Gente, 6 luglio 1966 (pp. 46-49)
Dopo ventotto anni di mistero
LA VERITA'
SUL PRIMO "GIALLO" ATOMICO
Solo ora, nel corso di questa commovente confessione, i fratelli
di Ettore Majorana, il grande scienziato siciliano scomparso nel '38, hanno
ammesso di credere alla tesi del suicidio
Roma. Salvatore e Maria Majorana, due dei quattro fratelli di Ettore
Majorana, nella loro casa in viale Regina Margherita. Per la prima volta
nell'intervista qui pubblicata, Salvatore e Maria si dichiarano certi che
il loro celebre fratello, scomparso ventotto anni fa in circostanze misteriose,
si tolse la vita. «Ormai è inutile fingere», dicono:
«Ettore si è ucciso». Salvatore Majorana è dottore
in legge e appassionato studioso di filosofia; Maria insegna pianoforte
e svolge un'intensa attività di concertista.
Corrispondenza di Alberto Libonati
Roma, luglio
Per ventott'anni in un appartamento di viale Regina Margherita un'anziana
signora ha atteso di giorno in giorno il ritorno del proprio figlio. Questa
donna si chiamava Dora Majorana Corso ed era la madre di Ettore Majorana,
il genio della fisica, l'uomo che avrebbe potuto essere l'Einstein italiano
e che, invece, a soli trentadue anni, scomparve in circostanze che furono
definite misteriose mentre, a bordo di una nave della Tirrenia, faceva ritorno
da Palermo a Napoli. Dora Majorana Corso non volle mai sentir parlare di
omicidio o di suicidio. Preferì credere alla . tesi del rapimento
o ad una crisi mistica che avesse indotto il figlio a rifugiarsi in un convento;
rifiutò ostinatamente di prendere il lutto e neppure una volta quella
cieca fiducia in un miracolo cessò di sorreggerla. «Vedrete»,
ripeteva «che un giorno o l'altra tornerà». Ma un giorno
dell'inverno scorso la morte ha bussato alla sua porta e Dora Majorana Corso,
quasi novantenne. se n'è andata per sempre con la sua grande illusione.
Ora in quella casa di viale Regina Margherita, dove ogni cosa
è rimasta come Ettore l'aveva lasciata, due dei quattro fratelli dello
scienziato, Salvatore, dottore in legge e studioso di filosofia, e Maria,
insegnante di pianoforte e concertista, non debbono più fingere o
mentire per alimentare l'illusoria speranza della loro vecchia mamma. Non
ripetono più con forzata convinzzione che la tesi del suicidio è
assurda in quanto Ettore non aveva nè dispiaceri, nè contrarietà;
non ripetono più che Ettore era un cattolico e aveva una mente ragionatrice.
Proprio nei giorni in cui ad Erice, in provincia di Trapani, si celebra con
solennità il sessantesimo anniversario della nascita del loro congiunto,
forse nell'intento di metter fine una volta per sempre alla ridda d'ipotesi
sulla scomparsa di Ettore, per la prima volta accettano come unica possibile
la spiegazione che fino a ieri avevano energicamente respinto.
La migliore soluzione
«Ormai è inutile fingere», dice Maria Majorana
abbassando lo sguardo. «Tanto io che i miei fratelli siamo convinti
che Ettore volle trovare nella morte quella liberazione che aveva a lungo
inseguito. Ci fu, è vero, chi parlò di rapimento, ma non si
considerò che nel 1938 nessuna nazione avrebbe potuto valutare l'importanza
delle ricerche di Ettore al punto di ordinarne il rapimento. Ci fu chi parlò
di fuga in Russia, come poi sarebbe accaduto con Bruno Pontecorvo, ma non
si tenne conto che il comunismo non era arrivato a lui con voci e istanze
tali da suggerirgli una fuga. Ci fu, infine, chi parlò di una crisi
mistica, ma le ricerche estese a tutti i conventi attraverso il Vaticano
non diedero alcun esito. No, non c'è dubbio. Ettore in quella mattina
di marzo di ventott'anni fa ha cercato volontariamente la morte».
Mentre Maria Majorana parla, il fratello Salvatore annuisce col
capo. «Ormai non è più il caso di parlare di mistero»
dice sottovoce. «Lo definirono il primo romanzo giallo dell'èra
atomica ma, a dire il vero, la notizia allora non fece molta sensazione.
Quello che in altri tempi sarebbe divenuto certamente il più sensazionale
giallo dei secolo, fu soltanto un episodio di cronaca che durò una
stagione e che prima del tempo fu archiviato sotto la denominazione di "caso
insolubile". Del resto», prosegue Salvatore Majorana «ogni indagine
non aveva fornito il benchè minimo indizio, ogni dichiarazione o confidenza
dei suoi colleghi non era servita a dipanare l'intricata matassa e, a lungo
andare, di nostro fratello si preferl cominciare a parlare in toni quasi
leggendari, come dello scienziato esistenzialista che, schiacciato tra due
alternative, contribuire alla distruzione o subirla, preferì scegliere
la morte come la migliore delle soluzioni».
