La guerra e i tentativi di condizionamento

dell'opinione pubblica...

 

[L'attuale situazione internazionale mi impone di tornare su una questione che non si puo' passare sotto silenzio, con la scusa della "ricerca" specialistica, o di altri simili "impegni"... - UB, gennaio 2003]

* * * * *

1 - Due lettere "aperte" a mo' di premessa

1-a

Carissima A.,

nel ringraziarti sempre vivamente per le interessanti comunicazioni con cui ci tieni aggiornati, volevo dirti che trovo troppo "silenzio" da parte di certi gruppi cattolico-cristiani intorno a una notizia che dovrebbe viceversa riempirli di soddisfazione e di orgoglio, vale a dire la ferma presa di posizione del Vaticano nei confronti della politica dei due "compari" Bush e Blair (con Israele sullo sfondo, a completare la fosca "trinita'").

Cito testualmente da "La Nazione" del 18.12 u.s.:

- Durissima presa di posizione del Vaticano: "La guerra preventiva, immorale aggressione". (in prima pagina).

- "E cosi' tutti coloro che stanno lavorando a oliare la macchina bellica dell'attacco all'Iraq [chi ha orecchi per intendere intenda, compreso Excalibur, e il Ferrara che ti piace tanto!] ora conoscono, se mai l'avessero dimenticata, quale e' la posizione del Vaticano sulla delicata e controversa questione". (in sesta pagina).

- Poco oltre si richiama la "Pacem in Terris" come un "impegno permanente", e si ricorda che in essa veniva definito "<<contrario alla ragione>> l'uso della guerra come atto per restaurare i diritti violati".

Finalmente un po' di chiarezza, e di COERENZA, che risponde, debbo citarla ancora una volta, alla tua affermazione di qualche tempo fa:

> NESSUNO [della gerarchia cattolica] esclude la guerra tout court, a priori, come fa emergency, ad es., o come fanno i girotondini...

gia' confutata peraltro dall'informazione che ti comunicai in precedenza, e che non ho mai visto smentita:

> La Conferenza Episcopale USA - la massima assemblea della Chiesa Cattolica negli Stati Uniti - ha emesso un documento ufficiale di condanna della politica militare del governo, invitando fra l'altro i fedeli a praticare l'obiezione di coscienza contro una eventuale guerra in Iraq. La decisione e' stata presa quasi all'unanimita' (quattordici voti contrari su duecentoquaranta).

Aggiungo che ancora "La Nazione" riferisce di un sondaggio secondo il quale: "due americani su tre non vedono un chiaro <<casus belli>> per attaccare l'Iraq", con tanti saluti alla "falsa" democrazia che impera sia qui da noi sia evidentemente oltreoceano... (se si e' davvero in buona fede, perche' non si organizzano solleciti referendum per decidere di questioni tanto importanti? In Italia non abbiamo avuto modo di vederli in atto neanche sulle questioni "europee" - non che io preveda, con l'attuale continuo "lavaggio del cervello" mediatico, risultati strabilianti, ma forse certi numeri costringerebbero taluni personaggi a non continuare a fare finta di nulla).

Ciao, e nuovamente AUGURI, a te e a tutti gli amici cui pure scrivo p.c.,

il tuo UB

1-b

Carissima A.,

mi ero ripromesso il SILENZIO [del resto, proprio con il "silenzio" sono state accolte tutte le mie osservazioni critiche sul comportamento non coerente di alcuni cattolici, e ho visto recentemente su "Il Foglio" anche esponenti di questa parte chiedersi se bisognasse proprio prestare ascolto, e rispondere, a tutti - nel caso specifico ad Asor Rosa; dispiace che taluni atteggiamenti rischino di portare argomenti a favore della tesi di Funari, quando sostiene che i cattolici fanno usualmente sfoggio di vera ipocrisia e di falsa moralita'!] ma proprio non riesco a resistere di fronte a questo tuoi ultimi mail di accompagnamento ai nuovi editoriali di Galli della Loggia* [vedi in calce, *1 e *2], e ad alcune domande in esso sono contenute, che ritengo siano, perdonami, alquanto "retoriche".

Cerchero' di essere per quanto possibile breve.

