Hollywood s'en va-(t)-en guerre(1)
Analisi semiseria di un preoccupante fenomeno collettivo d'Oltreoceano

(Enrico Cernuschi)


 


Un cinema all'aperto

La natura silenziosa e invadente del potere marittimo è tale, a parere di chi scrive, da far capolino perfino nel corso di un (modesto) film proiettato, l'estate scorsa, in un cinema all'aperto.

La trama della commedia in questione, intitolata "Un amore a cinque stelle" e interpretata dalla nota cantante statunitense d'origine ispanica Jennifer Lopez, non riveste, di per sé, alcuna importanza ai fini di queste pagine, incentrata com'è sull'eterno tema della Cenerentola sposata infine da un principe azzurro (nonché senatore dello Stato di New York) ispirato, per l'occasione, fin troppo spudoratamente, all'attuale Presidente Bush, praticamente clonato sullo schermo da un produttore di fede repubblicana un po' troppo zelante.

Ciò che colpisce, viceversa, è che tra i cattivi della pellicola spicca per avidità, disonestà, e cattivo gusto, appena coperto da un sottile strato di vernice di apparente savoir faire, una coppia francese consegnata, infine, dai nostri eroi alla severa giustizia dei tribunali USA(2).

La decisione hollywoodiana di procedere, nonostante gli infiniti lacci e laccioli imposti già da molti anni ai propri sceneggiatori da quello spirito politically correct che sta progressivamente imbalsamando il cinema e la letteratura d'Oltreatlantico, a dar corso, nonostante tutto, ad una spietata disanima dei più vieti luoghi comuni anti-francesi non è, di per sé, una novità.

Già lo scorso anno era "esploso" il caso del ritratto, veramente perfido, del "contingente di pace" dell'esercito francese tratteggiato dai cineasti statunitensi in occasione delle riprese di "Behind the enemy lines", un film importante interpretato, con crudo realismo, dal "duro" hollywoodiano Gene Hackman sullo sfondo delle recenti campagne bosniache.

Il contemporaneo pullulare dei più triti motti di spirito antifrancesi nei siti internet di mezzo mondo - si veda, per esempio, la ricca selezione ospitata per l'occasione dal pur eccellente forum di Feldgrau - http://www.feldgrau.net - (dedicato, con grande serietà d'intenti, alla storia delle FFAA tedesche tra il 1919 e il 1945 ma ideato e amministrato, in realtà, negli USA) rifischiando vecchie battute d'avanspettacolo sul genere di: "Perché i parigini hanno costruito i boulevard? Ma per far sfilare meglio la Wehrmacht", salvo riprendere persino il vecchio nomignolo "frog" (ovverosia mangiatore di rane) di buona memoria napoleonica, sottintende, di per sé, uno stato culturale e, pertanto, diffuso, delle relazioni che va al di là delle pur gravi crisi internazionali verificatesi con sempre maggiore frequenza tra Parigi e Washington nel corso degli ultimi anni e dei correlati "sgarbi" consumati in sede diplomatica dai rispettivi capi di stato e dai ministri degli esteri.

L'uovo e la gallina

In realtà, anche senza voler riprendere il celebre motto di mussoliniana memoria in base al quale: "La cinematografia è l'arma più forte", è un fatto che il cinema statunitense ha sempre preceduto di una buona lunghezza la successiva evoluzione della politica estera del proprio paese, promuovendo pellicole che hanno magari causato, sul momento, grossi imbarazzi al Dipartimento di Stato salvo rivelarsi, alla fine, a dir poco profetiche.

Questo fenomeno è, inoltre, tanto più interessante una volta che si pensi che i soggetti e i film in questione non sono il prodotto di una precisa politica governativa. ma il frutto di una libera scelta. In altre parole non si tratta di propaganda, più o meno occulta, patrocinata dall'esecutivo, ma, più semplicemente, del frutto di una ricerca di mercato. Il pubblico USA, cioè, desidera vedere criminalizzato, di volta in volta, un preciso avversario, reale o immaginario che sia, e Hollywood, come ogni buon produttore e commerciante di questo mondo, non pensa affatto di modificare i gusti del cliente, bensì semplicemente di accontentarlo, sia pure con larghezza tipicamente yankee.

