[Ricevo dall'amico Dott. Arcangelo Papi una curiosa segnalazione, relativa a quel passo del libro Segreto di Assisi, <<<<Un secondo pericolo presentano gli studi...>>, che avevo citato in sede di presentazione a: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/att/sticco.htm. E' stata questa l'occasione per scoprire che il libro in discorso ha conosciuto una nuova edizione nel 1961, con l'aggiunta di diverse parti, e che questa seconda edizione è stata riproposta senza ulteriori modifiche nel 1991 (quando l'autrice era ormai deceduta da una diecina d'anni). Orbene, la versione del 1961 differisce da quella del 1950 non solo per le dette aggiunte, ma anche per un'omissione, forse significativa, proprio quella relativa al capitolo da cui avevo estratto le parole riportate. Mi è sembrato allora di fare cosa opportuna con il ripresentare l'intero brano, lasciando al lettore il compito di indovinare le possibili ragioni della sua esclusione dalla versione del 1961. Mi limito soltanto a dire che trovo lo scritto notevole in diverse parti, e profetico in una misura forse inattesa per la stessa autrice, costituendo quello in esame il fenomeno più significativo per spiegare la progressiva degradazione del nostro tessuto sociale (ripetiamo ancora una volta, non si tratta di sterile pessimismo: tale consapevolezza è il primo passo verso il ravvedimento)*. Importante per esempio anche la connessione con la guerra perduta (quante donne ho ascoltato, anche colte, che non capivano questo banale fenomeno storico, e ritenevano di avere conquistato l'emancipazione da sé)...
UB, 16 febbraio 2005
* Mentre scrivo non riesco a dimenticare il caso di quel giovane padre che si è suicidato pochi giorni fa, perché non gli consentivano di vedere la figlia affidata dai giudici alla madre (come accade quasi sempre in questi casi), quasi si potessero cancellare di botto anni di affetti con una fredda disposizione legale (so per esperienza personale che i giudici a volte neppure ascoltano le persone del cui destino sono chiamati a decidere, dedicando loro meno tempo di quanto ne dedico io a uno studente che vuole modificare un piano di studio). Si può aggiungere che, per uno che si suicida, dieci diventano cinici esponenti della società volgare ed aggressiva che abbiamo tutti sotto agli occhi, che si vanta paradossalmente di avere raggiunto una condizione ideale ed encomiabile, al punto da volerla "esportare" perfino con la forza. Ma tant'è, ci dispiace dover constatare, giunti alla fine della vita, che i "cialtroni" (i.e., seguaci dei "cattivi maestri" diffusori di pessime filosofie anti-umanistiche) oggi abbondano e prosperano, nella politica come nella magistratura, nel mondo del giornalismo o dell'università, vale a dire anche presso coloro che avrebbero viceversa il dovere di continuare a mantenere accesa una luce di buon senso e di speranza.
P.S. Trovo anche "in tema" l'ultima riflessione del filosofo Rocco Ronchi, al quale è stato dedicato ampio spazio in: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep8/ep8-ronchi.htm. La propongo qui di seguito tale e quale (si tratta di una mia iniziativa assolutamente personale: non intendo certo coinvolgere l'insigne collega nelle mie esternazioni), a mo' di preambolo al discorso di Maria Sticco sulle "signorine" di ieri e di oggi, e manifestando esplicitamente l'opinione che l'autrice si ingannava quando sosteneva che: <<nessuno certo rimpiangerà...>>.
Subject: [12/02] - "Io non devo niente a nessuno"
Date: Sat, 12 Feb 2005 08:30:00 +0100
°°°°°°°°°°°°°°° Liberopensiero 12/02/2005 °°°°°°°°°°°°°°°
Le parole della filosofia per leggere l'attualita'
In questo numero di liberopensiero
la parola chiave è LIBERISMO
Si parla di:
- 'Io non devo niente a nessuno'
- Amerika
- Delocalizzazioni
- Clint
IL FATTO
A chi si daranno i nostri radicali liberali, liberisti e libertari?
