicazione e sovrapposizione dei contenuti nell'ambito degli obiettivi formativi e trasversalmente negli incroci delle classi dei due periodi triennale e biennale. Basterebbe considerare i contenuti delle 42 classi per la laurea triennale e quelli delle 114 classi del biennio specialistico per rendersi conto del pletorico affastellamento di indirizzi, settori, materie e obiettivi sovrapposti e ridondanti. Molto più logico ed adeguato ad una Società in movimento e ad una dinamica della conoscenza caratterizzata da innovazione e globalizzazione appare una scelta di pochi grandi indirizzi di "saperi" all'interno dei quali lasciare all'autonomia delle singole Università e Scuole - ma anche agli obiettivi culturali e formativi degli studenti - la costruzione di percorsi diversificati, flessibili ed adattabili alle trasformazioni ed innovazioni delle conoscenze e delle tecnologie. Ed è in questo ambito che vanno rialzati, adeguati e resi omogenei e coerenti gli studi del triennio e quelli del biennio di qualificazione. In questo quadro va collocato l'aspetto della ricerca, elemento fondamentale di una impostazione innovativa ed adatta ad una società che si sviluppa e si rinnova costantemente, nella premessa che il sapere a livello universitario non viene solo trasmesso, ma deve essere soprattutto prodotto. Viceversa il rischio della attuale impostazione è quello di creare una università quantitativa e non qualitativa. Per ricevere fondi si ha bisogno di iscritti e questo tende ad abbassare la qualità, a rendere programmi e materie più semplici e accessibili per raggiungere la massa critica quantitativa. A ciò si aggiunge la deleteria tendenza a distribuire sedi universitarie a pioggia ed a collocare "filiali", "succursali" e "dipendenze" dovunque, nell'improbabile obiettivo di portare l'università "sotto casa", allargando inutilmente la "densità geografica". Alcune conseguenze saranno che la ricerca si farà in altri luoghi ed in altre sedi perché l'intero quadro organizzativo e dequalificatorio spingerà ad una domanda e ad una corrispondente offerta esogena di allocazioni e strumentazioni volte effettivamente ed efficacemente alla ricerca".

(4) L'aggettivo non e' usato con fini denigratori od offensivi, men che meno, nel quadro filosofico di chi scrive, intende riferirsi a una qualche deficienza della "parte spirituale" dei singoli individui. A parte il fatto che esso va inteso in un senso "collettivo" (ma non pertanto privo di valore: si ricordi il "senatores boni viri, senatus mala bestia"), l'appellativo si riferisce alla parte morale e intellettuale dell'attuale classe docente, che e' culturalmente disorientata ed intimorita da un bombardamento ideologico senza pari, sicche', priva di fiducia nella propria autonomia di giudizio, e rassegnata a questo stato di cose, trova rifugio nella "specializzazione", e nel "personalismo".

(5) Purtroppo, verso la dissoluzione dello "stato" concorrono diverse "forze", provenienti anche dalla parte di chi si oppone alle correnti di pensiero "mondialiste" attualmente dominanti. Per esempio, "circoli" legati alla Chiesa cattolica, che vedendo le strutture pubbliche "occupate" da persone ad essa ostili, ritengono legittima l'opera di smantellamento, e ritengono di poter infine supplire al "vuoto di potere" che ne conseguirebbe con la propria organizzazione; movimenti quali la Lega, che traendo motivato fondamento dall'evidente corruzione politica, aspirano alla distruzione della coesione nazionale, anziche' ad un suo rinnovamento; etc..

(6) I cui segni cominciano ad essere visibili pure qui da noi. Quando, scandalizzato dalla visione del film, invitai i colleghi alla seguente riflessione in proposito:

"Il dilemma di Faust...

Cari Colleghi,

mi ero ripromesso un periodo di "silenzio mail", che sarebbe stato interrotto soltanto dalla diffusione del mio "programma rettorale" (tra l'altro, ai colleghi di Scienze MFN non mi sembra sia ancora stato spedito, da lunedi' scorso che l'ho inviato, mentre in altre Facolta' non e' stata fatta nessuna "ostruzione" alla sua diffusione), ma noi prima che fisici, matematici o quant'altro, siamo degli "intellettuali", ed abbiamo anche precise responsabilita' morali nei confronti della societa' che ci permette di vivere comodamente in un tale ruolo. Segnalare quindi quanto si vede come un possibile "male" e' un dovere etico irrinunciabile (se poi uno si sbaglia, dal confronto libero e sincero delle opinioni scaturira' una verita' migliore). A tutti coloro che minimizzano la portata delle trasformazioni in corso, o sono ansiosi di scimmiottare acriticamente gli USA (che bombardarono senza nessun riguardo, e senza precise finalita' "militari", le nostre citta' solo pochi decenni fa, come poi hanno bombardato Hanoi, Tripoli, Bagdad, Belgrado, etc.) segnalo il film "American Beauty", vogliamo davvero andare a finire cosi'?!