i) Tu chiedi: "Ma che gli è successo?", io risponderei che il suo atteggiamento e' sempre lo stesso, ovvero decisamente "schierato" (al punto da apparire, in siffatte occasioni, quasi piu' un funzionario di un ufficio propaganda, che un "libero pensatore"). Ricordo gia' in passato altri "scontri" ideologici sullo stesso tema delle <<guerre dell'Occidente>>. Del resto, la sua posizione etica traspare chiaramente dalle seguenti parole: "un attacco all'Iraq sarebbe da parte degli Usa un errore imperdonabile". Un semplice "errore" quindi, strategico o diplomatico, per non dire "pubblicitario", non un'azione moralmente riprovevole, da parte di chi possiede piu' "talenti", inserisco la citazione tanto per restare in atmosfera "cristiana" (forse non e' inopportuno riportare qualche commento che proviene dal mondo della Chiesa, e che personalmente riprendo da "30Giorni" del dicembre scorso: "una guerra preventiva avrebbe inaccettabili costi umani e gravissimi effetti destabilizzanti", Card. Ruini; "L'esperienza continuamente dice che la guerra non risolve i problemi, ma li aggrava. Questo insegna la storia, ma e' stato detto che purtroppo la storia e' una maestra con pochi scolari", Card. Tettamanzi, belle parole soprattutto per certi nostri "storici"; "Pace significa rifiuto di ogni forma di guerra", Card. Poletto; "Passare dal concetto di deterrenza a quello di guerra preventiva e' un impegno gravissimo", Ordin. Milit. Giuseppe Mani; "Ci sentiamo un po' delusi dagli USA", per "l'unilateralismo della loro politica" [incontestabile, appena scusabile con la storia delle torri gemelle], "l'aggravamento della tragedia mediorientale", "la guerra in Afghanistan con metodi discutibili e risultati ambigui", "un improprio spirito di crociata contro il male", Dirett. Gener. della Radio Vaticana Pasquale Borgomeo; "siamo profondamente scettici sull'uso unilaterale della forza militare", "continuiamo a trovare difficile giustificare il ricorso alla guerra contro l'Iraq, poiche' mancano prove chiare ed evidenti di un attacco imminente di grave natura", lettera dei vescovi americani; "Niente giustifica una guerra contro l'Iraq, qualsiasi siano i PRETESTI e le ragioni invocate", i sette patriarchi cattolici del Medio Oriente, enfasi mia; "la politica interventista di Bush [sembra] essere dettata anche dalla prospettiva di poter controllare il petrolio iracheno", editoriale della "Civilta' Cattolica", etc. etc.). Un membro della gerarchia cattolica affermava in televisione qualche sera fa che la pace e', come sempre, NELLE MANI DEI POTENTI, e non dei poveri disperati, specificando successivamente quindi, nelle mani della trinita' (la parola e' ovviamente mia) Bush-Blair-Sharon, e non certo in quelle di Arafat, o di Saddam Hussein (sembra di assistere alla partita di calcio Brasile-Canicatti', e quanti accesi tifosi del Brasile: se mi si obiettasse, come fare in pratica a risolvere certi conflitti, avrei mille risposte da dare, a cominciare da quella di essere piu' "umili", e rispettosi, ma davvero, degli "altri", e della "giustizia", mettendo in secondo piano i propri, sia pure legittimi, personali interessi).

ii) Galli chiede: "Come si spiega allora questa assenza di iniziative?", e poiche' la risposta e' ovvia, stento a credere che la domanda sia posta in "buona fede". Altro e' infatti essere ahime' dalla parte dell'aggressore, di coloro che si sono arrogantemente definiti i poliziotti del mondo, e non consentono a chi non si mostra nei fatti loro "suddito" di fare quello che fanno essi stessi. Altro e' la presenza costante del male nel mondo, di fronte alla quale non c'e' alcuna indulgenza, ci mancherebbe, ma alla quale si e' per cosi' dire abituati, rassegnati. E' ovvio, doveroso, invece che si intervenga la' dove la questione colpisce piu' da vicino (per restare sullo stesso tono di citazioni evangeliche, e' questo il vero senso, da molti incompreso, della parabola del "prossimo"), e si ritiene quindi di poter effettivamente fare qualcosa.

Mah, sono sempre piu' avvilito per come vanno certe cose (in troppi sembrano voler comportarsi in modi poco apprezzabili, almeno secondo certe antiche convinzioni etiche, ma vogliono lo stesso approvazione e "assoluzione": molto piu' coerente sarebbe dire semplicemente come la si pensa, indipendentemente dal "successo" previsto - questa e' la vera "corruzione" che comporta l'attuale forma di "democrazia" - e procedere per la strada che si ritiene giusta), sempre un saluto di cuore,

dal tuo UB

(Puoi ovviamente girare questo messaggio all'interessato, cosi' su due piedi non riesco a ritrovare il suo indirizzo e-mail).

* * * * *

[A proposito dei tanti "commentatori-opinionisti" che sputano l'anima in TV e sui giornali per convincere un'opinione pubblica riottosa, stupiti che questa volta i "pretesti" non abbiano funzionato come ci si aspettava (e che? nonostante il continuo lavaggio del cervello con sport e ballerine, la mandria e' forse capace di qualche pensiero etico autonomo, e di "resistenza"??)]

2 - A cosa servono i geniali furbacchioni

A cosa servono i geniali furbacchioni? A far la gioia della famiglia Bush. I geniali furbacchioni che negli ultimi anni e ancora negli ultimi mesi hanno corrotto decine e forse centinaia di migliaia di anime ingenue e generose a far l'elogio della violenza giusta, a dichiararsi tutti sovversivi, ad intrupparsi nella rivendicazione della cultura dell'illegalita' e del fine che giustifica i mezzi, con cio' stesso hanno tolto a non poche persone ogni credibilita' se volessero oggi contribuire ad opporsi alla guerra in nome del diritto internazionale, dell'articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana, dei diritti umani per tutti gli esseri umani.

(da "La nonviolenza e' in cammino", N. 452, 20 Dec 2002, "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>)

3 - Undici, ventotto e (soprattutto) novanta

Undici. "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."

Ventotto. "I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, dagli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilita' civile si estende allo Stato e agli enti pubblici."

Novanta. "Il Presidente della Repubblica non e' responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi e' messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri."