LA PAROLA CHIAVE: LIBERISMO
'Io non devo niente a nessuno'
Qual è il principio fondante della modernità? Quale immagine, quale parola d’ordine, quale slogan, meglio definisce il 'tipo umano' occidentale? Per i giornalisti e per gli apologeti dell’ordine esistente, non ci sono dubbi. Le parole sono quelle usate ed abusate di 'libertà', 'diritti', 'individuo', 'autonomia' ecc. Per queste parole, lo sappiamo, l’Occidente è disposto non solo ad uccidere ma anche, sebbene in misura ridicolmente ridotta rispetto alle sue vittime, a morire. C’è inoltre in queste parole un contenuto di verità che trascende il loro valore ideologico e propagandistico. Chi pensasse che sono soltanto specchietti per allodole per giustificare l’appropriazione di risorse altrui e processi imperialistici darebbe prova, con il suo eccesso di disincanto, di una profonda ingenuità. Vale piuttosto l’inverso: l’imperialismo politico, economico e militare è un effetto della 'verità' indiscutibile attribuita a queste parole, consegue da loro come una dimostrazione procede dai suoi assiomi. Ma tutte queste sublimi e insanguinate parole sono a loro volta solo lo sviluppo di un’altra parola d’ordine, meno roboante e più segreta. Secondo il filosofo cattolico Jean Luc Marion, una delle menti più brillanti del pensiero francese contemporaneo, 'il modello per eccellenza della soggettività occidentale' è dato dalla parola d’ordine: 'Io non devo niente a nessuno'.
Amerika
La vecchia storia del figliol prodigo torna allora prepotentemente d’attualità per chiarire a noi stessi e all’altro che bussa insistentemente alla nostra porta 'chi' veramente siamo 'noi buoni europei' (l’espressione è di Nietzsche e vale per l’Occidente in genere). Il problema di questo benedetto ragazzo non era la prodigalità, ma il rifiuto del debito di riconoscenza maturato in quanto figlio nei confronti del padre. Non volendo dover niente a nessuno chiese che gli fosse dato quanto 'giuridicamente' gli spettava e se ne andò. Ciò che non sopportava era la gratitudine. Dopodiché tutti sappiamo come andò a finire (e questo finale, il ritorno alla casa del padre, è per noi ancora di là da venire). Quando storici e filosofi hanno cercato di capire cosa fosse veramente la 'libertà dei moderni', una libertà così diversa dalla libertà tutta civile e iperpolitica degli antichi (la quale era compatibile con livelli di oppressione degli individui che la nostra sensibilità giudicherebbe senz’altro 'totalitari' – si pensi al modello spartano elogiato da Platone), si sono imbattuti nella cosiddetta 'opzione uscita' (A. Hirschman). La libertà dei moderni è infatti la libertà di andarsene, la libertà del figliol prodigo di sciogliere ogni legame che lo vincola al luogo, alla comunità e alla tradizione. E’ una libertà molto amerikana perché implica una 'frontiera' verso la quale evadere e dove ricostruirsi una vita fondata solo sul proprio lavoro, una vita che non deve niente a nessuno. Se eventualmente si incontra sul proprio cammino qualche 'nativo' questi potrà essere tranquillamente liquidato in nome, appunto, del proprio sovrano diritto alla libertà.
Delocalizzazioni
Questa libertà di andarsene è diventata la specificità del capitale nell’epoca della globalizzazione. Esso risponde solo a se stesso (agli investitori) ed è libero da ogni obbligo nei confronti del luogo e degli uomini che lo abitano. Come ha spiegato il sociologo Zygmunt Bauman, il capitale, oggi, 'non deve niente a nessuno'. L’opzione uscita è la sua legge immanente.