La ricetta in questione, valida e imparata a memoria sin dagli anni Venti, prevede l'attribuzione manichea, in puro stile anglosassone, al "nemico" di turno di tutti i peggiori difetti, nessuno escluso, fatta salva una precisa caratterizzazione nazionale, facilmente riconoscibile, dei vari "tipi" via via affrontati.

I precedenti

Il risultato di questa formula micidiale di sicuro effetto si è via via materializzato nella descrizione caricaturale dei tedeschi (marcati immancabilmente alla stregua di un popolo rigido, sadico e fondamentalmente stupido) nata con il capostipite de "Il grande dittatore" di Chaplin distribuito nel 1940 (ma ideato due anni prima) e col successivo "Confessioni di una spia nazista", sceneggiato, prodotto e distribuito worldwide pochi mesi dopo inserendovi una tale, subdola carica di perversione, da contribuire, dichiaratamente, al peggioramento del clima, formalmente corretto, in essere, in quel periodo (primavera 1940) tra un'America ancora onestamente neutrale e il Terzo Reich, provocando, alla fine, un vero e proprio incidente diplomatico.

Il villain germanico (prima ancora che nazionalsocialista), destinato a perpetrarsi ininterrottamente fino ad oggi senza sostanziali soluzioni di continuità, venne quindi tosto seguito dal perfido giapponese cominciando, ben prima di Pearl Harbor, con i cerimoniosi e pericolosissimi sabotatori nipponici di "Acque del sud" combattuti, a bordo di un apparentemente pacifico piroscafo passeggeri diretto alle chiuse di Panama, da un impietoso e tormentato Humprey Bogart insidiato a ogni passo da mortali esperti di karatè e da un ancor più letale gruppo di bianchi rinnegati, uomini e donne, vendutisi per denaro a quegli stessi "sporchi musi gialli", destinati, nei decenni successivi, a cadere a migliaia, con immutata soddisfazione del pubblico statunitense, sotto le raffiche, tra gli altri, di John Wayne, Lee Marvin e, infine, sia pur nella più recente e rinnovata versione vietnamita, di Sylvester Stallone, alias Rambo.

Anche i russi, alias sovietici, vennero inquadrati, con notevole perspicacia geopolitica, da Hollywood molto per tempo. Il filone, inaugurato sottilmente mediante l'ironico "Ninotchka" interpretato con grande successo da Greta Garbo nel 1939 registrò, già nel 1940, un ulteriore, e sensibile salto di qualità ostile grazie alle imprese dell'allora popolarissimo Clark Gable impegnato, sotto le vesti del "Corrispondente X", a combattere goffi e crudeli russi dalla voce (e dalla fronte) bassa - oltre che infagottati in abiti di pessimo taglio e caratterizzati da modi peggio che rozzi - sulla falsa riga di un copione culminato, probabilmente, nel memorabile "Io ti spiezzo in due" pronunciato dal cattivo Ivan di turno nel corso del celebre Rocky IV del 1985.

Ritorno al futuro

Una volta data per scontata la natura significativa, quantomeno a mo' di galleggiante, degli umori profondi della psiche popolare americana tradita dalla propria cinematografia, appare opportuno chiedersi quale sia stata l'origine prima dell'attuale, diffusa francofobia statunitense.

La prima evidenza del "nuovo corso" in questione è ravvisabile, a parere di chi scrive, in quella sorta di manifesto programmatico su pellicola e nastro magnetico che fu "Die Hard", una ruvida, bellissima pellicola interpretata con grande successo da Bruce Willis nel 1987 e più nota, in Italia, col titolo di "Trappola di cristallo".

