La fine di una stagione


 


Dopo aver portato all'attenzione dei frequentatori di questo sito il libro di Piero Baroni "Una Patria Venduta" (vedi annesso precedente a questo stesso punto), ci pare di fare ancora una volta cosa utile a loro, e alla "verità storica" (che diventa tanto più completa quanto più si tengono in considerazione TUTTE le fonti, laddove esse sono invece troppo spesso selezionate e/o manipolate a uso e consumo di interessi e committenti neanche troppo ben dissimulati), presentando loro un altro interessante libro "fuori dal coro": "La fine di una stagione - Memoria 1943-1945", di Roberto Vivarelli (Ed. il Mulino, Bologna, 2000), attraverso la recensione che ne viene offerta nella rivista "Storia Verità", n. 28 del Gennaio-Febbraio 2001, p. 1 (Europa Libreria Ed., Roma, ordini@libreriaeuropa.net ).

Il libro in questione ha fatto abbastanza scandalo, soprattutto per la collocazione dell'autore nel quadro dell'ortodossia storica accademica, sicché egli non può essere accusato soltanto oggi di incompetenza, o di mancanza di professionalità (quando ricorda per esempio della "morte del comandante del Barbarigo, Bardelli, ucciso a tradimento, insieme ad altri suoi ufficiali e ad alcuni marò, in una premeditata imboscata partigiana, che per il modo come si era svolta mi parve, e mi pare ancora, un atto di grande viltà: gli uomini della Decima erano stati aggrediti durante un incontro concordato con i partigiani e dopo che, volontariamente, essi avevano deposto le armi" - loc. cit., p. 47).

Nonostante siano trascorsi ormai quasi 60 anni da quegli eventi, non sembra lecito infatti ancora possibile sostenere che:

" ... una guerra si può anche perdere, ma non così ... La nostra adesione ai tedeschi fu spontanea e incondizionata. Ci apparivano come alleati traditi, ai quali era doveroso mostrare con l'amicizia e la solidarietà che non tutti gli italiani erano traditori. L'Italia aveva ormai due volti, ma il volto della nostra Italia era quello consueto, cioè il volto che ci avevano insegnato ad amare sin dall'infanzia. Non eravamo noi ad essere cambiati ... Avevamo torto? Ancora oggi, malgrado il senno del poi, io non ne sono affatto certo" (loc. cit., pp. 23-25),

oppure, per concludere, che:

"A qualcuno che oggi mi chiedesse se sono <<pentito>> di avere combattuto nelle file della disprezzata Repubblica di Salò, risponderei che non soltanto non sono pentito, ma che ne sono a mio modo orgoglioso ... non mi dispiace essermi trovato dalla parte dei vinti, e tanto più avendo fatto la mia scelta quando era già prevedibile come sarebbero finite le cose. Certi debiti di fedeltà vanno pagati, anche se costano la sconfitta. Eppoi trovarsi dalla parte dei vinti ha i suoi vantaggi: è una buona lezione di modestia. Costringe ad un approfondito esame di coscienza, o almeno lo consente, assai più che non il trovarsi dalla parte dei vincitori. I quali sono invece esposti alle tentazioni di una superbia, che può fare dei brutti scherzi. Può fare sì, intanto, che si perda ogni senso di pietas nel considerare i propri avversari, deformandone i tratti sino a negare loro ogni umanità ... Inoltre questa superbia ha portato ad una impostura, cioè ad una deformazione della verità storica, e su questa impostura si è preteso fondare la nostra repubblica. Si sono chiamati <<liberatori>> gli Alleati e <<invasori>> i tedeschi, dimenticando che i primi sono sbarcati sulle nostre coste con un'azione di guerra, mentre i secondi queste coste le difendevano, accanto alle nostre truppe, come alleati ... "(loc. cit., pp. 23-25).

UB, marzo 2002
 


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UNA "STECCA" NEL CORO


 


Certo, se la Repubblica Sociale Italiana non ci fosse mai stata, tutto sarebbe più semplice, gli studi storici filerebbero lisci senza la necessità di spiegare l'inspiegabile, gli antifascisti-antifascisti non sarebbero costretti a negare la luce del sole per difendere la loro "verità", e gli antifascisti semplici non dovrebbero fare i salti mortali per salvarsi l'anima, oltre alla capra e ai cavoli. Persino Renzo De Felice, nelle sue ultime opere (Rosso e nero e Mussolini l'alleato) sostenne che senza la RSI non ci sarebbe stata una lotta fratricida ma solo una guerra di liberazione antitedesca. E dunque, si può anche scusare l'impudenza con cui giovani e non giovani volontari della Repubblica hanno sfidato la V e l'VIII Armata che premevano da sud, i titini che irrompevano da est, gli agguati dei GAP, le imboscate delle bande comuniste e non comuniste, lo sterminio imminente e sicuro che li attendeva, ma davvero non si può capire come non abbiano avuto la delicatezza e la buona creanza di togliersi di mezzo, per non privare tante brave persone dei loro sonni tranquilli.