Sono tre articoli della Costituzione italiana: una legge, buona o sbagliata, ancora formalmente in vigore e dunque produttrice - almeno quanto i regolamenti della Regione Lombardia - di effetti giuridici. Chi viola la legge commette reato ed e' dunque punito con le pene previste dalla legge. I reati commessi dai presidenti della Repubblica sono previsti con precisione: si chiamano attentato alla Costituzione. Cioe' fare o permettere qualcosa che la Costituzione proibisce. Se guerra ci sara' - e sara' una guerra con morti, non un gioco - dopo la guerra il governo nuovo per prima cosa dovra' chiamare chi l'ha permessa a rispondere delle sue responsabilita' penali, ai termini della legge (in questo caso la Costituzione) che e' molto chiara. Non deve finire con un balletto politico: e questo si deve sapere gia' ora. Ora, la Costituzione italiana non e' che vieti la guerra. Non la proibisce. Non dice che e' sbagliato farla. Non dice che bisogna pensarci due volte. No: usa una parola selvaggia: la "ripudia". A fare una guerra, ordina formalmente la Costituzione, non ci dovete pensare nemmeno. Non vi deve passare neanche per l'anticamera del cervello. Dovete provare schifo rabbia e disgusto alla sola idea di una guerra: ripudiare significa esattamente questo. E la Costituzione e' tirannica: vuol essere ubbidita. ... Brasi [il contadino siciliano "tipo"], quando finalmente torno' al paese, non aveva piu' fucile. E mai piu' voleva vederne uno. E questo gli disse ai politici: a tutti i politici, d'ogni tipo e partito. Allora, i partiti erano due: o la falcemmartello dei poveri, oppure la croce del Signore. E ciascuno sceglieva. Ma una cosa era certa: nessuno dei due voleva guerra. Tutto potevano fare: rubare, fare intrallazzi, litigarsi gli avanzi. Ma guerra no: perche' Brasi era vivo, e lui la guerra - fin troppo - la sapeva.

Adesso, in questo preciso momento, i nipoti di Brasi - chi veneto, chi siciliano, chi abruzzese: tutti belli puliti, ma ognuno con un nonno soldato che sorride impacciato dalla foto ingiallita - stanno sbarcando dall'aeroplano della guerra. E questi sono i primi (gli alpini, come sempre), ma tutto e' gia' preparato anche per gli altri. Sette guerre in un secolo non gli sono bastate, ai re e ai duci (che ora si chiamano politici e manager, ma sono sempre la stessa razza). Vogliono battere il record, col secolo nuovo: siamo ancora allo zerotre', e loro gia' sono pronti per la prima guerra. Rubate, cacciate i giudici, promettete imbrogliando ponti e stretti, fate tutto quel che volete e magari ogni tanto (ma questo non c'e' bisogno che ve lo diciamo noi) fate anche un po' i mafiosi: siamo uomini di mondo e non ci scandalizziamo. Una cosa sola, a qualunque costo, non vi lasceremo fare: un'altra guerra.

(da "Catena di Sanlibero", N. 162, 24 Jan 2003, giornale virtuale di Riccardo Orioles, ricc@libero.it).

4 - Amore per l'infanzia

... la teoria dell'evoluzione di Darwin, fondamento teorico tutt'oggi indiscusso della biologia moderna, si è costituita sotto il profilo epistemologico come un'applicazione in biologia dei principi teorici che la demografia di Malthus aveva proposto, alla fine del secolo precedente, allo scopo di descrivere (e poter così controllare) i processi di crescita e di crisi che regolano le popolazioni umane. Quando Darwin introduce il concetto di "lotta per l'esistenza", senza il quale non si darebbe una "selezione naturale", lo fa derivare dal rapido ritmo di accrescimento in progressione geometrica della popolazione. "È questa, spiega Darwin, la dottrina di Malthus, applicata a tutto il regno vegetale e animale". Insomma i bambini sono belli e sono buoni. I nostri occhi si inumidiscono di commozione quando li vediamo sgambettare o quando li sentiamo cinguettare in qualche trasmissione televisiva. Hanno solo il difetto di essere troppi e di avere sempre fame. ... Dietro il velo e dietro la lotta al terrorismo, dietro la difesa irrazionale dei coloni e dei loro insediamenti, c'è ancora il vecchio Malthus. Il che significa che nell'insistenza propagandistica con cui gli uni ci mostrano la brutalità delle truppe d'occupazione intente a sparare ai bambini palestinesi e gli altri la ferocia di kamikaze che fanno saltare in aria autobus pieni di bambini, c'è un fondo involontario di atroce verità. Il nemico è veramente il bambino. Il nemico è ciò che nasce e che, nascendo, si mette a strillare dalla fame. ... Quando gli amici di Emergency dicono di ripudiare la guerra infinita perché questa ucciderebbe "anche" dei bambini commettono quindi un errore epistemologico. La guerra infinita uccide "anche" degli adulti, uccide "anche" dei soldati, ma il suo inconfessato ed esclusivo obiettivo sono soltanto i bambini.

L'origine del sentimento morale per alcuni sociobiologi è nel sentimento di protezione e di cura che l'animale ha per i suoi urlanti cuccioli. La voce della coscienza ha la natura quasi biologica di una chiamata alla quale non ci si può sottrarre. In termini molto suggestivi il filosofo Emmanuel Levinas l'ha definita una responsabilità che precede ogni scelta: "la presentazione dell'essere nel volto non lascia alcuno spazio logico alla sua contraddittoria". Il volto, soprattutto se è il volto di un bambino, è "irrecusabile". Gli si possono voltare le spalle, certo, ma tale gesto avrà sempre il senso della violazione di un imperativo categorico. E' purissima colpa, è mancanza di fronte ad un assoluto. Si comprende allora qual è lo spaventoso compito che si sono assunti i media in questa triste stagione della storia umana. Con le loro chiacchiere sul terrorismo, con le loro ideologiche giustificazioni della guerra giusta, con la loro sistematica disinformazione, devono riuscire nell'impresa, quasi sovrumana (sovranimale), di cancellare questo naturalissimo senso di colpa che l'adulto prova nei confronti della violenza subita dai bambini. Devono far crescere il deserto, la tempesta nel deserto, rendendola però impercettibile con paillettes e cotillons.

