Due "schemi" da: Euro Roscini, Tridimensione (vedi dopo)
 

PARLARE DI FILOSOFIA


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Dal mio punto di vista, nasce subito un problema parlando di filosofia con altri (non a se stessi): la dialettica. Che è parola/concetto significante sostanzialmente dialogo. Penso che ogni filosofo (di meno il comune ragionatore di filosofia: storico, saggista, divulgatore, insegnante, propagandista...) imposta/mantiene/realizza la dialettica che gli sta più a genio, se ne è capace. Un solo schema dialettico - ritengo - è necessario/sufficiente (direi meglio salutare/consigliabile) e va scelto affinché si sia capiti e 'partecipati' nel dialogo: cioè si risulti effettivamente dialettici.

Uno schema vale l'altro - ne sono certo. La cosa difficile è mantenerlo con coerenza per tutto il ragionamento, evitando la faciloneria della citazione, la seduzione del fregio linguistico, lo scivolamento che illude di spessore argomentativo mentre dà solo un po' di fiato al ragionatore affannato.

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Filosofeggiare su qualsiasi argomento o tema o problematica ha significato secondo me nella misura in cui si definisce da subito (quasi a premessa o come postulato) il proprio schema dialettico di riferimento.

Quando mi succede d'aprire un libro/di sfogliare una rivista filosofica, fin dalla prima pagina/dalle prime frasi mi chiedo: questo autore pensa logicamente/secondo quale logica, eticamente/secondo quale etica, esteticamente/secondo quale estetica, o le tre angolazioni insieme come un tutto organico dell'essere coscienziale? La sua, è dialettica di tipo socratico/platonico (verità frantumata/riunificata/divisa), di tipo aristotelico (verità possibile/affermata/confutata), di tipo stoico (verità elementare/illuminante/splendida)?... E giù fino a Hegel, a Marx, a Nietzsche; al freudismo, all'esistenzialismo, o a non so quali maestri, avanguardie e movimenti del mio tempo e di altro tempo.

Altrimenti - mi chiedo - questo 'ragionatore' si rifà a dialettiche di tipo fideistico (in verità dubbie perché catechistiche, morali/moraleggianti, per definizione seduttive e ingabbianti il libero pensiero) come induismo, buddismo, taoismo, ebraismo, cristianesimo, islamismo... Se no, la dialettica è proprio sua; ma quale allora?

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Io mi definisco - è il mio schema dialettico che esprimo con immediatezza nuda - 'filosofo della tridimensione'. "Tridimensione" è difatti il titolo della formula/libro/teorema che ho scritto, in cui spiego la mia visione/concezione/emozione (appunto ternaria, ossessivamente ternaria) di me/dell'uomo, della vita, del mondo/di dio.

Questa formula/teorema, nella sua sintesi più estrema, consiste nella seguente operazione mentale: andando a misurare/giudicare/interiorizzare una qualsiasi entità che m'interessi, pongo l'oggetto di tale misurazione/giudizio/interiorizzazione al centro di tre assi ortogonali. I quali chiamo, geometricamente, altezza/lunghezza/larghezza: ovvero verticalità/orizzontalità/profondità (la mia dimensione del linguaggio), pensiero/azione/senso (come intendo il concetto di humanitas) e logos/ethos/pathos (la percezione che mi resta del sé e della trascendenza).

L'entità che vado a collocare ogni volta nel punto d'intersezione dei tre assi, ha così, fin dove arriva naturalmente la mia perspicacia, un'altezza/una lunghezza/una larghezza, ecc. ecc.

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Ora, poiché lo scritto di Rocco Vittorio Macrì dal titolo "Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento", che si legge in Episteme/n. 1/giugno 2000/pagg 9-74 (presso Umberto Bartocci/Università di Perugia) non ha/non mi pare che abbia nessun incipit o enunciazione di schema dialettico che serva a me o ad altro lettore come filo, guida e confronto, mi chiedo perciò, fin dalla prima pagina/fin dalle prime righe e magari dal titolo stesso, molte cose...

