E’ LEON BATTISTA ALBERTI IL MISTERIOSO AUTORE
DELLA HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI?
(Emanuela Kretzulesco Quaranta)
Chi fu l’enigmatico autore del romanzo di "Polifilo", il "Poliaephilos", (ovvero l’amante di Polia)? Chi scrisse il libro volle presentarsi così, con quello pseudonimo. L’anonimato doveva essere rigorosamente rispettato. Tant’è vero che l’ultimo dei presentatori dell’edizione aldina, Andreas Maro Brixiensis, in un dialogo "con la Musa" si sente rispondere da questa che né lei, (né le sorelle), vogliono che il "vero nome di Polifilo sia conosciuto": "nolumus agnosci".
Da quasi cinque secoli i bibliofili e vari scrittori di storia e di filosofia s’interrogano circa l’identità dell’Anonimo "amante di Polia".
Nell’ultimo anno del secolo, il Quattrocento appunto, un secolo che potrebbe venir ricordato come quello dell’Umanesimo in pieno fulgore, fu stampato da Aldo Manuzio, grazie al finanziamento offerto da Leonardo Grasso, "il più bel libro a stampa del Rinascimento": l’Hypnerotomachia Poliphili, oggetto del presente studio. Veneziano il libro, ma fiorentino il protagonista messo in scena dall’Anonimo autore. Da Venezia si perviene all’ambito dell’Accademia Fiorentina; e da li a quella Romana per via degli scambi e degli interessi incrociati.
Il significato allegorico del romanzo - presentato come ricordo di un sogno fatto all’alba del 1° maggio 1467 dal misterioso "Polifilo" - fu chiaro, esplicito, per chi s’interessava di dottrine care ad insigni filosofi, quali il cardinale Niccolò Cusano, il Bessarione, gli Accademici romani e fiorentini. Lo scopo delle ricerche era quello di evidenziare la convergenza fra tradizioni religiose non appartenenti all’area giudeo-cristiana con quelle bibliche relative all’origine della creazione. Interessava la conferma obiettiva dell’esistenza di una Rivelazione, o "prisca enarratio theologica" della quale l’intera specie umana aveva conservato il ricordo. Si constatava che, nel corso dei millenni, le tracce di quella "prisca theologia" si potevano riscontrare in tradizioni ormai ridotte a "superstizioni" nascoste sotto apparenze mitologiche. Ma cosa sono le "superstizioni" se non "quod super est", ciò che rimane d’un sapere diluito, ma ancora presente nell’intero globo terracqueo? In Oriente si scoprirono varie fonti, quali per esempio gli scritti detti di Ermete Trismegisto, nel 1419, in un’isola greca. L’origine del creato era ivi narrata in modo somigliante al racconto della Genesi.
Ma se veramente vi è convergenza fra le varie e
più antiche tradizioni religiose, non è questa la prova d’una
avvenuta Rivelazione, di origine non umana, al principio dell’avventura
umana sul nostro Pianeta? Non era questa la prova più valida della
validità, appunto, del giudeo-cristianesimo? Purtroppo il senso
misterico, teologico, della "Hypnerotomachia" non fu percepito se non nel
1962.
Sino ad allora i bibliografi attribuivano la paternità
sia ad un frate "Francesco Colonna", veneziano, secondo la tesi del professore
Giovanni Pozzi; sia al "principe Francesco Colonna", signore di Palestrina,
secondo il professore Maurizio Calvesi. L’una e l’altra tesi si basavano
su di una frase risultante da un acrostico ricavato dall’unione delle maiuscole
iniziali dei 38 capitoli nei quali è suddiviso il testo:
"Poliam frater Franciscus Columna peramavit".