(Da "Liberopensiero", 21/12/2002, Le parole della filosofia per leggere l'attualita', di Rocco Ronchi)

5 - Eugenio Finardi dixit - Infiniti dibattiti sulla libertà d'informazione

Il ritornello viene, credo, dai primissimi anni ottanta. Il menestrello di turno cantava di amare le radio libere, ma, aggiungeva, "libere veramente". Quel cantante si mostrava filosoficamente più ferrato di tanti che, oggi, si arrabattano sulle spinosissime questioni della libertà in generale e della libera informazione in particolare. Perché una libertà che non sia libertà nella verità e libertà per la verità (una libertà, prosegue infatti Finardi, forse solo per esigenze di rima, che non "liberi la mente") è giudicata, dal nostro involontario filosofo, una libertà fittizia: libertà nella forma ma non nel contenuto. Marx, che non si faceva scrupolo di mettere alla berlina gli eroici furori dei suoi compagni di strada "democratici" e "liberali", a proposito della "libertà di stampa" si era espresso con uguale nettezza. A suo giudizio era la qualità della parola a rendere una parola veramente libera, non il fatto che quella parola fosse stata scritta, stampata, pronunciata in assenza di coazione. L'assenza di impedimenti alla fonte è solo un presupposto dell'informazione libera, non la sua realtà. E per rendersene empiricamente conto basta sfruttare l'antenna parabolica per sintonizzarsi sui networks americani, sulla cui sostanziale autonomia dal governo giurano anche i più accaniti anti-americani. Il concerto di menzogne, di falsificazioni spettacolari atte a mobilitare l'opinione pubblica in vista della guerra inevitabile, è impressionante. L'informazione, insomma, è indubbiamente "libera", ma non è "libera veramente".

Al comunista Marx non sarebbe certo piaciuto l'accostamento, ma la primissima filosofia cristiana non ragionava diversamente da lui. Sant'Agostino distingueva con cura una "libertà minore" da una "libertà maggiore", e cioè, per dirla ancora con il cantore dell'anarco-etere, una radio libera da una radio libera veramente. Solo la seconda può dirsi libertà in senso proprio, mentre la prima è il fondamento tragico di quella. L'aggettivo "tragico" non è fuori luogo. Infatti la prima libertà, quella che nasce dalla semplice assenza di una coazione a fare, è la libertà che si può volgere al male. Sant'Agostino non era ottimista. Non si faceva nessuna illusione sulla naturale inclinazione al male di quel "bastone storto" (l'espressione è di Kant) che è l'uomo. La "vera" libertà, e cioè la libertà

tout-court, iniziava, per lui, quando quella prima libertà, al prezzo di sforzi straordinari e quasi contronatura, si torceva nella direzione eretta del bene. Essenziale alla definizione di questo bene era proprio che esso fosse liberamente voluto, in alternativa alle seduzioni del male. Dunque, niente era più lontano dalla mente di Sant'Agostino della tentazione totalitaria. Costringere al bene qualcuno privandolo della "libertà" di fare il male era per lui la negazione stessa del bene e del vero. Con buona pace di tutti i proibizionisti che invece scorgono nelle gabbie e nei divieti la scorciatoia che dovrebbe portare alla "vera" libertà. Con buona pace degli stalinisti assassini per amore del popolo e, ahimè, con buona pace anche di chi, disgustato dai telegiornali di regime di disonesti mestatori, sogna un'irrealizzabile palingenesi televisiva che li cancelli dai palinsesti.

Una libera radio non è una radio libera. La libertà, insomma, non è qualcosa che discenda con geometrica necessità da delle premesse che possono essere poste una volta per tutte. L'illusione del liberalismo, un'illusione costantemente smentita dalla storia ma sempre risorta, era che bastassero delle libere istituzioni perché la libertà fosse reale. Così non è andata nel recente passato e così non va nemmeno oggi. Il totalitarismo e l'illibertà di fatto sono vermi perfettamente a loro agio nel formaggio della libera informazione (si veda il film di Joe Dante, "La seconda guerra civile americana"). I filosofi, da Platone a Fichte a Bergson per citarne solo alcuni, hanno invece sempre insistito sul carattere squisitamente "qualitativo" dell'atto veramente libero. La libertà, per loro, non è mai un fatto acquisito. Essa, piuttosto, si aggiunge come un predicato, come una sfumatura pressoché impalpabile, ad un comportamento, rendendolo appunto espressione di autentica libertà. La libertà è atto non fatto. E' questa una "difficile libertà", una libertà che va quotidianamente conquistata e praticata, una libertà minoritaria e quasi sempre destinata al naufragio (il "caso" Socrate). E', tuttavia, la nostra sola (effimera) occasione di "vera" libertà.

(Da "Liberopensiero", 25/01/2003, Le parole della filosofia per leggere l'attualita', di Rocco Ronchi)

6 - Qualche osservazione di UB

Straordinario, al solito, Rocco Ronchi, mentre ringrazio Orioles per aver fatto chiaramente capire come il nostro articolo della Costituzione contro la guerra non sia affatto "ambiguo", come si sforzano ad argomentare con i loro sofismi i sullodati "geniali furbacchioni", che si offrono con entusiasmo nel ruolo di imbonitori delle masse. Tale articolo fu imposto a viva forza dal popolo italiano, di ENTRAMBI gli schieramenti politici maggioritari, ai suoi legislatori, e adesso gli eredi di quelli si vorrebbero sentire liberi da siffatto oneroso legato, che gli impedisce di "servire" la causa del piu' forte come desidererebbero (in cambio ovviamente di qualche bella ricompensa materiale). Questo e' pero' un atto, piu' che di illegalita', di vera pirateria politica, e che allora si abbia l'onesta' di riconoscerlo, modificando la Costituzione, tanto maggioranze di tipo "bulgaro" si sono gia' riscontrate in casi simili. Ma no, non si ha alcuna esitazione a percorrere strade eticamente assai dubbie (purtroppo anche da parte cattolica), pretendendo lo stesso approvazione e assoluzione: e che diavolo, si pratica il male, ma con le mani pulite, o almeno che debbono essere pubblicamente riconosciute tali...