Fondamento come logos, come ethos o come pathos (i termini più emblematici dei miei tre assi)? Fondamento come archetipo/struttura, come obbiettivo/valore o come rapporto/modello (i sei capisaldi che derivo da alto/basso o altezza, avanti/dietro o lunghezza, destra/sinistra o larghezza)? Fondamento come intuizione, o percezione, o relazione, o ragione, o memoria o immaginazione (le sei funzioni della personalità umana, corrispondenti ancora ai sei punti suddetti)? Oppure tutte insieme, o queste insieme con tutto, o che altro e quant'altro?

Ma mi rendo presto conto che la 'dialettica' del Macrì è quella d'un cattolico/vaticanista. Che cita in apertura una frase oscura e impasticciata di Jacques Maritain e a ruota Giovanni Paolo II; poi a ripetere il primo e il secondo, seguitando a correre in questa direzione fino in fondo. Scorro dunque la titolazione dei paragrafi, scegliendone alcuni, scivolo un po' soffermandomi sulle note e sulla bibliografia (di ben ventiquattro pagine)... Insomma, mi sembra d'essermi già reso conto, in una decina di minuti, che genere di scrittura filosofica abbia fra le mani e sotto gli occhi: ovvero non capire niente di quello che vado leggendo - o tutto - come al solito.

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Poiché dunque mi manca l'identità dialettica dell'altro/del Macrì, eppure intuendo nella sostanza dove questo ragionatore di filosofia vuole andare a parare, mentre procedo nella lettura faticosa e sblazata della forma del suo saggio (il contenuto/elemento ternario di mezzo, a questo punto, mi sembra inutile), mi sorprendo che vado - come dire? - a ruota libera.

Mentre leggo/sfoglio qua e là, penso che, se dovessi parlare io di 'pensiero debole', riguardante il mio tempo storico o altro tempo, un pensatore/filosofo qualsiasi o me stesso magari, non lo farei di certo alla maniera del Macrì.

Prima mossa - metterei l'entità/concetto di 'pensiero del mio tempo' (se proprio di questo avessi da ragionare) al centro del mio sistema triassiale. Sapendo però in partenza di volerlo, questo pensiero, anche 'debole', definirei con tale attributo - seconda mossa - un asse dei miei tre (preferibilmente la larghezza, che è analoga a profondità, a senso e a pathos). Dal che gli altri due assi del 'pensiero del mio tempo' diventerebbero - terza mossa - forte/alto e moderato/lungo. Quarta mossa - stabilirei così, genericamente, che forza/moderazione/debolezza fanno un ternario inscindibile, circolare e perfetto caratterizzante qualsiasi altra entità: persona, oggetto, situazione. Concluderei - quinta mossa - estendendo il ternario forte/moderato/debole dal mio tempo dell'oggi, di cui sono testimone, all'universo intero, di cui sarò forse testimone fuori della tridimensione. Finendo col pensare paradossalmente - sesta mossa - che anche Dio (se c'è come suppongo e sempre che gli sia ascrivibile un pensiero alla maniera di quello umano) beh, che abbia anche Lui un pensiero forte/moderato/debole!
 
 

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Pensando/dicendo/scrivendo di 'pensiero debole', a farlo proprio per necessità, rivendicherei almeno per me tale unitarietà/inscindibilità/simultaneità: con determinazione, con sicurezza, con piacere.

Direi che sono - vorrei essere! - uomo adulto/maturo/consapevole: in una parola organico. Che la mia visione/concezione/emozione delle cose è tridimensionale, per cui mi reputo sì uomo di pensiero strategico/fondante, ma al tempo stesso di azione coerente a tale pensiero e di animo soddisfatto e sano perché contento di compiere quelle azioni coerenti. E qualora mi venisse l'ubbìa (dico per giuoco, ma anche per fede) di definire 'debole' questo mio pensiero fondante/strategico - guai se non lo fosse - affermerei che insieme è forte e moderato - guai se non lo fosse.

Direi questo, dialetticamente, se mi venisse voglia di parlare di 'pensiero debole'.

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Dopo di che, seguitando a svolazzare con un terzo del mio pensiero forte/moderato/debole sopra il saggio del Macrì, con gli altri due terzi vado/anzi piombo sul suo 'relativismo'.

