L'universo intellegibile,

ovvero la gravità descritta da Leibniz

(Alessandro Moretti)

 

1. Prologo storico

1.1 Nascita del Newtonianesimo

E' noto che all'inizio del XVII secolo Cartesio propugnò un nuovo modo di fare "Filosofia Naturale" postulando che le relazioni fisiche tra i vari corpi solidi non potessero essere descritte (e tantomeno spiegate) se non tramite modalità comprensibili all'intelletto umano. Questo segnò l'inizio di una scuola di pensiero che va sotto il nome di meccanicismo.

Il primo testo significativo di questa corrente di pensiero fu, ovviamente, il famoso Principia Philosophiae, che vide la stampa nel 1644. Ben presto l'intera comunità scientifica (o quasi) adottò il nuovo modo di fare scienza, che divenne velocemente dominante.

In Inghilterra, al Trinity College, un giovane e promettente studente fu educato in un mondo pesantemente influenzato dal cartesianesimo. Newton mosse i suoi primi passi nella filosofia naturale, secondo la leggenda, durante la tragica peste del 1666; mentre si trovava in soggiorno nella sua città natale ebbe l'intuizione che la ragione per la quale una mela cade a terra e la Luna orbita attorno alla Terra è la medesima. Certamente egli non pensava ai vortici cartesiani per spiegare il fenomeno, anche se in vecchiaia sembrò tornare sui suoi passi (si veda ad esempio l'Optics). Se si leggono i primi scritti newtoniani, infatti, si deduce subito che era scettico nei confronti della teoria cartesiana dei vortici.

Newton, dopo essere stato nominato professore lucasiano e membro della Royal Society, lavorò in sordina per circa un ventennio, applicandosi tanto alla matematica quanto alla filosofia naturale (e forse a molto altro che non ci è del tutto noto), pubblicando però la parte meno significativa, della sua produzione scientifica. Tutto questo originava forse da eccesso di modestia, o forse dai dissidi che si erano creati con la parte più influente della comunità scientifica inglese (vedi la Royal Society, e in particolar modo Robert Hook, con il quale era entrato in polemica a causa della sua teoria dei colori).

All'interno del college nel quale insegnava, conduceva una vita molto riservata, sempre dedito allo studio e poco incline alla mondanità. Ad ogni modo, nel 1687, non senza una poderosa opera di convincimento da parte di Edmund Halley, pubblicò il suo capolavoro, i Principia Mathematica Philosophiae Naturalis. La cosa che balza subito all'attenzione è il sottile richiamo all'opera di Cartesio. E questo era appunto l'intento di Newton, che voleva attaccare la filosofia cartesiana là dove questa si riteneva più forte: le fondamenta filosofiche. La tesi di fondo del monumentale libro è all'incirca la seguente: 'la filosofia naturale ha bisogno di basi certe e non di mere speculazioni (o ipotesi, per parafrasare Newton stesso) dunque le sue fondamenta devono essere poste sull'unica scienza umana che si possa dire logicamente corretta: la matematica". A dire il vero Newton fece molto di più: elaborò per essa una struttura logico-deduttiva simile a quella della geometria, e, sulla base di questo, la fece diventare una scienza quantitativa, a differenza dell'approccio cartesiano, che era meramente qualitativo.

Questa fu appunto la chiave del successo della filosofia newtoniana, che non si limitava a dare una spiegazione dei fenomeni sulla base di ipotesi più o meno plausibili, ma era in grado di calcolare effettivamente quantità fisiche relative al fenomeno in oggetto; sulla base di previsioni misurabili si poteva quindi non solo testare la teoria, ma anche, finalmente, utilizzarla per 'sviluppare' applicazioni tecnologiche, cosa che fino al secolo precedente era lasciata totalmente al genio di pochi come Leonardo. In questo quindi l'approccio newtoniano era effettivamente superiore a quello cartesiano.

La notorietà universale arrise però alla filosofia newtoniana soltanto molti anni più tardi, attorno alla seconda decade del XVII secolo, grazie ai successi nella meccanica celeste, e grazie anche all'appoggio prestato da filosofi di grande fama, come Voltaire, che l'abbracciarono con entusiasmo.

Nei quarant'anni seguenti, che separarono la prima e la terza edizione dei Principia Mathematica, e corrispondenti approssimativamente al periodo di transizione da una teoria all'altra, si svolse una discussione filosofica tra cartesiani e newtoniani. Anche se in conclusione questi ultimi videro la loro teoria affermarsi definitivamente, questo non significò affatto l'estinzione dei primi: altri uomini di cultura di grande fama coltivarono, e coltivano, convinzioni cartesiane, sebbene questo venga ignorato nella maggior parte dei lavori sulla storia della scienza. L'oggetto del presente scritto è uno degli episodi di questa controversia filosofica, probabilmente il più importante se si considera la statura intellettuale dei protagonisti: Newton e Leibniz.