Clint
Questa libertà implica una solitudine e una violenza che è difficile da sopportare. Clint Eastwood la racconta magnificamente nei suoi cupi film. Soprattutto nella scena iniziale degli 'Spietati' e in quella conclusiva di 'Mystic River'. Questo deserto per essere minimamente abitabile deve allora essere incessantemente popolato di fantasmi. Solo pochi, infatti, saprebbero vivere nel silenzio come i personaggi di Clint. I più naufragherebbero in un dolore insensato. Ecco allora che arrivano i 'neoconservatori'. Mancando una reale comunità, un luogo abitabile, una tradizione ed un Dio viventi, se ne producono i succedanei. Saranno la Bandiera, la Comunità intesa come fortino assediato, i Valori Morali ed un Dio ridotto a simbolo e protettore della potenza bellica o dell’Embrione. In questo modo l’ansia del figliol prodigo è tenuta a freno e il momento critico dell’elaborazione del lutto rinviato.
Rocco Ronchi
* * * * *
Signorine ieri e oggi
C'era una volta la "signorina", ossia la fanciulla di famiglia agiata che verso i quindici anni, allungava le sottane, rialzava i capelli sulla nuca in un morbido nodo o "in giri molteplici di trecce" e "faceva il suo ingresso in società", frase consacrata a significare che era ammessa alle conversazioni dei "grandi", ai ricevimenti, ai teatri, ai balli, e... pronta a maritarsi. La signorina riceveva una istruzione sui generis, che, disdegnosa delle scuole pubbliche, veniva data da istituti religiosi o da lezioni a domicilio, con un programma fatto in prevalenza di letteratura ad usum Delphini, di storia e di francese.
Le ricche studiavano anche l'inglese e il tedesco o con un'istitutrice permanente, o con un'accompagnatrice, ma il francese era di prammatica: ignorarlo sarebbe stato vergogna. Niente latino, o poco. Il latino era studiato solo dalle signorine di famiglie colte, professorali per lo più, senza preconcetti contro il sapere femminile; vecchi preconcetti che escludevano dal matrimonio le latineggianti e più ancora le laureate: "Dio ti guardi da malo vicino, da principiante di violino e da donna che sappia il latino". Lo studio del pianoforte, invece, come quello del francese, era d'obbligo. La signorina per bene doveva saper suonare almeno una barcarola di Mendelssohn. In compenso di questa infarinatura culturale, la signorina imparava a fondo quella che oggi si chiama economia domestica, ossia si metteva in grado di governare una casa dalla cucina al salotto, dalla dispensa al guardaroba, ma anche questo non sempre, ché le figlie di madri vane e mondane conducevano una frivolissima vita, a caccia del marito, e sapevano tutt'al più ricamare. Ricami a colori su seta e velluto alla fine dell'Ottocento; ricami in bianco su lini e tele al principio del Novecento; trine a tombolo, a rete, ad ago adornavano i salotti e le camere, formando l'orgoglio delle mamme, che erano felici, quando potevano rispondere all'ammirazione adulatoria di un visitatore cortese: "Lavoro di mia figlia!".
Anche l'educazione inferiore della signorina era sui generis. Il sentimento, coltivato con raffinatezza, veniva rivolto ad una fede religiosa fatta di tradizione e d'impressione più che di studi serii, ad una pietà più affettiva che meditata e liturgica, ad un modo di vivere accomodante tra l'ascesi cristiana e la mondanità. Tuttavia nelle famiglie spiritualmente sane la legge del dovere, fondata su di una morale trascendente, veniva prescritta alla coscienza giovinetta in un modo così chiaro e perentorio, che, per quanto fantasia e sentimento si ribellassero, era difficile sfuggire al suo morso. L'idea del dovere, radicata nella prima età, se non riusciva ad impedire le cadute, riusciva sempre ad avvertirle, a denunciarle alla coscienza, che ne sentiva vergogna e rimorso, almeno fino a quando il ripetersi delle colpe non fosse divenuto abitudine. Veniva istillato il rispetto per la gerarchia familiare e per la tradizione; veniva raccomandata con ogni sorta di ragionamenti, di esempi, di esortazioni la delicatezza cortese, la grazia. Le anonime Pagliette d'oro erano il Kempis della signorina; da quelle massime spicciole, amiche della memoria, da quegli aneddoti edificanti imparava prima l'arte delle piccole virtù quotidiane, che agevolano la vita a sé e agli altri, poi - purché sapesse scendere in profondità - il segreto dell'abnegazione eroica.