Fin dal Cinquecento, nella seconda edizione in versione francese, si era dato Francesco Colonna come autore del Polifilo. E tale attribuizione rimase indiscussa fino ai giorni nostri. Ci volle il professore Lamberto Donati, conservatore dei libri a figure della Biblioteca Apostolica Vaticana, per dare una scrollata all’edificio. Nel 1962 pubblicò uno studio nella rivista "La Bibliofilia": Donati avanzò un’obiezione logica. Scrisse che se l’Autore voleva assolutamente rimanere nascosto sotto lo pseudonimo, perché mai avrebbe citato il proprio nome nell’acrostico? Anzi, a Donati l’acrostico sembrava posto come un sotterfugio per sviare l’opinione. Così mi disse a voce proprio in Biblioteca. Il testo poteva non essere stato originariamente suddiviso in capitoli; la cosa sembrava piuttosto essere stata elaborata durante l’allestimento editoriale, tanto più che quei capitoli erano preceduti, nell’edizione princeps aldina - quella di cui stiamo occupandoci - da un breve riassunto scritto in terza persona - "Polifilo ha detto, ha fatto"... mentre tutta la narrazione è scritta in prima persona.
A questo punto il mio consorte, Nicola Kretzulesco, mi suggerì di concentrare l’indagine non sulle prevalenti opinioni degli esperti, ma piuttosto sul senso dell’Opera e di cercare quindi di scoprire chi fosse Polia e perché l’Autore se ne definisse l’Amante.
Polia, infatti, è il nome più antico di Atena, la Divina Sapienza: Atena Polias. L’Autore è innamorato della Sapienza divina; è un filosofo, Poliae-Philos; ed anche un teologo, giacché si tratta di "Divina Sapienza". Il romanzo è la narrazione d’un itinerario spirituale fra le rovine del passato. Il libro poi sembra essere una specie di criptografico manifesto. Si è voluto indicare un principe come "amante della Divina Sapienza", come lo erano i più insigni umanisti del Quattrocento; e così coprire la vera identità dell’Autore.
Il libro offrì, negli anni seguenti, tre "chiavi" per la comprensione del testo:
1) - Stampato nel dicembre del 1499, il libro era "orfano" ("parente orbatus"), secondo l’autore della prefazione, Leonardo Grasso, finanziatore dell’edizione, un umanista. Con il suo prestigio, Grasso ottenne il privilegio di stampa dal Senato Veneto. A detta di questo autorevole personaggio, l’"autore era morto" quando venne alla luce il "Combattimento in sogno per amore della Sapienza Divina". Ed era morto da tanti anni poiché il testo era rimasto per molto tempo "nelle tenebre", rischiando di perdersi; sempre secondo Grasso.
Questo dato certo permetteva di escludere entrambi i Francesco Colonna come possibili autori; infatti sia il monaco veneziano residente nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, sia il principe di Palestrina erano vivi, vivissimi, nel 1499!
Questo fatto, risultando dallo stesso responsabile dell’edizione, era inconfutabile. Un Francesco Colonna aveva appassionatamente amato il "divino sapere"; ma la sua parte nella storia del libro non era quella di Autore. Conoscendo la personalità del principe Francesco Colonna, signore di Palestrina e patrizio veneto, si può ipotizzare la sua parte nella storia del libro: sarebbe stato lui a portarlo da Roma a Venezia. Perché da Roma? Perché i ruderi antichi descritti nel sogno appartengono all’area del Lazio, secondo i rilievi pubblicati sia da Donati, sia da Calvesi, rispettivamente nel 1968 e nel 1965. E Roma, dopo il processo agli umanisti appartenenti all’Accademia Romana (1466-68) - un processo inscenato dalla Curia e portato avanti con interrogatori e torture - non era più un posto sicuro per un testo redatto come manifesto di ricerca della "prisca theologia", fuori dall’ambito giudeo-cristiano. Una ricerca non gradita, specie dal Vice-Cancelliere di Santa Romana Chiesa, Rodrigo Borgia, allora cardinale, poi Papa Alessandro VI. A costui importava - occultamente - avocare alla Curia i tre poteri(1); spirituale, temporale e culturale. Ma avocare alla Curia significava avocare a sé, amico del Papa Paolo Il, proprio quei tre poteri. La ricerca filosofica fuori dall’area della Curia non era, per lui, Borgia, opportuna...