"Il più grande di tutti"
Se i biografi hanno definito Ettore Majorana come il "Kafka
della fisica atomica", se Laura Fermi lo descrisse come "un prodigio in matematica,
un portento per la profondità e la forza del pensiero", se Antonio
Carrelli dell'Università di Napoli lo definì "il più
grande di tutti", Maria e Salvatore Majorana preferiscono dare al ricordo
del loro fratello quella dimensione umana che i giudizi degli uomini di scienza
ovviamente sono portati a trascurare. «Era nato a Catania nella nostra
casa di via Etnea il cinque agosto del 1906», ricorda Maria Majorana.
«Da suo padre. ma soprattutto da suo zio, Quirino Majorana, un fisico
illustre quanto anticonformista, aveva ereditato la passione per la scienza.
Cominciò a famliarizzare con i numeri quasi prima ancora di parlare.
Nostro padre gli affidava un pacchetto di banconote o una manciata di monete
e lui si divertiva ad addizionarle».
«A cinque anni», interviene a questo punto Salvatore
Majorana «era capace di estrarre la radice quadrata· e cubica
da numeri a più cifre. Per giuoco si rannicchiava sotto un tavolo
e, senza ricorrere a penna e a carta, risolveva a·memoria anche i
più difficili logaritmi che gli venivano proposti. Ricordo che avrà
avuto sì e no sei anni quando sulla banchina del porto riuscì
a calcolare al centesimo quanto carbone doveva bruciare una certa nave per
compiere una certa rotta. "Questo bambino", disse il capitano, "diventerà
ufficiale di marina". Ma a nove anni il destino di Ettore sembrava essersi
di già delineato. Amava disperatamente le materie scientifiche. Parlava
poco, sfuggiva Il prossimo, ma di colpo, di fronte ad un calcolo algebrico
o ad un argomento di fisica, ritrovava la sua loquacità».
Roma, 1926. Ettore Majorana a vent'anni. Nel 1938, anno in cui lo scienziato
scomparve, questa fotografia venne riprodotta dalla polizia in migliaia
di copie e distribuita in tutta Italia nel tentativo di facilitare le ricerche.
Nonostante la giovane età (aveva trentadue anni al momento della
scomparsa) Ettore Majorana era considerato uno dei più brillanti
matematici del mondo: la sua collaborazione era stata richiesta da diverse
Università straniere. ln questi giorni si sta celebrando il sessantesimo
anniversario della sua nascita.
Trasferitosi a Roma con la mamma e i fratelli, Ettore Majorana,
dopo aver frequentato il liceo Tasso, s'iscrisse alla Facoltà d'ingegneria.
Due anni dopo decise però di dedicarsi agli studi di fisica. Era il
tempo in cui Orso Mario Corbino aveva radunato attorno a sè, in un
vecchio palazzo di via Panisperna, un ristretto numero di "cervelli", e a
Segrè, Amaldi, Persico, Rasetti, Pontecorvo, Raccah [sic],
Gentile e Fermi si aggiunse il giovanissimo Majorana. Mentre Fermi riusciva
a spaccare l'atomo di uranio mediante un bombardamento di neutroni, Ettore
Majorana nel suo studio lavorava affannosamente in solitudine. «Non
era uno sperimentatore di laboratorio», ricorda il fratello Salvatore.
«Alla vita di équipe e agli esperimenti preferiva il
ragionamento puro e con la matematica arrivava dove gli altri arrivavano
o non arrivavano per via strumentale».
«Le Università di Mosca, di Cambridge e di Yale»,
racconta la signorina Maria «cominciarono a contenderselo. Dall'America
e dal Giappone numerosi scienziati gli scrivevano chiedendogli di poter leggere
i suoi lavori; l'ambasciata sovietica a Roma gli chiese per conto del proprio
governo di trasferirsi in Russia per dirigervi l'Istituto Superiore di Fisica,
e analogo invito gli rivolse la Fondazione Carnegie. Gli si offrivano mezzi
scientifici, stipendi favolosi, gli si rendeva più agevole la via
verso la gloria, ma lui non rispondeva neppure a quel diluvio di offerte.
"Io non ho un posto in questo mondo", era solito ripetere. "Come professore
valgo poco, come scienziato non credo in ciò che faccio, come uomo
sono uno zero". A volte se ne stava pensieroso per ore e ore, poi estraeva
di tasca il pacchetto delle Macedonia, vi annotava una formula, fumava l'ultima
sigaretta e gettava via il pacchetto».