Aggiungo che i detti sofismi si riducono poi sostanzialmente a uno solo: ci sono guerre che hanno giuste ragioni, e sono le nostre (che apparteniamo a una civilta' notoriamente "superiore", e guai a chi osa avanzare dei dubbi, "sputa sul piatto dove mangia" - non sapevo di avere un padrone che mi concedeva benevolmente e generosamente di mangiare, con la conseguenza di essere pertanto ingrato nei suoi confronti con le mie critiche), e guerre che non ce l'hanno, e sono quelle secondo la ragione degli altri. Eccone, tra i tanti, alcuni (tristi, perché provengono appunto dal mondo cattolico) lampanti esempi.

6-A - <<È legittimo il diritto di dissentire rispetto alla dottrina Bush sulla guerra preventiva, ancora troppo rozzamente enunciata [evidentemente, i consiglieri furbacchioni non sono riusciti a fare di meglio, ma dategli tempo, e tutta la loro cultura e capacita' verra' fuori]. Probabilmente, però, i boatos di disapprovazione che ne hanno accompagnato la nascita andrebbero sostituiti da qualche più pacata analisi. Forse, in un mondo in cui la minaccia alla sicurezza delle democrazie [deliri evidentemente paranoici] è portata principalmente da Stati-canaglia e gruppi terroristici, categorie come la dissuasione e persino la rappresaglia devono essere sottoposte a qualche revisione critica. Ovvio che una difesa attiva delle democrazie non possa passare solo per l'uso della forza militare, ma escluderlo aprioristicamente non fa forse il gioco degli irresponsabili?>> ("Avvenire", 19 ottobre 2002).

6-B - <<Perché non possiamo dimenticare che ciò che rese legittima e legale [chissa' perche' l'autore, cattolico, non sostiene anche "santa", guardata con piacere da "lassu'"] la guerra del 1990-91 contro l'Iraq fu innanzitutto il fatto che erano stati gli iracheni a cominciarla, invadendo il Kuwait. Senza quell'invasione, avventata e provvidenziale, la comunità internazionale avrebbe dovuto ricercare altre vie per rendere inoffensivo il regime di Baghdad. Oggi, il difficile sta tutto qui: nello sforzo di trovare vie alternative all'invasione per verificare e annichilire ogni eventuale progresso iracheno verso il proprio scellerato piano di dotarsi di armi di distruzione di massa>> ("Avvenire", 22 dicembre 2002).

(Articoli a firma di Vittorio E. Parsi, un "collega", ahime', docente di relazioni internazionali all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

6-C - Subject: [politica e cattolici] E ora la sfida si chiama "Islam"

Date: Wed, 22 Jan 2003 23:14:59 +0100

From: "Paolo De Bei" <chouan@inwind.it>

To: <politica_cattolici@yahoogroups.com>

Tempi sempre più duri per l'Occidente, scrive Luciano Pellicani

Finito il comunismo, la sfida è con l'Islam - L'ultimo libro del politologo dimostra che il problema del nuovo secolo sarà il fondamentalismo musulmano

Il mondo arabo non rifiuta solo i nostri errori

di GIANFRANCO MORRA

Che cosa attende l'Occidente? Il nuovo secolo si è aperto tragicamente, con la distruzione delle Twin Towers. Ne siamo stati sbigottiti non solo per l'inatteso e imprevedibile attacco, ma anche perché abbiamo capito che la più civile e ricca civiltà del mondo è vulnerabile. Un proletariato esterno straccione spinge dalle frontiere e un proletariato interno sazio e insoddisfatto collabora alla disgregazione della civiltà occidentale.

Chi volesse capire quali sono le sfide che attendono l'Occidente all'inizio del nuovo millennio, non ha che da leggere una ricca e avvincente raccolta di saggi: "Dalla società chiusa alla società aperta", appena edita da Rubbettino. Ne è autore un professore di sociologia della LUISS, Luciano Pellicani, fertile scrittore di storia politica. Già negli anni Settanta, con i primi saggi dedicati al marxismo, Pellicani demitizzò il "bestione trionfante". Erano gli anni del catto-comunismo e non era facile prendere posizione contro. Il filo di Arianna che lega i saggi ora raccolti è la superiorità dell'Occidente su ogni altra civiltà. Esso è una civiltà "aperta", dove il massimo di libertà è possibile sulla base del primato della persona sulla società, del pluralismo sociale, politico, religioso e culturale. Non bastano la scienza e la tecnologia per produrre ricchezza, è necessario anche un costume di libertà, che l'Occidente ha avuto in maniera eminente. Pellicani rifiuta quel relativismo culturale, di cui si nutrono i giottini solo per sputare sul piatto occidentale dove mangiano.