2) - La seconda chiave offerta dal libro risultava da una data, quella del colophon: 1° maggio 1467. L’Autore "Polifilo" assicurava che il sogno si era svolto all’alba di quel giorno. Sicché quanto descritto nel libro era il risultato di un itinerario spirituale ed archeologico compiuto nel Lazio prima del 1467. Ma quella data s’inseriva - come una chiave - fra quelle del processo agli umanisti dell’Accademia Romana, accusati di attentato all’autorità pontificia e ritorno al paganesimo: 1466-68. Notiamo poi che nel 1467 il principe Francesco aveva circa quattordici anni; era... troppo giovane per essere "Polifilo".
3) - La terza chiave era offerta appunto dalle varie descrizioni
ed illustrazioni del libro; chi le aveva offerte al Lettore intendeva -
prima del 1467 - indicare un dato di estrema importanza teologica: un credo
universale, espresso fuori dall’area cristiana, in tre dogmi:
I - Resurrezione futura dei corpi;
II - Unità e Trinità di Dio;
III - Origine divina della vita, dovuta all’Amore Divino.
Notiamo che i passi nei quali l’azione di quell’Amore
datore di Vita è esplicitamente enunciata, sono sottolineati nell’esemplare
appartenuto al Papa Alessandro VII Chigi, (1655-1667), il quale era un
appassionato umanista. Ci voleva un gruppo di teologi dottissimi per scoprire
quei tre dogmi nelle varie etnie. in conclusione l’Autore attivo prima
del 1467 era stato un archeologo, conoscitore dell’architettura antica
come lo dimostrano molti passi del libro, ed un filosofo profondo, teologo
dedito al riscontro delle credenze teologiche universali, avvicinandosi
così, spiritualmente sia ai cardinali Cusano e Bessarione, sia ai
Papi umanisti Niccolò V e Pio II; nonché a pensatori quali
Lorenzo Valla, scopritore della falsità della cosiddetta "Donazione
di Costantino", base fino allora del Potere temporale, e fautore di un’etica
basata sul "libero arbitrio". Di quest’ultima posizione vi è una
testimonianza di "Polifilo": quella delle scene che si svolgono nel palazzo
della regina "Eleuterillide" o "Libero Arbitrio".
Passiamo ora ad un altro problema: quello della strana lingua "polifilesca": un misto di volgare, di latino, di greco, infarcito di termini vernacolari ed anche ebraici. L’idioma, consigliato da "Polia, altissima imperatrice" - dice l’Autore - risulta da una riscrittura del libro, redatto evidentemente in latino, nella prima stesura. Questa seconda, (la prima non è mai stata trovata) è il tentativo di arricchire il volgare con termini presi nelle lingue classiche, onde favorire lo schiudersi della "Rinascenza" in tutte le discipline volte ad una nuova civiltà degna di emulare quelle del passato. L’Alberti riscrisse in volgare opere da lui scritte in latino. Come Polifilo...
Notiamo anche un altro fatto: il Pellegrino, esploratore di ruderi antichi, per capirne il senso, incontra Polia, pronta a spiegarglieli, sotto una pergola di gelsomino. Così sappiamo che un certo sapere misterico proveniva dalla Persia e dalla setta dei "Fedeli d’Amore", il cui emblema era appunto il gelsomino; ed il cui credo era basato sulla conoscenza dell’Amore Divino organizzatore e legame delle forze che, nell’universo, comandano l’evolversi degli astri, secondo leggi matematiche; quindi intelligenti e quindi non soggette al Caso. Il tralcio profumato era simbolo del legame fra amore umano e divino (Rûzbehan, Le jasmin des Fidèles d’Amour, trad. di H. Corbin, ed. Verdier, 1991).