Un altro principio premurosamente coltivato nella fanciulla in genere e nella signorina m ispecie, era quello della dignità personale, fondato particolarmente sul valore della verginità e della purezza, che costituiva per lei il suo onore. Perdere la verginità significava essere disonorata, passare di bocca in bocca con questo marchio infamante, e rinunciare alla speranza di maritarsi. In molti paesi di campagna, le disonorate non potevano sposare con il velo bianco, né far suonare le campane a festa per il loro matrimonio. La severità dell'opinione pubblica verso le fanciulle cadute portava inconvenienti non piccoli, suggerendo altre colpe segrete, ma presentava il vantaggio di sancire esteriormente il principio intimo della purezza verginale, servendo così di freno agli spiriti superficiali o deboli, che formano la propria coscienza secondo le teorie dominanti. Questa stima della purezza come caratteristica e requisito indispensabile della donna, unita alla separazione dei sessi nelle scuole e alla cura eccessiva di allontanare dalle fanciulle qualsiasi notizia di vita sessuale, favoriva il pudore in tutte le sue forme logiche e illogiche: dalla legittima difesa della propria intimità fisica e morale, alla ritrosia scontrosa di fronte agli uomini, all'inconsulta ripugnanza per le visite mediche. Nemmeno a farlo a posta: la divisione ostentata fra maschi e femmine sortiva spesso l'effetto opposto a quello desiderato dagli educatori, ossia induceva la fanciulla timidetta a pensare all'amore davanti al primo ragazzo che incontrasse, come se tra uomo e donna non potessero intercorrere altri interessi e altre relazioni. Fu un errore di educazione, più evidente quando il pudore diveniva convenzionale, non impedendo né la civetteria, né il mal costume. Tuttavia quei rossori improvvisi che avvampavano il viso delle giovinette erano spesso indizio di candore sincero; la "casta porpora" era qualche volta sparsa dallo Spirito Santo, secondo l'invocazione del Manzoni.
Generalmente la signorina del primo Novecento si piccava di farsi una personalità sua, di distinguersi; anzi l'aggettivo distinta era ambito: distinguersi per correttezza, finezza, signorilità, distinguersi per gusti propri; quindi sceglieva un autore da prediligere, un motto da imprimere sulla carta da lettere o sui libri, un profumo, un colore, un fiore da portare di preferenza. Il riserbo e la grazia dovevano costituire la sua linea, non importa se poco profonda.