Fuori dell'Occidente c'è collettivismo e tirannia, intercalati da anarchia e rivolte. Anche il marxismo, che pure era una ideologia occidentale, figlia dell'illuminismo, di Hegel e dell'utopia socialista, finì per produrre il collettivismo asiatico, cioè sottosviluppo e sterminio (circa cento milioni). Ma il pericolo non si chiama più comunismo. Si chiama fondamentalismo islamico. Col quale l'Occidente dovrà combattere a lungo. ... il conflitto tra Islam e occidente è più forte dei singoli musulmani, in quanto deriva da una antropologia religiosa incompatibile con quella cristiana. ... gli islamici non combattono le perversioni dell'occidente, ma i suoi principi di libertà e tolleranza. Per questo non rifiutano solo la religione cristiana, ma anche quella laicità che il cristianesimo aveva nel suo DNA [sic!] e che negli ultimi secoli della storia di occidente si è accentuata al punto da tradursi in tolleranza religiosa. ... Ecco perché la spiegazione dell'antioccidentalismo islamico in chiave economica non quadra e quei cattolici che vedono nella povertà delle popolazioni musulmane la prima causa del conflitto ragionano da marxisti. Non è così. L'odio dell'islamico coinvolge la ricchezza degli occidentali non già in nome di una giustizia sociale, che non c'è in nessun paese del Dar al-Islam, ma proprio perché essa è fonte di corruzione e di ateismo. Come si è espresso il fondamentalista algerino Abbasi Madani, leader del Fronte Islamico di Salvezza, "l'Occidente, cieco e zoppo, ha rotto l'unità di rivelazione e ragione, ha adorato la materia". La guerra non è fatta dai poveri contro i ricchi, ma dai credenti contro gli infedeli: è una guerra santa, voluta da Dio che "ha rimesso la terra ai musulmani". ... Che, poi, anche la globalizzazione possa avere accentuato il fondamentalismo, Pellicani lo sa bene. Il mercato mondiale non si limita a produrre e vendere beni su scala planetaria, ma produce dei forti mutamenti antropologici nel senso dell'unica civiltà-di-mercato della storia, appunto l'occidentale. Diffusione della globalizzazione ed esplosione del fondamentalismo islamico vanno di pari passo. Tanto che non è difficile prevedere che i decenni futuri saranno caratterizzati da scontri violenti tra la civiltà cristiana e quella islamica. Due civiltà che difficilmente potranno convivere, dato che per l'Islam l'Occidente è ateismo e perversione morale, mentre per l'occidente l'Islam è un dinosauro fossile.

Che fare? Pellicani non si esime dal proporlo. Anzitutto va rafforzata la coscienza europea, diciamo pure l'orgoglio europeo. L Occidente, nonostante difetti e colpe, ha realizzato la forma più ampia di società "aperta", nella quale il benessere è stato figlio della libertà e del pluralismo. Società aperta non significa "società perfetta", ma "società meno imperfetta delle altre". Tale tradizione europea va difesa e fatta conoscere. Senza imposizioni e, se possibile, senza guerra. Il pacifismo è un abito che non costa niente e tutti possono indossarlo. Il vero problema è invece la pace. Che oggi è in pericolo soprattutto a causa delle violente reazioni dei fondamentalisti islamici contro i valori e le istituzioni dell'Occidente (separazione tra stato e chiesa, primato della coscienza, laicità, emancipazione femminile, democrazia), che si sono spesso tradotte in una guerra ideologica contro quella civiltà liberaldemocratica, che esiste solo nelle aree culturali cristiane.

Nessun razzismo, nessun imperialismo. Anzi, la ricerca della convivenza delle culture, sul fondamento della difesa della propria. Ma senza illusioni pacifiste o interetniche. La guerra dell'Islam contro l'Occidente non è scoppiata l'11 settembre 2001, era già in atto e in crescita da più di due decenni. Scrive Pellicani: "Con la Rivoluzione iraniana è iniziata l' "era islamica", caratterizzata da un impressionante proliferazione di movimenti fondamentalisti e di sette terroristiche che invocano la Guerra Santa contro l'America e ciò che essa simbolizza. Certamente, gli attivisti del "Jihad" non sono che una minoranza; ma, altrettanto certamente, essi esprimono il diffuso risentimento che anima i musulmani nei confronti dell'occidente". Dobbiamo cercare la pace, ma con realismo, consapevolezza e responsabilità.

(Libero, 7 gennaio 2003)

Ecco nei punti precedenti i sofismi dispiegati appieno: nella constatazione della "nostra" superiorita' etico-sociale-civile-scientifica etc., nella distinzione tra guerre che sono legittime e legali - oltre la difesa del proprio territorio, diritto-dovere riconosciuto dalla Costituzione italiana - e altre che non lo sono, etc. (come poi se, nel passato, non fosse vero che OGNI guerra e' stata giustificata con simili motivazioni, Hitler compreso). La legalita' e' decisa da un voto "democratico" (non si fa caso a corruzioni, intimidazioni o quant'altro - vedi il punto 5), espresso in qualche consesso dove "noi" abbiamo ovviamente posizioni di direzione e di privilegio. Tale luogo puo' essere per esempio la mitica ONU, ma se c'e' qualcuno che vota contro di noi, dobbiamo definirlo "canaglia", e ridefinire il consesso, fino a raggiungere al limite l'unanimita' (ricordo con "divertimento" una risoluzione del Senato della Repubblica di Venezia in favore di Galileo, che venne finalmente adottata dopo aver "cacciato li papalisti"). Parsi avrebbe forse fatto meglio a non usare il termine "guerra", come fanno diversi altri furbacchioni, dotati di maggiore scaltrezza e doppiezza, i quali hanno imparato che e' migliore strategia utilizzare "sinonimi" meno urtanti l'attuale coscienza comune (si potrebbe dire che a un manifesto progresso nell'inconscio collettivo della nostra societa' nel suo complesso - sperando che cio' corrisponda in qualche misura al vero - non abbia corrisposto un'analoga evoluzione della "ragione pratica").

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* Allegati:

*1 - Da A. (07.01.003):

> ... dal Corriere della Sera di oggi, di seguito, editoriale di Galli della Loggia. D'accordo sulla scemenza dei comboniani pugliesi (hanno indetto uno sciopero della messa in favore della pace. E' come se noi mamme scioperassimo (?!) per protestare per i bambini uccisi dalla fame). D'accordo su Zanotelli & C. D'accordo sull'uso strumentale e buonista (quindi non cattolico) della parola pace. Ma sul resto non ci siamo. Il Papa non è un leader politico. E' un qualcosa di più e di diverso. Le sue parole non si capiscono se si cerca di inquadrarle in pronunciamenti pro o contro l'Occidente. E per giudicare sull'equilibrio dei suoi pronunciamenti, i discorsi bisogna seguirli tutti, non solo quelli amplificati dai giornali. Ma sarebbe interessante capire le implicazioni dei discorsi del Papa. Io preferirei morire sotto i bombardamenti piuttosto che vedere i miei figli torturati, su questo non c'è dubbio. Ma questo è in contraddizione con quanto dice il Papa? In che cosa le parole del Papa si distinguono da quel pacifismo fuori dalla realtà alla Gino Strada, tanto per intenderci? ...