Queste cose erano familiari ai "Fedeli d’Amore" toscani.
Tant’è vero che Dante chiude la sua "Commedia" con il celebre verso:
"Amor che muove il sole e l’altre stelle".
A questo punto chiediamo ancora al libro un Segno che possa istradarci verso la conoscenza dell’Autore come persona. La sua identità non doveva essere conosciuta, in modo assoluto, secondo il presentatore Andreas Marone da Brescia al quale la Musa dice: "Nolumus agnosci". Noi però sappiamo - da quel che si è capito del suo itinerario spirituale - che fu uomo dottissimo nelle più svariate discipline: archeologia, architettura, filosofia, scienza della Natura, teologia... E sappiamo che fu attivo, come scrittore del sogno, prima del 1467. Le lingue classiche gli erano familiari; il titolo dell’Opera è contrazione di parole greche: "hypno" = in sogno; "eroto" = per amore; "machia" = combattimento; dell’amante di Polia = "Poliae philos", in sogno.
La proibizione di divulgare il nome d’uno scrittore morto da tempo fa pensare che la sua dottrina potesse coinvolgere gli amici superstiti. Ma sappiamo che alla base di quelle dottrine vi era la ricerca della "prisca theologia"; una ricerca che portava l’indagine fuori dall’ambito strettamente giudeo-cristiano.
Immediatamente si pensa alle "fratrie" accademiche. Prima del 1467, queste erano state attivissime; in seguito ne fece parte anche il principe Francesco Colonna, "archeologo, restauratore del tempio della Fortuna Primigenia, scrittore in versi e prosa latina". A Roma, quella che ho chiamato in un mio libro(2) "l’Eglise des Lumières", erano attivi i dottissimi papi Niccolò V e Pio II, i cardinali Prospero Colonna, Niccolò Cusano, Giovanni Bessarione con i laici dell’Accademia Romana e con Lorenzo Valla che aveva denunziato l’illegittimità del potere temporale basato su di una falsa "Donazione di Costantino". I suddetti prelati erano contrari al potere temporale della Chiesa.
Morirono di "podagra" Pio II, Niccolò Cusano e Prospero Colonna. Nel 1464 fu eletto Paolo II amico di Rodrigo Borgia, creato Vice-Cancelliere di Santa Romana Chiesa dallo zio Callisto III Borgia che regnò fra Niccolò V e Pio II. A chi giovò l’ecatombe dei fautori d’una Chiesa svincolata dal potere temporale? Come mai morirono in tempo utile al Borgia? Da dove proviene la leggenda del "veleno Borgia"? Si sa che esiste un veleno che sgretola le ossa e che può sembrare podagra. Appena insediato Paolo II, vi fu il processo all’Accademia Romana con l’accusa di ritorno al paganesimo ed attentato all’autorità pontificia. Gli Accademici furono interrogati e torturati. E che dire poi della sparizione dell’Accademia Fiorentina, in tempo utile per l’elezione dello stesso Borgia, con il nome di Alessandro VI (agosto 1492)?
Di podagra era morto a 43 anni Lorenzo il Magnifico nell’aprile di quell’anno. A Roma era morta sua moglie Clarice Orsini, suo sostegno nel mondo romano; ed era morta la bambina loro di otto anni. Morirono il Poliziano con il suo domestico e Pico della Mirandola nel 1494: Borgia era papa da due anni. Nel 1493 era morto Ermolao Barbaro, patriarca d’Aquileia, studioso di Aristotele; fu per una "brutta febbre" a 39 anni. Da poco era morto Bertoldo di Giovanni, custode delle "antichità" del giardino dei Medici; conosceva il senso dell’iconologia di Orapollo; sapeva decriptare rebus ed allegorie. Sparì l’Accademia Fiorentina. Doveva rinascere il movimento accademico, con la "Neo-Academia Philellenica" in casa di Aldo Manuzio; fra gli assidui c’era in prima fila Erasmo da Rotterdam. Venezia fu il rifugio del movimento accademico.