La famiglia cercava per la signorina un matrimonio finanziariamente buono che le assicurasse una posizione agiata; la signorina invece sognava l'amore, che avrebbe dovuto coincidere puntualmente col matrimonio: coincidenza rara, (anche perché alla fanciulla non era sempre concessa libertà di scelta) o coincidenza casuale e transeunte, quindi subito nasceva fra la realtà e il sogno quel contrasto grave di complicazioni drammatiche o tragiche che romanzo e teatro ci hanno rappresentato a sazietà. Amare ed essere amata era felicità suprema per le fanciulle dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento. Nelle meglio educate l'amore assumeva un'idealità trascendente che, per alcuni rispetti, riallacciava il loro sogno romantico agli ideali del Rinascimento. Questa concezione sublime dell'amore agiva in due modi sulla giovinetta: le irradiava romanzescamente l'uomo atteso od amato, trasformandolo in principe azzurro, cavaliere di tutta cortesia, prode di maschia prodezza; investiva il cuore di lei impaziente d'innamorarsi o già innamorato, disponendolo ad una dedizione senza limiti. Amore appariva sinonimo di sacrificio, e il sacrificio s'imponeva come dovere delle anime più delicate, che quasi godevano di soffrire per l'amato, ed erano capaci di osservare il motto romantico: "O lui, o nessuno", fino a restar fedeli per la vita ad un traditore o ad un morto. Tale inverosimile fedeltà era consacrata non tanto ad un uomo quanto a un ideale, l'ideale d'una propria personalità lineare, coerente a se stessa, integra, poiché alla verginità del cuore ripugnava quel passare da un amore all'altro, che pure è cosa naturalissima e oggi riconosciuta come diritto, tanto da abolire fra i non cristiani e da mettere in dubbio fra i semi-cristiani l'indissolubilità del matrimonio. I sensi non accampavano le loro pretese sulla signorina ben nata, cresciuta nell'ignoranza del problema sessuale, ma si celavano nel cuore, parlavano il linguaggio del cuore e della fantasia, pronti a scatenarsi improvvisi nei temperamenti propizi, al momento opportuno. Date queste premesse ultrasentimentali, l'incontro con la realtà riusciva spesso un cozzo tragico, che frantumava non solo il castello del sogno, ma la diga del dovere, travolgendo qualche volta la vita della fragile fanciulla. Miranda del Fogazzaro, la Capinera del Verga, una delle Tre Marie di Jolanda, sono fra le più rappresentative incarnazioni letterarie della signorina di cinquant'anni fa.
*
Ieri venivano chiamate signorine le ragazze che portavano il cappello; oggi nessuna porta il cappello e tutte si chiamano signorine. Si dà questo nome, che non è più un titolo, alle popolane, alle contadine, alle fanticelle; oggi sono tutte signorine, mentre la "signorina" di stampo ottocentesco non c'è più, e nessuno certo la rimpiangerà quella figuretta sentimentale, se era proprio lei a preparare creature come donna Maria del Piacere, Bianca e Isabella di Mastro don Gesualdo, Elena di Daniele Cortis, Jeanne di Piccolo mondo moderno. Due guerre formidabili, con il rimescolio di popoli e d'idee che ne è conseguito, hanno mutato profondamente la posizione sociale della donna, le sue relazioni con l'altro sesso, la sua educazione, la sua mentalità. Si può dire scomparsa la signorina che vive in famiglia aspettando il marito, e se qualcuna in provincia rimane, non è certo più fortunata delle altre per la soggezione economica che la lega ai parenti. Oggi anche le più agiate, o studiano per prepararsi ad una professione, o imparano un lavoro in cui specializzarsi, in modo da trame guadagno per vivere.
Cinquanta o quarant'anni addietro la signorina appoggiava il suo avvenire sul ceppo familiare; oggi non può contare se non su se stessa, sa che deve bastare a se stessa con il lavoro e l'avvedutezza, come un uomo. Quel tesoro di intuizione, d'immaginazione e di sentimento che prima riversava nel cerchio familiare, ora deve in gran parte impiegarlo per farsi una posizione e mantenerla. Oggi c'è la studentessa, l'impiegata, la professionista, la commerciante, l'operaia, l'artigiana, l'agraria, ma la signorina senz'altro, ossia senz'altra occupazione che quella della casa e delle visite, non c'è quasi più. Non più ricamini, romanzetti, sonatine, blandi studi e blandi esercizi, ma il lavoro in tutte quelle forme che, fino a ieri, erano prevalentemente degli uomini, e parità con gli uomini nella vita aspra all'esterno, frettolosa in famiglia, brusca con tutti; nello sport che tempra i muscoli, nell'amore che non ha più veli neppure agli occhi infantili, ma va diritto al suo scopo naturale, senza la subdola mediazione del cuore, senza l'impaccio del pudore, senza l'ipocrita barriera dell'opinione pubblica, ormai smantellata dalle teorie naturalistiche e comunistiche. Le fede religiosa non è comune e quasi di regola, come un tempo, a tutte le signorine, ma quelle che la posseggono ne sono più coscienti, la vivono con pietà meno egocentrica, meno formalistica ed abitudinaria, la esplicano in forme attivissime di apostolato o di assistenza sociale.