Il Papa, l'attacco a Bagdad, gli altri conflitti

IL DIAPASON DEI CATTOLICI

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Mai come in questi giorni consacrati alle festività cristiane è risuonato alto e forte l'appello alla pace da parte del Papa e dell'intero mondo cattolico: un appello con tutta evidenza mirato al conflitto Usa-Iraq, e dunque carico di significato politico. Il che è del tutto normale: moltissime altre prese di posizione della Santa Sede e della Chiesa rivestono, infatti, al di là della loro motivazione religiosa, un indubbio valore politico. La politicità dell'appello pacifista mi pare però che si distingua per il suo carattere fortemente radicale, carattere che a propria volta contribuisce a politicizzare non poco in senso radicale anche l'immagine stessa del Papa e del mondo cattolico in genere. Tanto più che la pace, preziosa oggi come sempre, è materia certo non attinente né a qualche dogma della fede né alla tradizione consolidata della Chiesa, e nella quale, quindi, sarebbe forse lecito aspettarsi una minore tendenza all'asseverazione e una maggiore varietà di punti di vista. Complice anche la natura gerarchica della Chiesa proprio ciò, viceversa, non accade. Infatti, una volta che il Papa si è pronunciato a favore della "pace", pur non trattandosi certo di materia di fede, nessuno o quasi nel mondo cattolico manifesta un'opinione diversa o, non sia mai, contraria. Succede anzi l'opposto, e cioè che un gran numero di laici e di ecclesiastici si precipitino a rincarare la dose e in una ridda di marce, di veglie e di digiuni "per la pace" si arrivi addirittura, come hanno fatto i comboniani di Puglia, a cancellare "per protesta" la cerimonia della messa nel giorno dell'Epifania descrivendo la propria regione come "un avamposto militare che esporta guerra e genera morte" o a definire, come ha fatto padre Zanotelli, quello americano né più né meno che "un sistema di peccato e di morte". Da questo ulteriore inasprimento l'effetto di radicalità, come si capisce, non può che risultare enormemente accresciuto. È la pronuncia pacifista papale, tuttavia, che già all'origine non riesce a liberarsi di un'immagine radicale. Anche qui a causa innanzitutto di un elemento di forte unilateralità. Certo, Giovanni Paolo II è attentissimo a misurare le parole, a distribuire i torti e le ragioni, per esempio a non disgiungere mai l'appello alla "pace" da quello alla "giustizia". Ma questi propositi di imparzialità sono destinati ad essere frustrati dal fatto che la voce del Pontefice non risuona certo sempre e con la medesima intensità per ognuna delle guerre del pianeta. Qualcuno ricorda ad esempio, per restare all'Iraq, pronunce papali paragonabili a quelle di queste settimane in occasione della decennale terribile guerra (un milione di morti) scatenata da Saddam Hussein contro l'Iran nel 1980? E i circa 200 mila curdi massacrati anche con i gas dallo stesso Saddam alla metà degli anni '80 quante proteste sollevarono da parte della Santa Sede commisurate all'enormità del crimine? Del resto, più o meno la stessa domanda potrebbe porsi a proposito anche delle continue stragi di cristiani che da anni insanguinano l'Asia e l'Africa. A dirla francamente, l'impressione insomma è che solo quando vi è di mezzo l'Occidente - e più in particolare gli Stati Uniti - solo allora la voce del Papa raggiunga il diapason e il mondo cattolico esprima il massimo di mobilitazione "a favore della pace". Già questo, mi sembra, configura una forte, oggettiva, unilateralità. Ma non basta, c'è un ultimo elemento da considerare: e cioè che l'unilateralità di un messaggio è anche determinata dalla sua ricezione; dal fatto, nel nostro caso, che delle prese di posizione del Pontefice e della Chiesa, anche delle più articolate, ad una parte del mondo arriva ciò che ai governanti locali fa comodo, e quando fa loro comodo. Ciò che finisce, appunto, con il rafforzare l'idea che la massima autorità spirituale dell'Occidente sia anche uno dei suoi più aspri critici.

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*2 - Da A. (13.01.003):

> Rompo il 'silenzio stampa' che mi ero imposta durante il count down, perché sul Corriere della Sera di oggi riappare un editoriale di Galli della Loggia, sempre sul tema 'La Chiesa e la pace'. Ma che gli è successo? ...