Fra tutti gli uomini che sfuggirono alle persecuzioni durante il processo agli Accademici Romani (1466-68), ve ne fu uno notevole: Leon Battista Alberti. Nel 1466, esautorato dalla carica di abbreviatore apostolico, fuggì a Firenze e fu accolto dai Medici.
Ed ecco che un piccolo segno di riconoscimento appare nella Hypnerotomachia Poliphili: la sigla "b".
Come non vedere una coincidenza fra il contesto storico di cui sopra e l’iniziale "B" di Battista? Il "Leone" era da lui stato aggiunto quasi come proclamazione relativa alla propria "forza", al "coraggio" necessario all’"Amante della Sapienza" perseguitata. Per gli amici, però, e nei Dialoghi egli fu sempre "Battista". Quell’amore per il sapere lo avvicina, fra gli altri umanisti, al Cusano, il cui testamento spirituale si trova nell’ultimo suo scritto: "De Venatione Sapientiae" (della Caccia alla Sapienza). Anche il Cusano proclamò la sua azione di "Combattente per amore della Sapienza". Come "Polifilo".
Le stupefacenti convergenze fra la mentalità, l’etica, la malinconia, il sapere, gli interessi culturali dell’Alberti, quelli degli Umanisti caposcuola della prima "Rinascenza", quale il "Cacciatore di Sapienza" da una parte; e quanto appare nella personalità del sognatore "Polifilo" dall’altra, rendono necessaria la consultazione del bel libro del professore Giovanni Ponte: "Leon Battista Alberti Umanista e Scrittore". Nonché la possibilità di consultare la Hypnerotomachia, se non altro in edizione anastatica.
La sigla "b" appare in due silografie: nella prima, in principio dell’itinerario onirico-allegorico, si assiste alla rinascita del Pellegrino stremato dalla battaglia contro le "forze ostili". Egli rinasce quando riesce ad inumidire le labbra con qualche goccia di rugiada: la rugiada di Atena, simbolo dell’incontaminata dottrina celeste.
La seconda sigla "b" si trova in fondo ad un rebus, già
decifrato nel testo, dal quale appare un vero manifesto dell’Umanesimo:
"Ex labore deo naturae sacrifica liberaliter, paulatim
reduces animum deo subiectum, firmam custodiam vitae tuae misericorditer
gubernando tenebìt, incolumenque servabit". (Sacrifica liberalmente
del tuo lavoro al Dio di Natura, poco a poco ridurrai il tuo spirito sottomettendolo
a Dio. Il quale misericordiosamente custodirà la tua vita fermamente
e, governandola, la conserverà sana e salva).
Si tratta di un vero manifesto, una liberazione dalla
dottrina scolastica incline, con un aristotelismo deviato, a vedere il
male nella Natura. Il risveglio rinascimentale ha per sorgente l’illuminato
credo relativo alla necessità di conoscere la Natura, opera
divina del Creatore. A pagina 82 del libro del professore Ponte leggiamo
una frase dell’Alberti:
"Certa consiste ferma e costante sempre in ogni suo ordine
e progresso la natura, nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta
e scritta legge" (dal Dialogo "Theogenius").
Il genio dell’Alberti intento a proclamare - come "Polifilo" - che la Natura offre la via migliore per pervenire alla conoscenza di Dio ed ottenere il "bene e beato vivere", si trova in una pagina del II "Libro della Famiglia"; una pagina citata da Giovanni Ponte(3): "Ma sopra tutte lodo quella verissima e probatissima sentenza di coloro i quali dicono l’uomo essere creato per piacere a Dio, per riconoscere un primo e vero principio delle cose, ove si vegga tanta verità, tanta dissimilitudine, bellezza e multitudine d’animali, di loro forme, stature, vestimenti e colori; per insieme lodare Iddio insieme con tutta l’universa natura, vedendo tante e sì differenziate e sì consonante armonie di voci, versi e canti di ciascuno animante concinni e soavi; per ancora ringraziare Iddio ricevendo e sentendo tanta utilità nelle cose produtte a’ bisogni umani contro le infermità... per ancora temere e onorare Iddio udendo, vedendo, conoscendo il sole, le stelle, il corso dei cieli, e tuoni e saette, le quali tutte cose non può non confessar l’uomo esser ordinate,fatte e dateci da esso Iddio".