Essendosi accorti, con assai maggiore prontezza del Dipartimento di Stato (tradizionalmente considerato dall'opinione pubblica e dagli storici come il meno efficiente e più legnoso, nei secoli, tra i vari organi di governo di Washington), della prossima, inevitabile caduta dell'URSS Gorbacioviana, i produttori e gli sceneggiatori statunitensi, mossi come sempre dal proprio innato fiuto, oltre che da precise ricerche di mercato, pensarono bene di offrire al pubblico interno una nuova schiera di "cattivi" DOC. Sia che si trattasse di una semplice necessità narrativa in omaggio all'eterno schema della lotta tra il bene e il male (senza la necessità di spiegare, ovviamente, a chi toccasse, per definizione, il ruolo di "buono" per antonomasia, quantomeno dall'epoca de "L'arrivano i nostri!" in poi) sia che fosse il riflesso, più o meno inconscio, di un horror vacui dialettico, il risultato finale fu che nella pellicola in questione, subito salutata come un grande successo in America dapprima e nel resto del mondo poi (fatta salva la sola, comprensibile eccezione, come si vedrà, del mercato germanico), il "nostro eroe" yankee (in compagnia della propria combattiva moglie d'origine, forse non a caso, italiana) doveva vedersela con un folto gruppo di terroristi europei guidati da un cinico leader tedesco affiancato da alcuni luogotenenti appartenenti alla propria stessa nazionalità assieme ai quali intratteneva, nei momenti di maggiore tensione, inquietanti conversazioni - non doppiate - in tedesco secondo il miglior stile del cinema italiano neorealista del dopoguerra. L'ostilità dei terroristi europei (privi, ad ogni buon conto, di rappresentanti britannici o, quantomeno, dell'IRA) era dichiaratamente rivolta ai tradizionali valori statunitensi e alla cultura, liquidata come ormai irrimediabilmente decaduta, dell'American way of life col conforto, come se ce ne fosse stato bisogno, dell'attiva collaborazione di un altrettanto determinato collega criminale nipponico.

Negli anni successivi, d'altronde, i mai dimenticati giapponesi avrebbero fatto le spese ad abundantiam, nel ruolo di carissimi nemici ritrovati, delle attenzioni dei produttori e degli sceneggiatori anglo americani passando dal crudo "Impero del sole" di Steven Spielberg fino all'apoteosi del noto thriller finanziario "Sol Levante", interpretato da uno Sean Connery in stato di grazia ben deciso a smascherare, a benefico degli USA e, più in generale, dell'occidente, le malefatte economiche di quei subdoli avversari orientali in grado ormai, a colpi di scalate azionarie e di dumping, di causare agli onesti risparmiatori e lavoratori anglosassoni danni ben peggiori di quelli messi a segno, cinquant'anni prima, dai loro genitori nelle acque di Pearl Harbour o, ancora, in occasione dell'invasione delle Filippine.

Il minor spessore assegnato ai tedeschi, nel corso dei successivi anni Novanta, nel ruolo di rinnovati "cattivi" per antonomasia di turno da parte del cinema statunitense(3) passando, viceversa, quest'onore (e onere) sulle spalle dei francesi va a sua volta cercato nella saggia politica di "basso profilo" adottata prima da Bonn e, in seguito, da Berlino, a partire dalla reintroduzione, nel 1956, della coscrizione obbligatoria da parte della Repubblica Federale(4) lasciando così al più visibile e rumoroso (ancorché, dal 1963, economicamente minoritario) socio francese le luci della ribalta internazionale.