Chiudo raccontando un episodio, che e' quello che mi ha poi stimolato a scrivervi. Mentre parlavo di siffatte questioni con una persona, questa mi ha detto che riconosceva certi palesi difetti del "modello americano", amorale, aggressivo e competitivo, ma che bisognava pur riconoscerne i pregi, soprattutto nel campo della tecnologia. La mia risposta e' naturalmente tutta nel titolo di questo mail...

Sempre cordiali saluti, UB",

mi fu risposto che ero in ritardo, e che non avrei dovuto meravigliarmi troppo: "Per quanto riguarda il modello americano e i suoi guasti, temo che tu paventi come possibile qualcosa che e' gia' bello e arrivato tra noi". In effetti, constatiamo un'impennata nella diffusione della droga, del vizio, e della criminalita' (si e' passati dalla societa' delle porte aperte - non mi si dica che non e' mai esistita, perche' IO l'ho vista! - a quella delle finestre con le sbarre e i battenti blindati, e la paura di passare in certi luoghi la sera), mentre le dette diverse condizioni al contorno hanno accompagnato l'avvento della "new economy" nel nostro paese con fenomeni quali la disoccupazione e l'infelicita' giovanile, con uno Stato che dal canto suo cerca di porre rimedio organizzando giochi d'azzardo di massa (vedi per esempio nella citata rubrica "Dissensi e Consensi" i punti N. 27 e 27bis - si puo' sensatamente ritenere che siano ancora queste diverse condizioni al contorno che rendono improponibile il paragone tra il fenomeno dell'attuale immigrazione in paesi che non sono lande desolate, e la nostra emigrazione verso il Sudamerica, gli USA, l'Australia, etc., nel secolo scorso, vedi i Dissensi N. 12, 37, 42); propinando spettacoli anestesizzanti in TV (con comici, ballerine e calciatori, ruoli che costituiscono la comune aspirazione dei soggetti piu' indifesi, i ragazzi); e cosi' via dicendo…

(7) C'e' chi afferma solo un 30%. Del resto, non si puo' non essere demotivati verso un sistema elettorale (presto imitato anche da noi) di cui si puo' sostenere che "puo' vincere chi ha perduto", e che certi voti non servono "a far vincere chi stava dalla stessa parte, ma la parte opposta. Traduzione in italiano: i voti di Rauti a destra possono tornare utili all'Ulivo, cosi' come i voti di sinistra a Bertinotti, Di Pietro, D'Antoni possono tornare utili alla destra della Casa delle Liberta'" (Alberto Provantini, "La lezione americana - Il valore dell'astensionismo e di una terza forza", "Il Giornale dell'Umbria", 1.12.2000). Un corrispondente dagli Stati Uniti mi scrive appunto di esser stanco di votare: "for the lesser of two evils", e che purtroppo non sembra esserci alcuna forma di opposizione concreta praticabile, dal momento che "Currently the public believes they would be wasting their votes by voting for a minor party candidate. If the public were to even slightly believe a minor party candidate could win, it's very possible they would switch from Bore or Gush". Proprio una bella "lezione americana": abbiamo avuto tutti in questi giorni davanti agli occhi gli esiti della consultazione elettorale di cui si parla, che un intelligente giornalista italiano puo' spiritosamente commentare nel seguente modo: "America. Un presidente proclamato da un ufficio presieduto da suo fratello, votato da meno di meta' degli elettori, in un'elezione a cui ha partecipato meno di meta' dei cittadini, fra un paio di mesi verra' a bombardare qualcuno per insegnargli la democrazia" (Catena di SanLibero 51", 4.12.2000, presso: riccardo orioles <ricc@libero.it>).

(8) Peraltro, cospicuamente finanziata e organizzata: "Esiste in America una United States Information Agency, USIA, che tiene sparsi per il mondo 50.000 funzionari, con un bilancio annuo di miliardi di dollari, allo scopo ufficiale di 'influenzare le opinioni e le attitudini del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d'America'". L'"influenza" si estende a produzioni televisive, cinematografiche, al "sostegno" a circoli e uomini politici, etc..

(9) Debbo purtroppo ripetere (vedi punto N. 38bis della citata rubrica "Dissensi e Consensi") che non posso, per ragioni di opportunita' contingente, ringraziare citandola una fonte di diverse informazioni di cui mi sono avvalso, se mi legge capira'...