L'istruzione, portata su di un campo più vasto se non più profondo, la concorrenza nel lavoro con gli uomini, infine la partecipazione alla vita politica hanno slargato moltissimo l'orizzonte della donna, spostando le sue preoccupazioni dall'amore, che prima ne era il centro ad altri settori di vita. E l'amore non è più considerato da molte come sacrificio, ma come piacere e diritto, non più come un vincolo perenne, ma come un incontro episodico, che dura quanto la passione. Smorzata la fiamma, sembra ipocrisia o follia quella fedeltà a cui si votavano le romantiche del tempo andato. La fanciulla nuova ha "ucciso il tarlo della malinconia". Se poi, in fondo, il cuore sogna e piange come una volta, poco importa e nessuno deve saperlo. Ogni manifestazione sentimentale è gelosamente soffocata da un'apparente indifferenza o da un sorriso scanzonato. Chi sospirasse per amore farebbe ridere, come chi scrive sonetti. Eppure... avviene di udire le più sconsolanti negazioni della vita, o (ma in sordina) le più romantiche confessioni, da signorine sicurissime di sé, in pantaloni sportivi, tra una sigaretta e l'altra. Cosa nuova? Non direi. Bradamante, in corazza e schinieri, con che disperata femminilità piangeva di gelosia per Ruggero!
E senza disarmarsi, sopra il letto,
col viso volto in giù tutta si stese,
ove per non gridar, sì che sospetto
di sé facesse, i panni in bocca prese.
(Orl. Fur., XXXII, 36)
Così fu e così è. Il cuore cambierà, quando muteranno il giro delle costellazioni e l'alternarsi del giorno e della notte.
Sono migliori le innumerevoli signorine di oggi delle "signorine" di ieri? Devono certamente essere migliori, perché attraverso l'esperienza sanguinante della guerra hanno conquistato una possibilità di lavoro, che le fortifica; un'accessibilità agli studi severi, che tende ad approfondire la loro mente; un'indipendenza morale ed economica, che permette loro di essere più sincere; una libertà di azione, che le rende più responsabili, e quindi sottolinea la loro personalità assai più che la "distinzione" della "signorina" antica. Fra tante conquiste, i pericoli però non mancano e se ne manifestano gli effetti nelle generazioni crescenti. Primo pericolo, che nasce in parte da ideologie materialistiche, in parte da un incondizionato livellamento al sesso forte, è quello di non apprezzare la verginità, di perdere la stima della purezza e con essa il senso del pudore. Si potrà sorridere delle esagerazioni di un tempo, o della ingenuità di certe zitellone che arrossivano parlando con un uomo e credevano ancora che i bambini si comprassero alle fiere, ma non si può sorridere, quando certe signorine d'oggi parlano un linguaggio equivoco, o dicono apertamente, a chi vuole e a chi non vuole saperli, i particolari più intimi della loro vita fisica, o passeggiano quasi nude per le spiagge, senza nessun rispetto ne a sé, ne agli altri.