Giovanni Ponte conclude: "In questa celebrazione umanistica l’uomo è invitato ad unirsi alla natura tutta per lodare Dio". Ricordando Dante, Ponte aggiunge una citazione dall’undecimo Canto dell’Inferno: "natura suo corso prende - da divino intelletto e da sua arte" (Inf. 99-100).
Infine il "De Re Aedificatoria" dell’Alberti(4) trova nel Polifilo uno sviluppo per quanto riguarda la struttura perfetta dell’arco romano.
A questo punto, nonostante la difficoltà della materia mi pare di poter tirare certe somme: la perfetta sintonia fra il manifesto firmato "b" nel Polifilo e le opere dell’Alberti brevemente citate, appare come una vera firma.
Il sognatore si sveglia all’alba del 1° maggio 1467 al canto dell’usignolo. Ricordiamo che il mito dell’usignolo è quello che ricorda colei che ebbe la lingua mozzata perché non le fosse possibile rivelare il peccato d’incesto di Tereo. Anche gli Umanisti, sia laici che ecclesiastici, ebbero simbolicamente la lingua mozzata! E non è detto che anche oggi non sia sgradita ai manipolatori d’idee la ricerca d’una prova storica dell’avvenuta rivelazione divina atta a far comprendere ad Adamo il senso del proprio destino fisico e metafisico. In quanto alla questione del potere temporale - ormai bancario - chi può dire che non scotti più? Chi ricorda ancora che la Chiesa di Cristo è quella che "dà a Cesare quel che è di Cesare"? E che Borgia ebbe le casse piene d’oro? Il "misellus Poliphilus" è triste nella realtà del risveglio: "Polia Sapienza Divina" è stata scacciata dalle persecuzioni...
A questo punto viene da fare un’altra riflessione: perché mai Aldo Manuzio avrebbe pubblicato il "De Rerum Natura" di Lucrezio, lui così cristianamente filosofo, tanto da inserire nelle pagine liminari delle Grammatiche destinate agli studenti sia il principio del Vangelo di San Giovanni, sia il "Pater Noster"?
Ancora una volta il contesto storico ci può aiutare a comprendere perché Lucrezio si trovi fra i titoli delle pubblicazioni aldine. Infatti l’"inno allo splendore della Natura" con il quale Lucrezio inizia l’invocazione a Venere, simbolo dell’apparire della Vita sul pianeta Terra, rientra nella impostazione filosofica voluta dagli Umanisti nella prima metà del ’400; un’impostazione sviluppata nell’Accademia Romana, in quella Fiorentina, nelle Novecento Tesi di Pico della Mirandola, e della quale abbiamo trovato una "chiave" sia nel rebus di Polifilo, con la sigla "b", sia nella bella pagina dell’Alberti citata da Ponte.
Ma come la mettiamo con l’irreligiosità di Lucrezio che depreca la "violenza" dei religiosi citando, con orrore, il sacrificio di lfigenia per rendere propizia un’azione violenta, quale la guerra che gli Achei si accingevano a muovere contro Troia?
Aldo in una sua prefazione aveva deprecato la barbarie e la violenza che avevano investito il mondo; questo mentre egli commemorava Pico della Mirandola, "fenice degli ingegni"!