Già è nocivo ed amputante per me contrapporre 'relativismo' ad 'assolutismo': nocivo/pericoloso perché ogni contrapposizione diametrale ingenera avversità e inimicizia, ed amputante/perverso perché ogni monco binario va integrato naturalmente in ternario (se si vuole uscire una buona volta - prometto - dalla barbarie dell'intelletto). Perciò aggiungerei a relativismo/assolutismo un terzo elemento in coerenza con la mia tridimensione: che chiamerei 'personale'/'personalismo', perché coinvolgente la profondità più riposta della personalità del soggetto/di ogni soggetto. Ma attribuendogli sicuramente lo stesso grado di valore degli altri due!... Così che affermerei in definitiva che c'è un modo di essere (come udire/vedere/toccare l'Essere) in primis 'assoluto', secondariamente 'relativo' e in terza istanza 'personale'.

Potrei dire di me, per fare solo un esempio, che sono 'assolutista' quando credo in un forte convincimento, in una legge, in un dogma, orientando le mie scelte consapevoli in quel senso e solo in quel senso; tanto che chiunque constatassi diverso da me, non sintonizzato/non sintonizzabile oppure alieno, tratterei con indifferenza, lo eviterei o detesterei, perfino cercando di ucciderlo se lui tentasse prima di farlo a me. Ma sono anche 'relativista' nei momenti innumerevoli del giorno/dell'anno (altrimenti non solo non sopravviverei, ma perderei il gusto della vita) quando mi scopro angolare, sperimentatore, elastico, curioso, sintonizzato, volubile, non scegliendo competitivo, non attaccando conflittuale, ma adeguandomi alla realtà irresistibile del momento. E però, per terzo, sono anche 'personalista', esprimendo in qualsiasi forma (ad esempio con l'arte, come faccio) la mia pazzia incomprensibile, il mio sogno incondivisibile, la mia unicità irripetibile; tanto che se solo pensassi in quei momenti visionari ed allucinati d'inginocchiarmi all'assoluto (dio, universo, natura, ordine, legge, regola) o flettermi al relativo (rapporto, opinione, scelta, piacere, convenienza, critica) entrambi questi ordini di pensieri mi sembrerebbero inadeguati, a dir poco, e a dir molto scemi.

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Ma a parte la specifica contrapposizione di cui sopra tra relativismo/assolutismo, sono radicalmente convinto (il Macrì direbbe 'assolutisticamente' convinto) che qualsiasi binario filosofico/concettuale germina il due/numero tragico, la dualità/nemica della misura, il dualismo/impregnato di devastazione.

Credo che anzi quanto appena detto sia - ecco finalmente il centro del mio discorso! - il vizio per eccellenza delle culture umane, sulla terra, millenarie, che sento pesarmi addosso come un macigno, come una montagna di macigni (mi succede sempre più spesso d'essere lucidamente convinto di questo j'accuse): tutta/questa/nostra cultura inquinata/intossicata/avvelenata di dualismo!

Rivendico ormai a tal punto il 'tre', i sistemi ternari, la mia "Tridimensione", che se dovessi malauguratamente pensare che il relativismo è "struttura portante del pensiero debole" alla maniera del Macrì, parimenti ammetterei che il relativismo è struttura portante del pensiero forte e del pensiero moderato. Ammetterei inoltre che l'assolutismo - è il suo turno - è struttura portante anche del pensiero debole e del pensiero moderato, oltre che esserlo suppositivamente (ancora alla maniera del Macrì) struttura portante del pensiero forte. E chiuderei il cerchio, aggiungendo d'obbligo che il personalismo è struttura portante del pensiero forte, del pensiero moderato e del pensiero debole, contemporaneamente, simultaneamente… irresistibilmente!
 
 
 
 

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A questo punto, avviandomi come sto facendo alla fine della lettura zoppa - colpa mia - del saggio del Macrì, l'ordine della divagazione che consumo ormai sistematicamente dall'inizio (con danno mio e di chi mi leggerà eventualmente) non può non rivolgersi a quell' "indebolimento del fondamento" che è - mi sembra - il cuore del saggio di questo Autore... (qui, almeno, io e il Macrì, putacaso c'incontrassimo, potremmo trovare un accordo).