L'ingenerosa liquidazione culturale hollywoodiana (sia pure a beneficio, in primo luogo, del solo grosso pubblico USA) dei francesi ritraendoli alla stregua di nuovi nemici ereditari della repubblica stellata, facendo così fuori, in un solo colpo, le figure storiche di La Fayette, Rochambeau e di quell'ammiraglio De Grasse che pure assicurò, nel 1781, mediante la vittoria navale del Chesapeake riportata sulla squadra inglese di Graves, la conseguente resa britannica di Yorktown e l'indipendenza stessa degli Stati Uniti, ha naturalmente attinto largamente al vecchio immaginario collettivo nordamericano, pescando a piene mani tra i ricordi ancestrali delle guerre indiane antecedenti la dichiarazione d'indipendenza del 1776 (già evocate, peraltro, magistralmente, nel 1940, in occasione delle riprese del celebre "Passaggio a Nord Ovest", interpretato da Spencer Tracy e Robert Young) e quelli, successivi, della sfortunata spedizione messicana messa in atto da Napoleone III approfittando, furbescamente, della finestra d'opportunità assicurata al vecchio continente (rappresentato, per l'occasione, dalla Francia e dall'Austria) nel nuovo mondo grazie al contemporaneo scatenarsi, a nord del Rio Bravo, della Guerra Civile statunitense tra Nord e Sud. Né poteva mancare, ovviamente, nel corso di questo sfogliare tra le vecchie istantanee dell'album cinematografico di famiglia hollywoodiano, la puntuale riproposta, in tutte le salse, da parte dei media USA, della celebre scena d'apertura di quel classico tra i classici che fu "Casablanca" (interpretato nel 1942 da un cast d'eccezione formato da Humprey Bogart, Ingrid Bergman e Claude Reins) nel corso della quale il corriere latore dei celebri passaporti che costituiscono il nocciolo della trama viene abbattuto a revolverate dai flic della Gendarmerie francese ai piedi di un gigantesco murale del Maresciallo Pétain recante l'ambiguo slogan (inventato di sana pianta, per l'occasione, dai sottili sceneggiatori californiani) "Mantengo sempre le mie promesse".

Il buono, il brutto e il cattivo

Volendo dar retta alla trama tratteggiata ormai da vent'anni dagli sceneggiatori nordamericani fino al punto di arrivare a ricoprire, grazie al favore, costante, del pubblico, la dignità di vera e propria categoria culturale, verrebbe tranquillamente da affermare che per i prossimi dieci o vent'anni i ruoli sulla scena mondiale siano già stati assegnati nell'ambito della rosa dei pochi, autentici protagonisti di taglia, dialetticamente divisi, come sempre, tra buoni e cattivi, oltre che nell'ambito dello stuolo delle inevitabili comprimarie di contorno.

Da una parte troneggia, more solito, il "buono" per definizione nordamericano, affiancato dalla "spalla" inglese, efficiente ma sempre un po' subdola ed egoista; a questo duo vincente va quindi aggiunta la presenza, sullo sfondo, del poco pretenzioso caratterista italiano in compagnia del ritrovato collega ispanico, elevato al rango di "cugino" onorario americano(5) in virtù dei propri mai rescissi legami con l'America Latina e dell'influenza sempre maggiore di cui gode oggi la lobby dei cittadini statunitensi d'origine spagnola.

Dall'altra parte della barricata figurano, per contro, "loro", i continentali, riuniti, sostanzialmente, nella coppia inossidabile franco-tedesca, cementata - nonostante tutto - dalla débâcle del 1940 che ha gettato, da allora in poi, nonostante alcuni momentanei e non decisivi "incidenti di percorso", la sciagurata e per sempre perduta Marianna nelle braccia della brutal friendship tedesca.

Naturalmente, come tutti i copioni cinematografici o teatrali, anche questa trama suona, a dir poco, improbabile.