La storia della violenza perpetrata contro i più eccelsi genii dell’epoca - una violenza che proveniva dalle mene segrete mosse dalla Curia - ci aiuta a comprendere il senso della pubblicazione del "De Rerum Natura" da parte di Aldo Manuzio.
Ora ci sembra di udire il lamento degli Accademici torturati, avvelenati! Coloro che avevano fatto parte della "Chiesa illuminata" dai primi versetti di San Giovanni: "In principio era la Luce"*... Versetti che Aldo non mancava di stampare in principio delle sue Grammatiche.
In quanto all’Alberti, mori a Roma nel 1472 a sessant’otto anni, lasciando le sue carte al nipote Bernardo Alberti. Che le carte siano passate per la scuola di Domizio Calderini e Gaspare da Verona non è impossibile; e da lì al dotto principe Francesco Colonna; un grande umanista, il cui padre aveva protetto l’Alberti, come pure il Cardinale Prospero Colonna nella vicina villa di Zagarolo (antica Caesariolum). Fra la morte dell’Alberti, nel 1472, e la pubblicazione della "Hypnerotomachia Poliphili" intercorsero ben 27 anni! Era quindi esatta la dichiarazione di Grasso nella Prefazione: il testo di Polifilo, comprensibile anche grazie alle immagini, era orfano quando vide la luce a Venezia; ed era stato nascosto, rischiando di perdersi, per lunghi anni. Nella seconda tiratura, con le carte preliminari, il libro venne dedicato a Guidobaldo da Montefeltro. Si noti che i Montefeltro erano imparentati con i Colonna.
A Roma non mancavano le "fratrie" accademiche; oltre quella
presieduta da Pomponio Leto, vi era l’Accademia Bessaroniana nella quale
fiorivano gli studi greci. Quindi non c’è da meravigliarsi se a
Venezia venne inserito l’acrostico "sviante":
"Poliam frater Franciscus Columna peramavit".
Il principe di Palestrina amò davvero la Sapienza Divina; era tanto esperto di teologia che seppe difendersi anche dinanzi al tribunale dell’Inquisizione, ed il nome dell’Alberti rimase noto soltanto agli amici silenziosi che avevano frequentato "Battista". Un nome che avrebbe potuto, se noto, sollevare altri polveroni in seno alla Curia...
Sarà così risolto l’enigma della sigla "b"? Nonché quelli relativi alla travagliata storia dell’Umanesimo? Sarà ora più facile capire il messaggio di quegli Uomini contenuto nel "più bel libro del Rinascimento"? Un libro che, fra l’altro, ispirò le composizioni allegoriche di molti splendidi giardini d’una Europa umanista?
Questi divennero - con i loro allegorici messaggi - gli
araldi d’un pensiero "paradisiaco"; quello degli Umanisti in cerca della
"prisca enarratio theologica", dono divino all’Uomo nel "paradiso terrestre".
"Ai posteri l’ardua sentenza!"
Filosoficamente parlando, con la prova data dalle concordanti tradizioni religiose fin dall’origine della specie umana, appare evidente l’origine "non umana" d’una rivelazione contenuta, simultaneamente, nelle più svariate contrade ed i continenti più lontani. Una rivelazione relativa al senso metafisico del destino umano.
Ma tornando al Polifilo, la cui identità doveva rimanere nascosta nel momento storico della persecuzione di chi aveva sostenuto, proprio in seno alla Chiesa, la "prisca enarratio theologica", fermiamoci all’ipotesi della "sigla b" quale iniziale dell’Autore; un Autore il cui nome fosse Battista; e che quel Battista fosse l’Alberti. Sia le date fornite dal testo, sia il pensiero dell’Autore, la sua cultura ci conducono proprio a lui. La maggiore contestazione di questa teoria la troviamo fra alcuni specialisti della lingua di quel Battista. Quegli specialisti giudicano l’idioma del Polifilo troppo lontano dal chiaro modo di esprimersi albertiano. Eppure, proprio nel genio dell’Alberti, nella sua preoccupazione di ottenere, per il volgare, chiarezza e ricchezza atti ad essere strumento di progresso in tutti i campi, anche in quello scientifico, troviamo l’avvio verso gli apporti di latinismi e grecismi che tanto appesantiscono il testo in oggetto, ma tanto ci servono anche oggi!