1.2 La formazione scientifica di Leibniz

Leibniz, come a simboleggiare la contrapposizione tra i due, visse in una corte ricca e sfarzosa, sempre impegnato nelle faccende politiche del suo principe. Era spesso in viaggio per faccende diplomatiche, conobbe moltissimi dei maggiori filosofi della sua epoca e si adoperò in ogni modo possibile per la diffusione della cultura, e in particolare della scienza. Tra le altre cose fondò una rivista che si chiama Acta Eruditorum, dove spesso scrisse brevi saggi e contribuì alla fondazione di alcune Accademie che tuttora svolgono attività scientifica.

Era un ragazzo prodigio; fin dalla nascita il padre intuì che era destinato ad essere noto in tutto il mondo. Già in giovane età, stimolato dal suo maestro Thomasius, si dedicò a studi riguardanti la filosofia naturale. Nel 1671 pubblicò un saggio dal titolo Hypothesis Phyisica Nova, dove sintetizzò le sue prime concezioni filosofiche attorno alla natura; in questo saggio si possono trovare i prodromi della cosmologia leibniziana.

Questo si divide in due parti: la "Theoria motus concreti" e la "Theoria

motus abstracti". Per il presente discorso limiteremo la nostra considerazione alla prima delle due. Come lo stesso titolo lascia presagire, in essa vi è contenuta una descrizione dei fenomeni 'mondani', cioè riguardanti i corpi materiali. Il più importante di questi è ovviamente l'Universo stesso. Partendo dalla evidente esistenza dei corpi celesti, Leibniz esordì con: "Supponiamo all'inizio il Globo Solare, il Globo terrestre, e lo spazio intermedio, ..., che chiamiamo etere,... pieno.". Cartesiano fin da subito, non abbracciò la teoria del francese in toto, ma conservò uno spirito critico che gli consentirà di andare oltre i limiti della descrizione cartesiana.

Naturalmente, così come era stato postulato, il nostro universo era privo di moto. Poiché le apparenze indicano il contrario, una qualche forma di moto doveva essere presente in questo sistema: "E' necessario dunque prima di tutto che un certo moto sia [presente] tanto nel globo solare quanto nel globo terrestre". Ora, una volta stabilito che il moto si trova primariamente nei globi, Leibniz ipotizzò (in base ai fenomeni) che tale moto fosse di tipo rotatorio. Questa rotazione causa il ruotare dell'etere circostante, tanto che "...per la sola rotazione del Sole attorno al proprio Centro, l'etere con i pianeti è trasportato attorno al Sole...". Il 'Primo Mobile' è dunque il Sole, e non la sfera delle stelle fisse di aristotelica memoria. Ma questo non rende conto del fenomeno della gravità, che si osserva in una direzione radiale a questo movimento rotatorio, poiché "...il moto attorno al proprio centro non agisce fuori di sé,...". E' necessaria dunque la presenza di un altro meccanismo che provveda alla gravità. Leibniz suppose quindi che questo movimento rotatorio effettuasse una qualche operazione particolare.

Non è ben chiaro quale sia esattamente il meccanismo che Leibniz considerava responsabile della gravità; egli si limitò a dire che "la gravità sorge dalla circolazione dell'etere attorno alla terra". Viene però detto che l'etere, circolando intorno alla terra, produce molte e varie correnti. Un corpo qualsiasi, che si trovi per una qualche causa ad ascendere, turberà con la sua presenza questi flussi d'etere, che tenderanno a far spostare il corpo verso una posizione che turbi di meno le correnti. La tendenza alla restaurazione delle condizioni iniziali è dovuta alla elasticità delle parti che costituiscono l'etere, che tendono a riportare tutte le parti di materia sensibile nella originale posizione. Ora, poiché più si sale e più si turbano i moto eterei, viene di conseguenza che i corpi vengano spinti verso il basso, producendo l'apparenza di una forza che attrae verso il basso. Da questo sorge la gravità.