(10) Tanto per dire di una collegata riforma parallela, l'introduzione della cosiddetta "difesa all'americana" nei nostri processi, riflessioni e preoccupazioni dello stesso tenore di quelle dello scrivente vengono espresse da una persona certamente competente in materia e di tutt'altra parte politica, l'ex magistrato e sindaco di Perugia Giorgio Casoli ("Un Perry Mason all'italiana - La riforma rischia di diventare un nuovo elemento discriminante", "Il Giornale dell'Umbria", 1.12.2000): "Questo tentativo di equiparazione dei poteri del difensore e della pubblica accusa, e' certamente interessante e, per molti aspetti, meritevole di plauso. Io purtroppo non sono dello stesso avviso: non per ragioni di principio, che mi vedono consenziente e favorevole, ma per ragioni pratiche, RAPPORTATE ALLA SITUAZIONE DEL NOSTRO PAESE. Le maggiori prerogative attribuite alla difesa comportano costi crescenti […] il nostro sistema non assicura 'pari opportunita'' ai non abbienti che non possono pagarsi le maggiori spese che comporta un'adeguata difesa; la riforma, di per se', RISCHIA DI DIVENTARE UN'ULTERIORE CAUSA DI DISCRIMINAZIONE FRA IMPUTATI RICCHI ED IMPUTATI POVERI [..] Non tenendo presenti questi aspetti pratici del problema, dei quali non vi e' traccia nella nuova legge ne' in altre in via di sollecita e probabile approvazione, anche questa volta c'e' il rischio che la 'pezza' sia peggiore del 'buco'." [enfasi mie]. Appunto, si tratta ancora una volta di scimmiottare l'America, ma nei suoi aspetti peggiori, che vengono comunemente sottaciuti o sottovalutati.

 

(UB, dicembre 2000)

 

Allegato:

"Gli atenei potranno diventare competitivi solo abolendo i concorsi e cambiando i sistemi di finanziamento. Il fallimento dell'università italiana." (Il Sole 24 Ore, 15/11/00)

di Alberto Alesina (Harvard University)

e Roberto Perotti (Columbia University)

L'università italiana, salvo pochissime eccezioni, ha fallito sia nel campo della ricerca che dell'insegnamento perché è fondata su una filosofia fondamentalmente errata, cioè l'idea del sistema uniforme, pagato dal contribuente anziché dall'utente, con un monopolio pubblico quasi assoluto, privo di incentivi alla produttività e all'eccellenza, e basato sull'applicazione formalistica di regole legali e burocratiche. Le soluzioni prospettate sono invariabilmente di due tipi: più soldi e più regole. Entrambe sono errate. Dare più soldi in mancanza di incentivi adeguati a produrre buona ricerca o insegnamento efficace è il segnale opposto a quello che si dovrebbe dare. Imporre nuove regole serve solo, nel migliore dei casi, a sostituire una distorsione con un'altra, con un effetto netto che è spesso negativo. Una riforma dell'università si deve basare invece su due cardini tra loro connessi: passare dalla logica del regolamento a quella dell'incentivo, e cambiare radicalmente il finanziamento.

Cominciamo dal primo punto, gli incentivi, e prendiamo il sistema di reclutamento dei professori come tipico esempio della logica "legalistica". I concorsi universitari si basano sull'idea che si possa imporre per legge la scelta del candidato migliore e sull'illusione di poter dotare ogni università di docenti della medesima qualità. La realtà è che se un dipartimento vuole assumere un candidato incapace lo riesce sempre a fare, qualunque siano le complesse regole dei concorsi pubblici.

Da qualche anno, eliminati i maxi-concorsi nazionali, i professori vengono assunti con concorsi locali, ciascuno dei quali individua, per ogni posto a disposizione, tre candidati idonei. I due che non vengono assunti entrano a far parte di una lista nazionale dalla quale altre università possono scegliere. Sembrerebbe una riforma radicale. In realtà è un sistema nel quale si può navigare strategicamente tanto quanto in quello precedente anche se con metodi diversi che si sono adattati alle nuove regole. Inoltre, basare le assunzioni su complesse regole amministrative (qualunque esse siano) apre la via a ripetuti conflitti legali, con il risultato che per assumere un docente ordinario ci vogliano anni, qualche volta con l'intervento di avvocati e giudici. È un sistema che produce docenti che vivono a Milano e insegnano, per pochi giorni al mese, a Catania o a Urbino, senza alcun contatto permanente con gli studenti, ma mantenendo la finzione dell'uguaglianza delle sedi universitarie.

