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Se la guerra ritorna

Fra i molti insegnamenti che i dolorosi eventi tuttora in corso in Afghanistan e in Medio Oriente ci stanno impartendo, uno merita una particolare attenzione. È il ritorno in forze dello strumento bellico come mezzo di risoluzione dei conflitti politici. La retorica sulle ricadute pacifiche della diffusione della democrazia, che "conta le teste invece di tagliarle", ci aveva abituato a pensare che a tentare di recidere i nodi con la spada fossero ormai solo gli autocrati, i tiranni e i dittatori. Ma l'attualità ci fornisce una visione alquanto diversa del problema. Stati a regime democratico come gli Usa ed Israele sono oggi impegnati più di altri in guerre senza requie, in cui impiegano gli stessi metodi brutali che soprattutto i primi hanno rimproverato e tuttora rimproverano di usare a governi autoritari (si pensi all'epoca in cui i militari sovietici occupavano Kabul): bombardamenti su obiettivi civili, distruzioni di massa, rastrellamenti di città e villaggi, persino esecuzioni sommarie nelle carceri o negli ospedali.

Bush e Sharon sono governanti liberamente e direttamente eletti dalle popolazioni dei rispettivi paesi. Godono, seppure in misura diversa, di ampi appoggi diplomatici in giro per il mondo e non mancano certo delle risorse che abitualmente consentono di tenere sotto controllo i conflitti interni ed esterni: potenti alleati, un buon grado di consenso nei media, forze armate e di polizia addestrate e ben fornite di equipaggiamenti, servizi segreti efficienti e con ampia licenza di azione, tecnologie d'avanguardia. Malgrado ciò, nelle crisi che li hanno di recente coinvolti non sono riusciti ad evitare il ricorso alla forza anche in forme estreme, e neppure l'adozione di un gergo che ricolloca l'ardore guerresco al culmine delle virtù civiche di una democrazia, oltre sessanta dopo il richiamo a "sangue, sudore e lacrima" con cui Winston Churchill spronò gli inglesi a resistere agli attacchi tedeschi. Viene spontaneo chiedersi se comportamenti del genere siano la temporanea eccezione a una regola ormai codificata dai manuali di scienza politica o non configurino invece uno strappo sostanziale alla teoria normativa della democrazia. Senz'altro non il primo - abbiamo visto di recente governi sorti dagli esiti di un corretto voto popolare messi in discussione perché, a parere di un certo numero di uomini politici e intellettuali di varia nazionalità, non garantivano una preventiva fedeltà a valori che un invisibile Tribunale della Retta Coscienza Universale giudica intoccabili - ma sicuramente uno dei più gravi sinora registrati.

Si tratta infatti di capire se, esaurito lo slancio utopico che l'aveva caratterizzata nel secolo scorso e tanto plauso le aveva provocato presso l'opinione pubblica mondiale nel confronto con i rivali autoritari e totalitari, la democrazia liberale abbia deciso di dismettere i panni del pacifismo e di riammettere la guerra fra i normali strumenti di esercizio del potere, rinunciando di fatto a uno dei puntelli delle sue pretese di superiorità etica sulle altre forme di governo.

I segni che ci si sta orientando in questa direzione si moltiplicano da tempo. C'è chi fa notare che sin dagli anni della Guerra fredda gli Stati Uniti d'America non hanno esitato a far ricorso alla forza militare, diretta o per interposti alleati, ogniqualvolta reputavano in pericolo in qualche parte dello scacchiere strategico le posizioni acquisite. È vero, e dai documenti sui vari colpi di stato fomentati dalla Cia alle pronunce della Corte di giustizia dell'Aja sulle conseguenze omicide delle azioni svolte tramite i contras in Nicaragua, le prove di questi comportamenti sono schiaccianti; ma fino a poco tempo addietro ciascuno di essi veniva giustificato dalla presunzione dell'ostilità dei soggetti colpiti verso gli aggressori. Quando ha attaccato la Jugoslavia, la Nato non si è premurata neanche di esibire un pretesto di questo genere. Ha semplicemente violato la sovranità di uno Stato chiamandone in causa le conflittualità interne e facendo passare una guerra civile, in cui i ribelli al potere centrale non rifuggivano da atti di terrorismo, per una repressione unilaterale contro una minoranza indifesa. La guerra scatenata dopo l'11 settembre contro il governo afghano ha segnato una tappa ulteriore dell'escalation: senza alcuna prova visibile, ha reso un regime e il paese che lo ospitava responsabili agli occhi del mondo di complicità in una rete terroristica planetaria e sancito l'insindacabile diritto del gendarme planetario alla punizione dei colpevoli di atteggiamenti ostili o sgraditi. Dopo la pretesa di incarnazione del Bene assoluto, anche la categoria del Nemico metafisico è trasmigrata, con il discorso di George W. Bush sull'"asse del male", dall'arsenale ideologico totalitario a quello liberale, grazie alla pretesa dell'unica superpotenza mondiale di incarnare le ragioni dell'umanità. Pretesa che, come Carl Schmitt aveva lucidamente previsto nel 1927 nel saggio Il concetto di "politico" (un testo che è di grande aiuto per capire gli eventi odierni), torna utile a chi voglia portare a compimento i propri disegni imperialistici e mettere fuorilegge - e fuori dal consorzio umano - chiunque osi ostacolarli.