La stessa ipotesi di un confronto (non certo una guerra) tra la solitaria portaerei francese Charles de Gaulle e le dodici similari unità allineate, sulle pagine degli annuari, della U.S. Navy, è semplicemente inconcepibile (anche se il matematicamente improponibile, precedente confronto di quattordici a zero tra la marina statunitense e quella sovietica era sensibilmente peggiore per quest'ultima, senza contare il fatto che i termini reali della questione, quantomeno sulla carta e limitatamente alle acque europee e a quelle islamiche e indù del Mediterraneo allargato, sono legati, in fin dei conti, alla mera sopravvivenza fisica del leader russo Putin, posto che una sua dipartita più o meno violenta - di per sé perfettamente in linea con le abitudini, anche recenti (leggi 1991), di quello strano paese, quantomeno dall'epoca di Ivan il Terribile in poi - restituirebbe, con ogni probabilità, la Santa Madre Russia alla storica frazione politica filo-tedesca che ha governato, a rotazione e a corrente alternata con i sempre sfortunati e minoritari "occidentalisti" di turno, la Russia degli Zar e, successivamente, l'URSS, quantomeno dal XVIII secolo in poi.

Il convitato di pietra

Viene infine da chiedersi, in margine a queste considerazioni semi-serie, perché mai Hollywood e l'opinione pubblica statunitense abbiano viceversa trascurato, dalla fine degli anni Sessanta in poi, il vecchio nemico cinese.

L'intesa scellerata ed intessuta di Realpolitik kissingeriana in atto, a partire dal 1971, tra i democratici Stati Uniti e la Cina di Mao (per di più nella versione crepuscolare e, se possibile, ulteriormente degenerata, della "rivoluzione culturale" e della famigerata "Banda dei quattro") poteva, ovviamente, giustificare, per tutto il restante periodo della guerra fredda, un insolito silenzio della Mecca del cinema nei confronti di Pechino del tutto analogo, d'altra parte, all'indifferenza, nel bene e nel male, ostentata dail cineasti californiani nei riguardi dell'URSS tra l'agosto del 1941 e l'inizio del 1947.

Quarant'anni di silenzio, tuttavia, sono un po' troppi, soprattutto una volta che vengano considerate sia la fine dell'URSS sia le dure prese di posizione assunte senza eccezione nei confronti di Pechino dai vari Presidenti, tanto repubblicani quanto democratici, succedutisi alla Casa Bianca dal 1992 in poi a causa, in primo luogo, della spregiudicata, aggressiva e tutt'altro che corretta politica economica e industriale cinese.

Al di là della parziale eccezione rappresentata da poche pellicole (computabili sulle dita di una mano) di modesto successo realizzate negli ultimi anni - a spese proprie - da alcuni attori statunitensi convertitisi al Buddismo e dedicate, più che al problema cinese vero e proprio, alla questione - al confronto tutto sommato abbastanza secondaria secondario - dell'indipendenza del Tibet, quest'apparentemente affettuoso silenzio del cinema statunitense (e, pertanto, della distribuzione mondiale) nei confronti del maggiore colosso continentale asiatico non può non destare una certa meraviglia.

Ancora una volta, secondo il concorde parere dei critici, dei sociologi e di alcuni psicologi, il divario inconfessato in atto in questi anni tra le preoccupazioni asiatiche, d'ordine classico, espresse in sede presidenziale, e la ben diversa tendenza manifestata al riguardo dalla massa della popolazione statunitense (apparentemente orientata più malevolmente nei confronti della nuova, vecchia, eterna Europa che non contro i dirimpettai continentali residenti al di là del Pacifico) è stato analizzato puntualmente e correttamente dagli esponenti di Hollywood prima ancora che dagli inquilini di turno della Casa Bianca e del Campidoglio. Il nocciolo della questione sarebbe da ricercare, secondo costoro, nella natura strategica del confronto potenziale in atto tra gli USA e la Repubblica Popolare Cinese.