Questo punto verrà ripreso brevemente da Leibniz alcuni anni più tardi, in una lettera a Fabri, dove precisò che la materia sottile ha due modi per ripristinare le condizioni iniziali: respingere in basso il corpo che crea turbamento, che si chiama gravità, o ridurlo in particole singole, in modo da renderlo omogeneo a sé. Quest'ultima cosa in particolare egli la chiamò elasticità. Implicitamente quindi Leibniz ci dice che i corpi ordinari sono formati della stessa materia eterea, ma organizzati secondo strutture rigide.

Tornando all'Hyp. Phys. Nova, è curioso notare come Leibniz inserisca, per confutarla, quella che a sua detta è la spiegazione della gravità fornita da Torricelli: egli ipotizzava, secondo Leibniz, che le particelle sfuggivano verso l'esterno in modo diverso a seconda della loro dimensione; diceva Torricelli che le più tenui venivano espulse con maggior vigore delle più 'crasse'.

E' chiaro che questo discorso parve inaccettabile a Leibniz, ma qui non è in discussione la correttezza o meno delle opinioni. Ciò che veramente interessa è che, allo stesso modo che in seguito, Leibniz cercò di accomunare alle sue convinzioni figure celebri della filosofia naturale. In un passo del Tentamen de motuum coelestium causis citò un brano del diario di viaggio di Baltasar de Monconys, nel quale l'autore riporta un colloquio col grande matematico Torricelli riguardo al fatto che tutti i corpi celesti sono animati da moto rotatorio, e per conseguenza tutto l'etere che li circonda è posto in moto con velocità decrescente a mano a mano che ci si allontana dal centro di rotazione. La somiglianza con le convinzioni leibniziane è evidente. Leibniz però osò un poco di più. Poiché è noto che Torricelli fu allievo di Galileo, Leibniz avanzò l'ipotesi che anche il grande fisico considerasse valida questa ipotesi. Personalmente ritengo che la testimonianza di Monconys non sia priva di fondamento in quanto erano tempi in cui professare il copernicanesimo comportava la scomunica, o peggio il rogo, e difatti, significativamente, coloro che si incaricarono di raccogliere gli scritti di Torricelli trovarono ben poche cose sull'astronomia, come se il matematico temesse le conseguenze di tali studi; mentre, per quello che riguarda Galileo, egli usò più volte il termine 'etere' (vedi ad esempio il Sidereus Nuncius) per designare una ignota sostanza diffusa nel cosmo.

1.3 Gli anni '70 e '80

Negli anni seguenti gli interessi di Leibniz furono assorbiti da discipline diverse, in particolare dalla matematica, alla quale egli si applicò notevolmente (non senza risultato). I suoi studi sulla filosofia naturale presero direzioni leggermente diverse: affascinato dalle questioni riguardanti il cartesianesimo, si dedicò a quella che oggi definiremmo la meccanica. E' del 1686 la sua Brevis demonstractio erroris memorabilis Cartesii, nella quale prese in esame uno dei capisaldi della fisica cartesiana: la conservazione della quantità di moto. Dimostrò che era errato assumere che la quantità di moto si conservasse sempre, ma che doveva più propriamente assumersi che fosse la "vis viva" (mv2, quella che modernamente chiamiamo energia cinetica) a conservarsi.

Egli aveva dunque spostato il baricentro dei suoi interessi verso questioni più generali. Sempre nello stesso periodo pubblicò articoli riguardanti la resistenza dei solidi ed alcuni articoli sulla rifrazione, tutti negli Acta Eruditorum. L'intento era probabilmente quello di dare vita ad una generale sistemazione della materia. Alcuni anni dopo compose un trattato dal nome altisonante di Dynamica (ebbene sì, è Leibniz che ha usato per primo questo termine nell'accezione moderna), mai pubblicato se non in forma riassunta, nel quale diede una sistemazione organica a diversi anni di studio sull'argomento.

Verso la fine del decennio però accadde un fatto che lo avrebbe costretto ben presto a cambiare la sua strategia. Nell'estate del 1687 uscirono i Principia di Newton. Questo fatto non ebbe certo la risonanza che ci si aspetterebbe vista l'enorme notorietà del testo presso i posteri, tanto che per diversi mesi il libro circolò all'interno della comunità scientifica continentale grazie ad una sorta di passaparola degli studiosi. Leibniz, grazie alle segnalazioni di alcuni suoi corrispondenti, sapeva dell'esistenza del libro, ma non aveva la benché minima idea del suo contenuto.