Ed ecco che, se quanto sopra ci porta verso l’ipotesi d’un Battista Alberti nascosto soto lo pseudonimo di " Polifilo", novello "Philodoxeos" - un Alberti profondo conoscitore sia delle rovine laziali e campane, sia del sapere accademico e teologico dei massimi prelati della Chiesa "illuminata" (ma precocemente eliminata dalla velenosa "podagra" propinata da chi propendeva per una Curia manipolata decisa ad ottenere l’assoluto potere culturale, temporale, spirituale) - allora possiamo anche capire il misterioso prestigio goduto dal celeberrimo incunabolo: "Hypnerotomachia Poliphili", nonché il pericolo nel quale potevano incorrere gli amici di "Battista", anche dopo la sua morte.
Risalendo all’autore presunto il cui nome incomincia con "b", (Battista Alberti), possiamo anche intravedere le ragioni che fecero del "Polifilo" l’ispiratore dello spettacolo misterico offerto in tanto giardini italiani, poi francesi, indi europei a partire da quello di Castello (Firenze).
Fu questo il primo giardino detto "all’italiana"; le allegorie s’apparentano alle idee di chi, come Cosimo de’ Medici, poteva conoscere quel testo e chi, come Stefano figlio di Francesco Colonna, signore di Palestrina, poteva aver suggerito, per la " Grotta degli Animali", il tema prenestino del mosaico "degli Animali del Nilo".
L’intero enigma dei "giardini misterici" europei viene così risolto. Perfino quello di Versailles - con Mazzarino lettore di "Polifilo" e precettore di Luigi XIV - offre uno spettacolo iniziatico a chi saprà seguire il Re vestito, per l’occasione, da imperatore romano in omaggio alla propria ammirazione per Augusto.
Ormai Philomela ha la sua rivincita: possiamo - grazie
a "Battista" - ascoltare il divino concerto degli spiriti risorti con "Polia",
"Divina Sapienza".
Note
(1) Cfr. Politica Romana, n.2/1995, pp.105-107.
(2) Cfr. Les Jardins du Songe. Poliphile et la mystique
de la Renaissance, Parigi 1986.
(3) Cfr. G. Ponte, Leon Battista Alberti Umanista e
Scrittore, Genova 1981, p. 82.
(4) L.B. Alberti, Opere Volgari, vol. III, Bari
1973.
* Nota del curatore del presente reprint: Le parole
indicate in realtà non sono nel Vangelo di Giovanni, che
inizia con: "In principio erat verbum...".
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L’originalissimo articolo che abbiamo appena riproposto ai lettori di Episteme è stato scritto dalla Principessa Emanuela Kretzulesco Quaranta, nota studiosa del Rinascimento, autrice di: Les Jardins du Songe - Poliphile et la mystique de la Renaissance, Paris, 1976, Premio Montyon dell’Académie Francaise, 1977; Les Belles Lettres, Paris, 1986, II ed.ne riveduta. Inoltre, di: Giardini misterici - Simboli, Enigmi dall’Antichità al Novecento, Ed. Silva, Parma, 1994; Le Jardin de l’Absolu - Itinéraires à la recherche du Savoir perdu - Au fil du Songe de Poliphile, in corso di pubblicazione, Ed. Silva, Parma.
L'articolo è stato pubblicato per la prima volta
nell’estremamente interessante rivista: Politica Romana, Quaderni
dell’Associazione di Studi Tradizionali "Senatus", Roma, N. 3, 1996, pp.
178-187, curata dal Dott. Piero Fenili, che qui sentitamente, insieme all’autrice,
ringraziamo.