Io, per me stesso, sono convinto che non si tratta d'indebolimento, ma di mancanza; neppure di perdita, ma d'inesistenza bella e buona del 'logos'. Il logos, oggigiorno, non è tanto indebolito come dice Macrì/Giovanni Paolo II/Maritain: il logos non c'è adesso, come non c'era ieri e meno nell'antichità. Un vero logos - sono stra/sicuro - non è mai esistito, se non forse in rari uomini/filosofi, sparsi per la storia umana come pietre preziose per una strada mineraria e mai comunque, anche di essi, per tutto il tempo della loro vita matura.

Il Logos (con la 'l' maiuscola come è per il Maritain la 'v' di Verità) è la visione/concezione/emozione tridimensionale delle cose, come ho detto: cioè, nella sostanza/nel contenuto/nella forma, pensiero fondante azione coerente che genera godimento sano. Tutto qui/non è poco, anzi è utopistico, o del tutto irrealizzabile almeno per il momento. E questo, ben inteso, al di là/al di fuori, anzi al di sopra della adesione che un determinato Logos susciti (più/meno sostenitori), del suo resistere al tempo (attimi, secoli o ere) e del diniego che scateni in chi ne sostenga altro/diverso (l'immancabilità/ineludibilità fatale del dissenso).

Avere pensieri fondanti/strategici (come dire partire bene) che si concretino immancabilmente in azioni coerenti/fedeli (come dire camminare bene) affinché in fondo - questo il punto cruciale - ci si compiaccia/si goda (come dire arrivar bene), beh penso che sia davvero difficile/improbabile, comunque mai è successo a livello societario nella storia dell'uomo, neppure a livello di eccezionalità individuale a guardar proprio bene/bene. Forse un giorno l'uomo/gli uomini riusciranno in questo: a realizzare una civiltà dei Logos, politiche del Logos, ogni uomo con il suo Logos...
 
 

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Pur tuttavia, a conclusione della mia piccola/monumentale divagazione dialettica (poiché dialettica non ho trovato nelle pagine del Macrì) mi chiedo senza veemenza... Perché certi ragionatori di filosofia/non filosofi si trincerano dietro l'accusa delle "verità parziali/provvisorie", della "miriade di interpretazioni soggettive", del "riconoscimento della disparità dei valori", bollando il libero pensiero di relativismo, nihilismo, individualismo... E poi di sofismo, anarchica, qualunquismo... E poi ancora di ateismo, eresia, blasfemia... Perché sostengono nei momenti/loro di crisi, ripetitivi come pianticelle nella serra e tenaci come baobab nella giungla (direi tuttavia prevedibili), che la società/tutta è in crisi, che l'unico vero 'logos' del mondo (in realtà i vecchi logos dei vecchi poteri che cedono) è infiacchito, degradato, moribondo?...

Verità marchiate/nere da questi ragionatori come 'conosci te stesso', 'l'uomo è misura di tutte le cose', 'le cose che appaiono a me sono tali per me e le cose che appaiono a te sono tali per te', 'nulla è e, se anche è, è inconoscibile e, se anche conoscibile, è incomunicabile", 'sospendi il tuo assenso: non giudicare!', 'Dio è morto, viva Dio!' e frasi a mille come queste, per me hanno incisività, saggezza, plasticità; mi paiono preziose; penso che dimostrino un'assolutezza, una profondità e una resistenza al tempo che non l'hanno (se non malamente e confusamente) molte parti o tutte di tutti i 'libri sacri' del mondo. Perché - mi ri/chiedo - tanta banalità, tanta noia, tanta acredine?

Devo - suppongo - rispondermi a conclusione di tutto da me... Perché essi non sono produttori di logos. Perché essi sono semplicemente consumatori di logos. Perché il logos, che consumano passivamente, è tra i meno 'logici' esistenti: è il logos che appartiene al cliché delle verità 'rivelate da dio'... Quelle variegate fisionomie di 'dio', formulate ed elaborate nelle geografie/storie/ culture più diverse, che di 'dio', del 'metafisico', di quello che ciascun uomo sa/deve/potrebbe saper fare con la sua 'funzione trascendente' hanno molto poco a che fare - mi sembra e temo.

Euro Roscini/ottobre 2000

Via dei Tornitori, 10

06123 Perugia
 
 

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Si informano i lettori che il libro di Euro Roscini, Tridimensione, è appena uscito (novembre 2000), presso: Morlacchi Editore, Perugia: editore@morlacchilibri.com .