Un secondo pericolo presentano gli studi quando sono o non bene diretti, o male assimilati da testoline acerbe, o impreparate, o costituzionalmente alogiche, nelle quali suscitano uno spirito ribelle e mordace, che pretende di essere critico, mentre è solo insofferente di disciplina e di paziente ricerca. Come diminuisce in molte ragazze il senso del pudore, così diminuisce quell'umiltà del pensiero di fronte al sapere, che una volta era simpatico atteggiamento della donna, ed è sempre, per tutti, condizione necessaria alla conquista della verità. In altre menti femminili più pensose, ma sviate da teorie erronee, gli studi portano una inquietudine tormentosa, spesso un profondo squilibrio psicofisico, a cui segue quasi sempre l'allontanamento definitivo da quella fede che un tempo era prerogativa del "devoto femmineo sesso". E questi tré elementi: l'accentuarsi, per non dire l'esasperarsi, dell'attività esteriore, dovuta alle difficoltà economiche; il disprezzo, o, per lo meno, la noncuranza della purezza, l'intellettualismo male inteso, producono una specie di insensibilità morale, che suggerisce troppo spesso alle signorine la pseudo-ingenua domanda: "Che c'è di male?" davanti alle imprudenze più gravi, o addirittura alle colpe. E con la formula: "Nulla di male!" respingono gli ammonimenti, accusano gli ammonitori d'incomprensione o di grettezza spirituale; e si rifugiano in una innocenza immaginaria, che denuncia il distacco più o meno volutamente cosciente dall'etica cristiana.
Un terzo pericolo derivante dalle stesse cause, è l'estendersi fra le donne di certe colpe che prima erano particolari agli uomini, come la bestemmia e il turpiloquio. Un quarto pericolo è quello di perdere la propria dignità per una malintesa democrazia, cioè per fare come le altre. Se la signorina ottocentesca spesso rigava diritto solo per rispetto umano, molte signorine del Novecento per rispetto umano soltanto si intruppano con le peggiori, e vestono e parlano senza verecondia, e si atteggiano mascolinamente, anche se nel fondo del loro essere si dibatte una tormentosa femminilità avida di purezza, di tenerezza e di protezione. Per non farsi notare, si allivellano alla massa; per condiscendere discendono, invece di elevarsi ed elevare. Eccessivo è il rimprovero del papiniano Celestino VI: "Le donne plebee scimmieggiano il malcostume delle danarose, le nobili s'incanagliano: tutte vogliono imitare, dalla libertà dei vizi alla foggia degli abiti, i maschi padroni".
Eccessivo specialmente nei riguardi delle ragazze. Non bisogna prendere sul serio le esagerazioni giovanili. La sfrontatezza di certe signorinette è solo occasionale; la sguaiataggine di certe monelle nasconde un cuore d'oro; la spavalda sicurezza di altre non è se non una rodomontata contro l'amore temuto o sofferto; ma intanto la grazia femminile scompare senza vantaggio né per la sincerità di oggi, né per le generazioni di domani.
La posa (se posa è) della sgarberia diviene più grave quando si rivolge contro la propria famiglia. Dispiace sentir le figliuole trattare i genitori alla pari, rimproverarli se occorre, rilevarne i difetti, giudicarli pubblicamente, senza indulgenza. D'altra parte, l'atto di accusa delle fanciulle d'oggi è la prova migliore che quelle di ieri furono male educate. Le mamme non perderebbero la loro autorità, se fossero come dovrebbero.
Infine il pericolo ultimo è che le signorine, assuefatte al lavoro extradomestico e alla vita indipendente, si disamorino della casa, che assorbe una fatica silenziosa e non immediatamente redditizia, e, accettando teorie troppo facili, preferiscano il libero amore al matrimonio consacrato e ai figliuoli. La famiglia finirà quando la fanciulla non sognerà più un nido suo, quando la donna non amerà più il suo focolare.
Speriamo che una più intensa educazione di vita interiore risusciti nelle signorine l'ideale della purezza e della gentilezza, accordabilissimo con il lavoro virile della donna nuova, e che ridesti anche il desiderio della distinzione, non per aristocrazia di sangue, o di ricchezza, o di sapere, o di gusti, ma per nobiltà d'animo e per consuetudine di pensieri alti. A questa aristocrazia spirituale la signorina italiana, venisse pure dalla zappa, non deve rinunziare. L'onore della patria è anche nella consapevole dignità delle sue donne.