Il grande inquisitore
Se per i ragazzi di Corbino, Enrico Fermi, grazie alla sua
infallibilità, era il "Papa", Majorana col passare degli anni divenne
"il Grande Inquisitore". «Un giorno», ricorda Salvatore Majorana
«il matematico [sic, D'Agostino era un
chimico.] Oscar D'Agostino si trovò a passare nei corridoi
dell'Istituto di Fisica. L'edificio era deserto, ma da un'aula uscivano grida
terribili. Spalancò l'uscio: Fermi e mio fratello, davanti a due lavagne,
zeppe di numeri, inveivano l'un contro l'altro per la soluzione di una difficile
equazione. Fermi andò a prendere le tavole logaritmiche e un regolo
calcolatore, mentre Ettore, come in trance, fissava il vuoto tamburellando
con le dita sul tavolo. "Sveglia, Ettore", gli disse Fermi. "Chiudiamo questo
problema". E mio fratello per tutta risposta gli dette il risultato. L'aveva
risolto a mente, senza ricorrere neppure alla matita».
«Col passare del tempo», interviene a questo punto
la signorina Maria «Ettore cominciò a staccarsi dal gruppo Fermi.
Era ritornato dalla Germania piuttosto sofferente per una gastrite, ma i
medici gli avevano diagnosticato anche un principio di esaurimento nervoso.
Se ne restava confinato in questa stanza a inseguire un suo pensiero: una
cravatta faceva da segnalibro in un volume di Max Pranck [sic] e tutt'intorno
non c'erano che pile di libri e di quaderni. Respingeva la posta e sulle
buste scriveva: "Destinatario defunto". Si è detto, per questo, che
Ettore era stravagante. E' falso», afferma con energia Maria Majorana.
«E' falso perchè la sua stranezza era soltanto l'eccentricità
che nasce da un eccesso di genio in un uomo che non riesce ad adeguarsi al
mondo iri cui è costretto a .vivere. Ma sotto il suo aspetto di misantropo,
Ettore era capace di splendidi sentimenti di amicizia e di affetto».
Nell'aprile del 1937, Ettore·Majorana si decise a pubblicare
un fascicolo sulla Teoria simmetrica dell'elettrone e·del positrone
. Il governo gli assegnò fuori concorso per meriti eccezionali una
cattedra presso l'Istituto di Fisica di Napoli, ma l'idea di trovarsi in
un'aula affollata lo spaventò. «Che può sapere la gente
delle mie cose», andava ripetendo·«e a chi posso parlare
se il mio linguaggio è tale che nessuno lo comprende?». Ricominciò
a isolarsi e al professor Carrelli non faceva che ripetere: «La fisica
è su una strada sbagliata. Siamo tutti su una strada sbagliata».
«Nel marzo del 1938», racconta Salvatore Majorana «si lasciò
convincere da alcuni amici a prendere un periodo di riposo. Il 25 marzo s'imbarcò
per Palermo su un piroscafo della Tirrenia, ma a Palermo si fermò
pochissimo: giusto il tempo per sbrigare qualche faccenda e per scrivere
una lunga lettera all'amico Carrelli».
"E' inutile fingere"
"Caro Antonio", scriveva Ettore Majorana "ho deciso di togliermi
la vita. L'ho deciso perchè non sento un'autentica necessità
di stare al mondo e credo che il mondo farà benissimo a meno di me.
Sono molto stanco. Tu che mi conosci puoi comprendere che la mia delusione
non è quella di una ragazza ibseniana. Il problema è molto
più arduo e·profondo. Voglio ringraziarti per la cura che ti
sei preso di me e per l'affetto sincero che mi hai dimostrato. Ti chiedo
scusa per l'inevitabile disturbo che il mio gesto ti arrecherà. Addio".
«Poche ore più tardi», prosegue Salvatore Majorana «Ettore
invia al professor Carrelli questo telegramma: "Annullo la notizia che ti
ho dato. Scriverò ancora". La sera stessa si rimbarca per Napoli e
alle prime luci dell'alba, mentre la nave si avvicina al molo, un marinaio
scorge la sua figura sottile e immobile in cima al ponte. Poi la scomparsa,
l'inutile ricerca.del suo corpo, la ridda delle ipotesi, le tesi più
romanzesche, e, infine, il silenzio».
La confessione di Maria e Salvatore Majorana è finita.
Per la prima volta dopo ventotto anni essi hanno pronunciato quella verità
che un trepido amor filiale non aveva loro permesso di accettare. In silenzio,
scrutano le cose che li circondano, sostano quasi con devozione presso l'angolo
dove il loro geniale fratello trascorreva notti insonni, e con amarezza continuano
a ripetere: «Ormai è inutile fingere». Ora che mamma Dora
se n'è andata per sempre portandosi nella tomba la sua assurda speranza,
a Salvatore e Maria·Majorana non resta infatti che accettare la più
dura delle verità.
Alberto Libonati
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