In termini nudi e crudi un eventuale confronto o, addirittura, conflitto tra queste due potenze non potrebbe non rivestire, sin dalle battute iniziali, che i panni di una guerra nucleare, con tutti i rischi e i problemi (non ultimi quelli di natura morale dominati in primo luogo da quel concetto di "perdita dell'innocenza" - presunta - che è alla base stessa, quantomeno dal Seicento in poi, della mentalità protestante anglosassone) che Washington era riuscita, per contro, a schivare abilmente (e con un po' di fortuna) durante il lungo faccia a faccia sostenuto, per quasi mezzo secolo, con l'oggi defunta URSS.

Questa realtà, di per sé banale, sarebbe tale da spingere la massa degli statunitensi a rifiutare, psicologicamente, l'idea stessa di una vera e propria crisi a est, rifugiandosi, piuttosto, nella contemplazione dell'immagine, assai più rassicurante, di un "nemico" su misura, di mentalità e cultura analoga alla propria e suscettibile di venire, presto o tardi, ridotto all'impotenza o, quantomeno, neutralizzato, mediante l'uso dei vecchi e collaudati sistemi convenzionali già applicati con successo nel 1918, nel 1945 e nel 1989.

Conclusioni

Date queste premesse alcuni psicologi sono arrivati a sostenere che le pellicole hollywoodiane assolverebbero, a un tempo, una funzione di vero e proprio vaccino a beneficio del pubblico, abituandolo, da un lato, in via subliminale, ad ammettere la possibilità di un inevitabile crescendo della violenza su scala planetaria salvo dirottare il conseguente carico d'angoscia nei confronti del (tutto sommato) rassicurante parafulmine europeo.

Uno dei motivi di insicurezza profonda dell'americano medio sarebbe infine rappresentato dalla somma sempre più imponente di compiti assegnati in permanenza alle non infinite risorse della U.S. Navy, tradizionale "shield of the nation", assieme ai Marines, prima ancora e ben di più dei pur rutilanti colleghi dell'Air Force e degli eterni parenti poveri dell'esercito.

Una volta che si parta dal presupposto che gli USA, forti come sono di un pubblico e di associazioni di cultori di cose navali che vantano decine e, talvolta, centinaia di migliaia di iscritti appassionati, sono - dal punto di vista culturale, intellettuale e marinaro - una sorta di Gran Bretagna proiettata su scala continentale, la semplice constatazione che la marina degli Stati Uniti è passata, nel giro di due generazioni, dalle 24 portaerei di squadra del 1946 alle 18 della seconda generazione dei jet degli anni Cinquanta salvo scendere alle di media 16 unità del Vietnam e alle meno di 14 (navi scuola incluse) degli anni Ottanta toccando, infine, la quota odierna di appena 12 unità non è fatta, di per sé, per rassicurare, visto, per di più, che gli impegni fissi dell'U.S. Navy non sono diminuiti nel corso degli anni, continuando anzi a spaziare dalle profondità degli oceani all'eterno cortile (caraibico) di casa con l'handicap, per di più, della forzata immobilizzazione costante per lavori, ammodernamenti e compiti di nave scuola, di mai meno di un quarto della forza complessiva totale disponibile (in teoria) sulla carta.

Questo stato di cose, idealmente alla portata di chiunque voglia sfogliare un almanacco navale ma, in pratica, ignorato ostentatamente dai mezzi d'informazione e dagli stessi chierici, rappresenta di per se stesso il nocciolo di molte delle angosce da accerchiamento nordamericane e la spiegazione, mai confessata (in omaggio, una volta di più, ai sottili e, soprattutto, silenziosi meccanismi che regolano il potere marittimo) di molti atteggiamenti aggressivi dell'opinione pubblica statunitense riflessi, tra l'altro, da quello specchio, deformante ma, tutto sommato, fedele, che è il cinema hollywoodiano, con le sue idiosincrasie, le volute esagerazioni e una morale di fondo destinata a non tradursi, necessariamente, nel classico happy end che precede, di solito, i titoli di coda.