La soluzione non è un sistema di regole ancor più complicate per i concorsi, ma abolirli del tutto. Ogni dipartimento deve poter assumere chi, come e quando vuole con la più totale libertà. La qualità dell'università non si può garantire con i regolamenti, ma con un sistema in cui le università che nominano professori incapaci ne subiscano le conseguenze, cioè un sistema con gli incentivi corretti. Un modo efficace per garantire questo tipo di incentivi è quello di cambiare radicalmente il metodo di finanziamento dell'università, e qui ci colleghiamo al secondo punto. Bisogna affidarsi alla concorrenza tra università pubbliche e dare la possibilità a università private di entrare nel mercato. Tutto ciò si può fare passando a un sistema di voucher. Le università pubbliche dovrebbero rendersi finanziariamente autosufficienti, coprendo i propri costi con le tasse universitarie. Supponiamo che questo comporti rette di 20 milioni all'anno, che potrebbero anche variare da una sede all'altra, a discrezione dell'università stessa. Lo Stato userebbe le risorse risparmiate per offrire agli studenti "borse di studio" (voucher) distribuite in funzione del merito e del reddito familiare e che possono essere usate per qualunque università, pubblica o privata. Così si aprirebbe la possibilità per le università private di concorrere con quelle pubbliche.

Università pubbliche e private saranno totalmente indipendenti nelle loro scelte di assunzioni, retribuzioni per i docenti e organizzazione didattica. La concorrenza produrrà anche un arricchimento del menù di scelte per gli studenti. Qualche facoltà si specializzerà nella qualità dell'insegnamento premiando chi insegna bene, altre enfatizzeranno di più la ricerca, riducendo il carico didattico per i più impegnati nella ricerca. Gli studenti potranno scegliere ciò che preferiscono. Se un'università sceglierà e premierà docenti mediocri, che non producono ricerca e sfornerà studenti ventisettenni incapaci che non trovano lavoro, a poco a poco gli studenti si rivolgeranno altrove; questa università perderà così reputazione e introiti e dovrà cambiare gestione e scelte educative.

Uno studente che "paga" 20 milioni l'anno e vede questi soldi uscire dal suo conto bancario (seppure aiutato da voucher) sarà un cliente ben più esigente e attento alla qualità dell'università, creando così gli incentivi corretti. Sarà anche molto più veloce nel finire gli studi, soprattutto se i voucher si riducono o scompaiono per gli anni fuori corso: i quattro anni "fuori corso" dello studente medio gli costerebbero 80 milioni!

Un sistema concorrenziale deve ovviamente accompagnarsi all'abolizione del valore legale del titolo di studio. Bisogna cioè abbandonare la finzione che un laureato di un'università mediocre abbia gli stessi "diritti", almeno nell'impiego pubblico, di uno di un'università molto più competitiva e severa. Il valore legale è un esempio dell'ugualitarismo ipocrita che informa l'università italiana: tutti sanno che una laurea da certe università ha molto meno valore di quella di altre, esattamente come tutti sanno che una laurea a Oxford vale più di una laurea di una piccola università inglese sconosciuta. Abbandoniamo l'ipocrisia anche in Italia.

L'idea dei voucher tipicamente suscita immediate preoccupazioni di equità sociale. I voucher, si sostiene spesso, favoriscono i ricchi. Quali che siano i meriti di questo argomento per la scuola primaria e secondaria, per l'università è esattamente il contrario, per parecchi motivi. Innanzitutto il valore dei voucher può essere regolato in base al reddito. Inoltre, così come avviene negli Stati Uniti, in un sistema competitivo sarà nell'interesse delle università stesse offrire borse di studio (che si aggiungerebbero ai voucher pubblici) per attirare gli studenti migliori, indipendentemente dal loro reddito, per mantenere alta la reputazione dell'università. Infine, con i voucher, tutti, compresi i meno ricchi, avranno la possibilità di scegliere le università migliori per i loro gusti, interessi, abilità e impegno.

È il populismo dell'università di oggi che penalizza i redditi medio-bassi, non offrendo a queste fasce di reddito la possibilità di usufruire di un'università efficiente che non produca disoccupati. I ricchi sono meno dipendenti dalla qualità dell'università, perché possono sempre trovare una soluzione grazie alle loro conoscenze nel mondo del lavoro. Inoltre, oggi all'università ci vanno soprattutto i ricchi, ma i loro studi sono finanziati dalle tasse pagate da tutti i contribuenti, compresi i meno abbienti. Insomma, un sistema educativo efficiente ed esigente serve soprattutto per i ceti medi e bassi, il populismo dell'università italiana di oggi serve solo ai ricchi.