La questione non è antichissima, perché fino a una decina di anni fa non si parlava della RSI né dei suoi combattenti, ma solo di "Salò" e dei "repubblichini", e non si cercavano spiegazioni o giustificazioni per l'una né per gli altri, se non per accusarli di essere stati "al soldo dei tedeschi". Veniva naturalmente trascurato a questo riguardo il fatto (ricordato anche in questo numero di Storia Verità) che la RSI e quindi anche i suoi combattenti, non ricevevano una lira dalla Germania, mentre era invece la Wehrmacht a ricevere dalla RSI la somma mensile di 7 miliardi, aumentati poi a 10, per il mantenimento delle truppe tedesche operanti in Italia: per cui non gli italiani erano "al soldo" dei tedeschi ma se mai i tedeschi "al soldo" degli italiani. Non si dovrebbe dimenticare, parlando di soldo, di soldi e di stranieri (si veda Storia Verità n. 1 nuova serie), che il CLNAI riceveva invece per l'attività delle sue bande partigiane, 160 milioni al mese, non dal Governo del Sud, ma direttamente dal Comando anglo-americano.

Il discorso si è fatto relativamente più serio dall'inizio degli anni '90, quando per merito principale di Claudio Pavone, ma anche degli studi di Ernesto Galli Della Loggia e dei coraggiosi romanzi di Giampaolo Pansa, si è diffusa (ma non senza una certa sofferenza, stoicamente sopportata) l'idea che in Italia, tra il '43 e il '45, ci sia stata una guerra civile, e quindi uno scontro tra sostenitori di opposte tesi e concezioni. Così nacque la questione, perché il passo successivo sarebbe dovuto essere quello di identificare queste tesi e concezioni, e di accertare la natura e le cause del loro contrasto. Fin qui, però, la cultura ufficiale non poteva spingersi, perché avrebbe dovuto considerare gli uomini della RSI non più come un branco di malfattori o, al massimo, di sprovveduti "in buona fede", ma come combattenti che avevano un'idea e la sostenevano sparando come i fautori della tesi opposta sostenevano la propria. Nemmeno l'intellighentia più aperta e meno faziosa poteva spingersi a tanto, perché questa sola premessa sarebbe bastata a mettere le due parti sullo stesso piano, e dunque a ipotizzare che anche i "fascisti"' potessero avere le loro ragioni. E questo avrebbe fatto tremare le fondamenta di quel vasto e ben attrezzato complesso di cariche governative, di seggi parlamentari, di cattedre accademiche, di case editrici, di giornali e telegiornali che da più di cinquant'anni si regge sul culto di una verità storica e politica a senso unico, sottratta a ogni ipotesi di possibile verifica, e suffragata ormai da tanti ex fascisti o postfascisti che, sia pure in ritardo, hanno imparato a vivere e stare al mondo.

Questo spiega il clamore che ha accompagnato l'uscita, nello scorso mese di novembre, de La fine di una stagione, opera di Roberto Vivarelli, anziano e ben noto storico, finora schierato rigorosamente a sinistra con una nutrita serie di lavori che non avevano fatto sospettare il suo passato di combattente della RSI. Con questa inattesa sortita, Vivarelli non solo rende nota la sua esperienza giovanile, su cui i pochi che ne erano a conoscenza avevano steso un pudico velo, ma se ne dichiara non pentito, rompe nel giustificarla una serie di tabù che finora nei suoi ambienti nessuno aveva osato toccare, e abbatte un buon numero di quelle menzogne convenzionali che reggono l'intero sistema politico-culturale di cui sopra. Tanto per fare un paio di esempi, Vivarelli sfata la leggenda del "tedesco invasore" e spiega che a sbarcare militarmente in Italia furono gli "Alleati" mentre le truppe germaniche la difesero, e nega poi che l'antifascismo abbia mai abbattuto il fascismo, sconfitto invece dalla potenza delle armate angloamericane.

Come si vede, questo libro-scandalo non contiene che fatti inconfutabili, e in realtà, fra i tanti che dal suo antico mondo levano la voce contro l'autore, nessuno si prova a confutarli. Quello che gli si rimprovera non è il contenuto delle sue tesi, ma il fatto di averle sostenute, rompendo l'omertà e scoprendo gli altarini. In sostanza, Vivarelli si è comportato non da quell'intellettuale che è stato poi, ma da quel combattente che era stato in origine, ed ha scritto cose che tanti altri suoi antichi camerati hanno sostenuto, fuori del coro, e ignorati dai cantori del medesimo. Ma Vivarelli del coro ha fatto pane, e formalmente non ne è ancora uscito. Perciò la sua voce "stecca" e dà i brividi ai tanti che nel coro ci stanno ancora benissimo, e vorrebbero che durasse in eterno.

(Storia Verità - Editoriale)