Ancora quarant'anni fa Franco Bandini, scrivendo in merito alla sempre più evidente incapacità della Royal Navy inglese di provvedere, mediante l'impiego delle proprie poche, residue e vecchie portaerei, alle costanti esigenze del proprio rimanente impero d'oltremare, abbandonando, infine, all'inizio degli anni Settanta, per puro difetto di forze, sia le posizioni a est di Suez sia lo stesso Mediterraneo, rilevò come forse: "…gli organismi altamente selezionati, come appunto l'Ammiragliato britannico abbiano (…proprio a causa del particolare "bagno culturale" nel quale sono immersi) una fresca giovinezza, una radiosa maturità e una melanconica fine"(6).

Niente di più probabile, pertanto, che, sulla base di una secolare esperienza basata sull'alternarsi di ben quaranta Re e cinque repubbliche (oltre che sull'esistenza, come lamentava il Presidente De Gaulle, di centodiciannove varietà di formaggio) e, soprattutto, in seguito al primato culturale conseguito dalla Mitteleuropa dall'epoca dell'Aufklärung settecentesco in poi, qualcuno pensi, come già quel vecchio, inquietante e (magia diabolica delle circostanze) saggio cinese, di aspettare, seduto stavolta sulle rive del mare anziché sulle banali sponde di un fiume limaccioso, che il ciclo storico dei popoli di lingua inglese si ripeta, puntualmente, una volta di più, sia pure su scala infinitamente più vasta e a scadenza ancora indeterminata.
 


Note


 


(1) Frase da pronunciare, naturalmente, sull'aria di "Marlborough s'en va-(t)-en guerre", un motivetto popolare francese vecchio ormai di quattro secoli e ancora oggi diffuso negli asili transalpini sul genere del nostro "Ambarabà, ciccì, coccò".

(2) Poche sere dopo mia moglie, appassionata cultrice del genere "rosa", mi ha trascinato a vedere un'altra recente commedia hollywoodiana: "Come farsi lasciare in dieci giorni", risultata il campione d'incassi della stagione. Anche qui, tanto per cambiare, si distingueva, nella trama, una coppia francese démodé e passabilmente corrotta, destinata a scatenare il dramma, a lieto fine, dei protagonisti.

(3) Non si può tuttavia trascurare la carica di grande malvagità e sadismo che ha impregnato gli inglesi tratteggiati nell'assai pubblicizzato - e crudo - film intitolato "Il patriota", interpretato da Mel Gibson. Ai fini di questo studio è curioso notare come la pellicola in questione sia stata ideata, sceneggiata, prodotta e distribuita in perfetta coincidenza con il periodo (storicamente insolito ma sempre grandemente temuto, nei secoli, da parte dell'esecutivo statunitense, alla stregua di un vero e proprio incubo sin dall'epoca dei mercenari assiani della guerra d'indipendenza) di stretta cooperazione internazionale con la Germania intrapreso da Londra nei confronti dapprima di Bonn e, poco dopo, di Berlino, a beneficio della riunificazione del Reich e dell'immediatamente successiva defenestrazione del "fenomeno" Thatcher da parte dell'ala più tradizionale del partito conservatore, tornata finalmente in prima persona alla guida del partito e della nazione (grazie ai buoni uffici del debole Premier Major) dopo una stasi iniziata nel lontano 1974. Il film in questione, peraltro, oltre ad aver determinato un vero e proprio incidente diplomatico tra Washington e la Corte di San Giacomo (poco entusiasta davanti a una scena nel corso della quale alcuni ufficiali e soldati inglesi in giubba rossa bruciavano vivi, allegramente, un gruppo di donne e bambini americani come se fossero dei nazisti qualsiasi) ha tuttavia influito pesantemente nell'immaginario teatrale e televisivo USA rinverdendo la classica tendenza dei registi d'oltre Atlantico ad attribuire ancora oggi ai cattivi di turno di lingua inglese proposti sul palcoscenico o per il piccolo schermo, un pesante e affettato accento britannico, giudicato ormai inseparabilmente legato, nei gusti del pubblico, a una correlata ed efficace immagine di doppiezza e perfidia. Un analogo automatismo di segno, tuttavia, positivo, caratterizza, per contro, nell'immaginario collettivo del piccolo e grande schermo USA, lo stereotipo del mafioso italo - americano ritenuto, grazie in primo luogo a quel grande film che fu "Il Padrino" e al successivo "L'onore dei Prizzi", rassicurante e gradito al pubblico sulla base del concetto, abusato, dell'affidabilità ed efficienza, per quanto criminale, degli uomini d'onore.