Il sanguinoso conflitto fra israeliani e palestinesi accentua ancora più pericolosamente questa tendenza. L'avallo che gli Usa offrono alle azioni militari di Israele, giudicandole espressione di un legittimo diritto all'autodifesa anche quando colpiscono la popolazione civile, è un ulteriore passo avanti nella distinzione dell'umanità in due ranghi: i buoni, cui tutto è lecito per difendere i propri interessi - incluso il più volte minacciato uso dell'arma nucleare - e i cattivi, ai quali resta una sola opzione, arrendersi o subire una punizione esemplare.

Con questo comportamento si cerca di indurre l'opinione pubblica mondiale a collocare in un'ottica morale e passibile di valutazioni oggettive quello che in realtà è, in realtà, uno scontro tra opposte motivazioni, soggettivamente vissute da entrambe le parti come pienamente legittime, attorno a obiettivi non negoziabili in quanto connessi ad oggetti indivisibili. Gli israeliani e i palestinesi aspirano al possesso e al controllo della medesima terra, reclamando diritti che derivano da due diverse e confliggenti letture della tradizione e della storia della regione contesa, entrambe intessute di ricordi storici e metabolizzazioni culturali. L'appartenenza all'uno o all'altro dei campi in lotta porta all'inevitabile svalutazione delle altrui ragioni e all'insinuazione o all'aperta ostilità verso chi le sostiene, in una spirale da cui non si vede altra via di uscita che, appunto, il regolamento dei conti attraverso le armi, in una versione aggiornata dell'ordalia. E non aiuta a dipanare la matassa e a indirizzare i contendenti verso una soluzione incruenta del dissidio il richiamo alla filosofia dei diritti umani, che pure è risuonato insistente e pressante in molte altre recenti occasioni.

In questo caso, infatti, non incontra universale consenso la proclamazione del diritto dei rifugiati a rientrare nella terra da cui ingiustamente sono stati espulsi, poiché, si sente dire e si legge, il ritorno alle loro case dei profughi che hanno dovuto abbandonare la Palestina dal 1948 in poi - almeno due milioni - metterebbe a repentaglio la sicurezza di Israele. Né ha un'eco significativa il monito, in altre circostanze intransigente, a non operare discriminazioni fra cittadini di razza o fede diversa: Israele continua a volersi considerare sine die uno "Stato ebraico", cioè a fondamento etnoreligioso, e non intende veder messo in discussione questo status né dalle dinamiche demografiche né da decisioni politiche, confortato in questa intransigenza dai pubblici pronunciamenti di molti suoi intellettuali. E neppure vigono, nei luoghi cari alle tre confessioni monoteiste, le convenzioni stabilite per il trattamento di prigionieri e nemici. Le uccisioni mirate passano per operazioni di "autodifesa preventiva" anche quando coinvolgono innocenti, i rapimenti e le eliminazioni a bruciapelo sono prassi costante, la repressione delle manifestazioni sin dall'inizio della seconda Intifada falcia anche donne e bambini, la resistenza viene combattuta spianando case coi bulldozer e sradicando piantagioni, ma nessuno ipotizza seriamente - e men che meno i governi dei paesi democratici - che tutte queste pratiche possano un giorno venire giudicate e sanzionate da una corte internazionale di giustizia simile a quella che imputa a Milosevic gli orrori delle guerre nell'ex Jugoslavia. Ovviamente, rilievi dello stesso tenore possono essere indirizzati anche a chi combatte la propria causa spargendo bombe e morte fra semplici cittadini o liquida senza processo i sospetti di intelligenza col nemico; ma poiché gran parte del "mondo libero", presidenza degli Usa in testa, ha sinora giustificato le posizioni assunte da Israele nel conflitto - occupazione militare di terre abitate da altri popoli inclusa - con un richiamo alla sua natura di paese democratico (e quindi, si sottintende, più civile e rispettoso delle leggi della controparte), è soprattutto questo paese a dover rendere conto delle incongruenze del proprio operato.