Le "distrazioni" su Cecenia e Timor Est

LA PACE HA DUE VOLTI ANCHE PER LA CHIESA

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Gli storici sono abituati da molto tempo a parlare delle azioni passate della Chiesa e dei Pontefici in termini laici (o se si vuole in termini storici, appunto): collocando cioè anche le motivazioni e gli atti di natura religiosa in una prospettiva profana, vale a dire articolata sulle categorie del potere, della politica, dell'organizzazione eccetera. Sono consapevole che applicare lo stesso metodo al presente urta più di una sensibilità, ma se vi si rinuncia, quale altra via resta allora se non il silenzio o un giudizio sempre e comunque programmaticamente positivo a meno che non sia dissenziente in termini religiosi? Davvero non posso credere che qualcuno voglia una cosa simile. Così come non credo, d'altra parte, che le osservazioni critiche riguardo un certo pacifismo cattolico possano essere considerate equivalenti ad un cieco appoggio ai progetti di Bush. Personalmente, ad esempio, penso che sin tanto che non vi sia una pronuncia delle Nazioni Unite, un attacco all'Iraq sarebbe da parte degli Usa un errore imperdonabile. Tutto ciò premesso credo che sia un problema fondato nei fatti quello che scaturisce dall'immagine di forte unilateralità propria non da oggi del pacifismo del mondo cattolico che si richiama alla predicazione del Papa. I cui buoni motivi religiosi e le cui personali intenzioni di imparzialità non metto affatto in dubbio. Ma così come non mi sembra possa mettersi in dubbio che le suddette intenzioni naufraghino regolarmente di fronte alla parzialità con cui esse sono accolte da gran parte dei fedeli. Sarà di certo per qualche difetto della mia memoria, ma non riesco davvero a ricordare nessuna guerra o minaccia di guerra nel mondo che abbia suscitato un numero di marce, di veglie, di digiuni e di preghiere neppure lontanamente paragonabile a quello che sono soliti suscitare, invece, i conflitti in cui a qualsiasi titolo sono coinvolti gli Stati Uniti o Israele. Faccio due esempi, pronto a ricredermi di fronte a fatti che mi smentiscano: quale mobilitazione ha espresso finora il mondo cattolico italiano di fronte alla guerra in Cecenia? Eppure, immagino, nessuno oserebbe sostenere che i lutti e i tormenti inflitti dai russi a quelle popolazioni siano inferiori (in realtà sono incommensurabilmente superiori) a quelli inflitti dagli americani alle popolazioni irachene. Come si spiega allora questa assenza di iniziative? Il secondo esempio riguarda i cattolici molto più direttamente. Si tratta di Timor Est, oggi finalmente indipendente e avviata alla libertà religiosa, ma dove dal 1975 al 2000 le truppe di invasione indonesiane costrinsero all'evacuazione forzata, ed internarono, metà (dico metà) della popolazione a maggioranza cristiana, e dove sono morte di fame, di malnutrizione, o vittime di una repressione feroce, almeno 200 mila persone, vale a dire un terzo (dico un terzo) degli abitanti della regione. Ebbene: quante veglie e quante manifestazioni sono state a suo tempo organizzate dai boyscout, quanti incontri per la pace sono stati indetti dai francescani di Assisi, per denunciare questa situazione? Chi conosce nel mondo cattolico il nome del vescovo di Timor Est, Ximenes Belo, premio Nobel per la Pace del 1996? In quante chiese italiane è stato invitato a parlare? E' difficile credere che tutto ciò sfugga alla Santa Sede e allo stesso Giovanni Paolo II. Credo che si preferisca però lasciare andare le cose come vanno per due ragioni, facilmente desumibili del resto dai due esempi citati: o perché specie da parte dei vertici della gerarchia non si vuole inasprire un contenzioso già abbastanza aspro (come sarebbe quello con la Russia postcomunista nel caso della Cecenia), ovvero perché si è consapevoli del fatto che nell'ambiente italiano il tema della "pace" è sentito tradizionalmente come un tema "di sinistra". E in quanto tale stabilisce immediatamente un collegamento con il senso comune di sinistra, dunque con quella parte di cattolici orientati in questa direzione, e si reputa opportuno declinarlo in senso filoterzomondista per riequilibrare così l'immagine di un Pontificato che viceversa per altri aspetti appare inclinare piuttosto "a destra". Insomma, per essere più chiari e prendendo a prestito dalla politica il suo rozzo ma realistico linguaggio: fare una politica estera di taglio progressista per dare qualche soddisfazione agli scontenti di una linea politica interna di taglio conservatore. Usare insomma Arafat per far dimenticare Ratzinger, se è lecito esprimersi con questa semplicistica secchezza. A chi fa discorsi come quelli sin qui fatti, si obietta di muovere dal presupposto (per altro il più delle volte taciuto) di una forzosa identificazione tra la Chiesa e l'Occidente, inteso per giunta in una versione che corrisponderebbe in pratica agli Stati Uniti. Di auspicare anzi tale identificazione, e di reagire con irritazione vedendola per l'appunto smentita dalle posizioni pacifiste della gerarchia e del Papa. A me pare in verità proprio l'opposto. E cioè che siano precisamente le posizioni pacifiste della Chiesa cattolica la testimonianza più lampante del suo imprescindibile legame storico con questa parte del mondo, della sua appartenenza ad esso. Quelle posizioni, infatti, hanno senso storico e politico - del senso religioso, ripeto, non discuto: mi limito solo a chiedermi perché mai però esso risuoni e sia accolto con intensità diversa a seconda delle circostanze - quelle posizioni pacifiste, dicevo, hanno senso storico e politico vero solo perché trovano ascolto vasto nell'opinione pubblica occidentale, si inseriscono nel suo libero dibattito, la agitano e la commuovono, condizionano in vario modo i suoi governanti. E così servono a ribadire, insieme con l'influenza ideale e perciò politica della Chiesa nell'ambito dell'Occidente stesso, anche la sua specifica identità, irriducibile alle logiche dei poteri terreni in mezzo ai quali pure essa opera. A tutti questi scopi - che come si vede hanno senso e valore specialissimamente all'interno del rapporto con questa parte del mondo - servono le posizioni pacifiste. Dopotutto la Chiesa cattolica sa che solo all'Occidente, solo all'Europa e alle Americhe, alla culla della sua storia straordinaria, essa può parlare sicura che le sue parole non si perderanno. Altrove esse arriveranno invece fioche e lontane, o subiranno il filtro censorio di regimi ostili. Serviranno magari anche così: a procurarsi qualche utile benemerenza diplomatica da spendere diplomaticamente a tutela di sparute minoranze cristiane, ma, ahimè, a nulla di più.