(4) Fanno eccezione, naturalmente, a questo schema le frequentissime, nuove pellicole dedicate da Hollywood alle tragiche vicende dello sterminio degli ebrei nel corso dell'ultimo conflitto mondiale. Tutti i film in questione, infatti, sono caratterizzati da figure tedesche condannate a vivere e a far rivivere quel "passato che non passa" che, in dosi sempre più massicce, dovrebbe assicurare, secondo il parere di molti commentatori di estrazione diversa tra loro, una sorta di "cloroformizzazione" subliminale della nuova Germania. Naturalmente, come tutte le cure (anche psicologiche) somministrate a dosi massicce anche questa terapia d'urto, in atto ormai da quarant'anni, potrebbe provocare delle crisi di rigetto come lascerebbero supporre, per esempio, la nota polemica tra storici in atto già da qualche tempo in Germania (Historikerstreit) in vista della da tutti auspicata, nuova e unificante "kulturelle Gedächtnis", ovverosia una "memoria culturale" condivisa sia dalla sinistra sia dalla destra tedesca del XXI secolo, che dovrebbe riunificate riunificare l'immagine collettiva della nazione e rimuovere, una volta per tutte, i profondi sensi interiori di colpa di quella cultura più profondamente sentimentale che razionale, come lamentava già Goethe nel Settecento.

(5) La Spagna, privata come fu, in seguito alla disastrosa sconfitta di Trafalgar, nel 1805, e a quella sorta di 8 settembre ante litteram che fu l'usurpazione perpetrata da Napoleone a Baiona nel 1808, di qualsiasi residua velleità navale, oltre che dai dei propri secolari sogni continentali e carolingi si ridusse a una mera appendice - isolata dai Pirenei - della scena continentale europea. Da allora in poi il ruolo strategico della penisola iberica fu quello di eventuale testa di ponte, attuale o in potenza, della nazione anglosassone dominante di turno. Tutto questo comportò, a sua volta, una decadenza culturale ed economica e un "ritardo", rispetto alle altre maggiori realtà occidentali del continente, ancora non del tutto riempito dopo due secoli. Dato questo quadro, le vicende italiane dell'ultimo conflitto mondiale e dell'armistizio fanno, al confronto, una ancora tutto sommato dignitosa figura; la discriminante tra lo storicamente assai duro destino spagnolo e quello dell'Italia sembrerebbe risiedere, tra l'altro, nei ben diversi risultati conseguiti dalla Regia Marina e dalla sopravvivenza, dopo il 1945, di un'autonoma ed evolutiva linea di pensiero intellettuale da parte della Marina Militare rispetto alla scelta iberica di appiattirsi, per il seguito, adottando direttamente navi, progetti e, soprattutto, idee, presso l'Ammiragliato inglese dapprima, nei think tank della U.S. Navy poi.

(6) Franco Bandini, Tecnica della sconfitta, ed. Longanesi, Bologna, 1969, pg. 15.

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Enrico Cernuschi, bolognese, classe 1960, laureato in Giurisprudenza, è funzionario di una delle maggiori banche italiane. Studioso di storia navale pubblica regolarmente sulla Rivista Marittima dello Stato Maggiore della Marina Militare e sul mensile Storia Militare, oltre che su diverse altre testate specializzate, italiane e anglosassoni, del settore economico, storico e navale.

Enrico Cernuschi
Via Valsugana 38
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