Qualunque sentimento si provi verso le parti in causa, non si può negare che le ostilità in atto in Palestina stracciano il velo della concezione irrealistica della politica che si è affermata negli ultimi decenni sotto l'egida dell'ideologia dei diritti dell'Uomo e degli interessi occidentali che la sponsorizzano. Esse mostrano che la pace può non essere, agli occhi dell'opinione pubblica di un paese, un valore indiscutibile, se non si accompagna alla giustizia, e che la guerra non sempre vede alle prese avversari di cui si possa pretendere di riconoscere distintamente dall'esterno i torti e le ragioni, individuando vittime e carnefici. Indicano, poi, come quello che per gli uni è terrorismo per gli altri non sia che tecnica di guerra non convenzionale, resa obbligata dalla sproporzione delle risorse belliche in campo, e come l'autodifesa di una parte appaia all'altra sopraffazione e offesa (così come gli insediamenti ebraici in quelli che molti mezzi di comunicazione si sono pudicamente abituati a definire "i Territori", tacendo l'aggettivo "occupati" - da Israele nel 1967 - appaiono a chi li promuove colonie di popolamento di un suolo irredento e a chi li subisce, invece, avamposti nemici in casa propria). Rendono evidente, ancora una volta, che le stesse azioni violente configurano per un popolo una doverosa lotta di liberazione e per un altro un'intollerabile minaccia alla propria sicurezza. E soprattutto sottolineano che anche regimi democratici possono infrangere a proprio profitto sia il diritto internazionale sia quello interno (la suprema corte israeliana ha riconosciuto lecita la tortura in casi eccezionali), revocare gli impegni assunti con la firma di trattati garantiti da paesi terzi - come quello di Oslo -, rifiutarsi di adempiere per decine di volte alle risoluzioni di organismi sovranazionali ai quali aderiscono e dei quali in teoria riconoscono la giurisdizione, come l'Onu, né più né meno (e anzi, più) di quanto fa o farebbe qualsiasi regime autoritario, senza incorrere in sanzioni e neppure nell'unanime deprecazione degli altri Stati che si richiamano al loro stesso principio di legittimazione.

Tutto ciò può apparire, e a noi appare, ingiusto e triste, ma è un dato di fatto. Come lo sono, ovviamente, le violazioni alle norme della convivenza civile, della pietà e del rispetto dell'integrità della persona di cui si rendono responsabili i kamikaze palestinesi. Non potendo, al momento, cancellarlo, è opportuno almeno trarne una lezione. Le epoche che hanno preceduto la nostra non si sono fasciate gli occhi di fronte al ruolo che la brutalità e la violenza svolgono nelle vicende umane, e hanno elaborato di continuo norme, tecniche e forme di pensiero che ne regolassero e limitassero le potenzialità implosive. La suggestione illuministica che impregna la modernità ha fatto credere, viceversa, che le guerre e gli sterminii non fossero altro che accidenti e imperfezioni che il cammino dell'umanità verso il Progresso materiale avrebbe cancellato, e l'ideologia liberale ha tratto spunto da questa convinzione per ergersi a spartiacque fra le incarnazioni terrene del Bene e del Male ed indicare la via di uscita dalle epoche tenebrose della Storia. Propositi senz'altro generosi; ma la realtà, ancora una volta, si rivela insofferente alle camicie di Nesso che gli uomini le vogliono imporre e ci ricorda che dietro le grandi perorazioni ideali si celano, spesso, solo interessi unilaterali, rapporti di forza e imperativi di potere. Che come tali vanno interpretati, giudicati e, se è il caso, combattuti. Senza credere ingenuamente che i destini del mondo siano oggetto di una partita disegnata a chiaroscuri, un wargame popolato da "imperi del male" e "grandi Satana", "macellai" e "paladini dell'umanità", "signori del terrore" e crociati della "libertà duratura" in cui basterebbe fare assennato ricorso al libretto delle istruzioni per trovare l'adeguato happy end.

Marco Tarchi

(dal n. 251 di Diorama Letterario)