Nel frattempo si trovava impegnato in tutt'altre faccende. Uno dei suoi compiti principali alla corte di Hannover, suo luogo di residenza, era la cura della biblioteca reale e la stesura di una biografia ufficiale della casata degli Hannover. Con questa scusa il Principe inviò Leibniz in un lungo viaggio diplomatico attraverso l'Europa, che lo portò prima in Austria e poi in Italia: è il novembre del 1687. Durante il viaggio restò relativamente isolato dalla comunità scientifica europea, ma i suoi contatti epistolari (tra i quali Huygens, che aveva conosciuto durante il suo periodo parigino) riuscirono comunque a tenerlo informato sulle novità in campo culturale. In particolare, nell'autunno del 1688, quando già si trovava in Italia, ricevette una copia degli Acta Eruditorum, e lesse, nel numero di giugno, una recensione del testo newtoniano, ad opera di un certo C. Pfautz. Ad onor del vero dobbiamo dire che, a proposito della lettura della recensione, D. Bertoloni Meli sostiene che Pfautz è Leibniz stesso, e che egli ha letto il libro già all'inizio del 1688, quando si trovava a Vienna; molte fondate ragioni inducono a pensare che questa tesi sia falsa, anche se dal punto di vista della disputa filosofica susseguente questo sarebbe comunque ininfluente, dato che la divergenza di opinioni è tale che la questione della priorità passa in secondo piano rispetto a quella dei contenuti.

Ad ogni modo Leibniz proseguì il suo viaggio iniziando a meditare sulla questione cosmologica. Nel periodo seguente pubblicò molti articoli di argomento inerente la fisica, ed iniziò studi preparatori per un articolo nel quale intendeva illustrare le sue meditazioni sulla cosmologia. In questo contesto vide la luce Schediasma de resistentia medii..., dove viene studiato il moto di un proiettile in un mezzo che gli offre resistenza nei vari casi in cui sia o meno accelerato dalla gravità. Questo testo non avrebbe molta importanza se considerato per sé stesso, ma la assume se lo si vede nel contesto degli studi fluidodinamici in cui presumibilmente è stato elaborato.

Leibniz non era dunque in accordo con la tesi sostenuta da Newton, o meglio, non condivideva ciò che si poteva desumere dalla recensione di Pfauzt. Ma vediamo cosa poteva averlo colpito. Newton nei suoi Principia ammetteva candidamente che, se dalle osservazioni si poteva dedurre che tutti i corpi fin lì considerati tenevano un certo comportamento, allora era giustificato pensare che questo avvenisse sempre, e che anche se non se ne conosceva la causa, si poteva darne una descrizione matematica con la quale eseguire comunque i calcoli quantitativi sul fenomeno. Naturalmente Newton includeva tra questi fenomeni anche la gravità, perfino a livello dei corpi celesti, poiché è notorio che tutti i corpi che stanno sulla terra vengono "apparentemente" attratti al suolo. Dunque, secondo il precetto Newtoniano, tutti i corpi dovevano essere come attratti gli uni dagli altri, cosa che poteva essere dedotta per induzione, dal momento che tutti i corpi sono formati dalla stessa materia, e che sulla terra tutti i corpi sembrano attratti dalla materia terrestre. Per Leibniz questo assumeva i contorni di un pericoloso ritorno al passato, una rinuncia allo sforzo di cercare le cause razionali delle cose, un salto indietro ad un passato che, fortunatamente, era stato superato dalla meditazione e dalla riflessione razionale dei filosofi a lui immediatamente precedenti. Avvertì dunque la necessità di contrastare una simile filosofia, e ciò doveva essere fatto velocemente, prima che potesse trovare grande riscontro presso gli studiosi.

1.4 L'autunno del 1688

Era chiaro che Leibniz, volendo propugnare una sua teoria cosmologica, doveva pubblicare il più velocemente possibile per allontanare da lui i sospetti di plagio; questo era un comportamento che teneva abitualmente, come si può riscontrare nell'episodio della seconda lettera di Newton. Si dedicò quindi alla stesura di alcuni brevi saggi, tutti inerenti la questione, nei quali tentò sistematicamente di matematizzare i fenomeni fisici, così da potergli applicare il suo calcolo differenziale. Bisogna dire che la datazione di questi manoscritti è ancora incerta, e che molte speculazioni possono essere fatte sulla loro cronologia: non ci interessa qui fare questo lavoro, quanto piuttosto analizzarne brevemente il contenuto.

In De Conatu centripeto aut centrifugo Leibniz studiò il modo di determinare lo 'sforzo' a tendere verso un centro, o ad allontanarsi da questo, che subisce un corpo il quale si muova in una linea curva qualsiasi. Tale tipo di studio era necessario per poter calcolare il moto di progressivo avvicinamento ed allontanamento dei vari pianeti dal Sole. In tale studio Leibniz adottò una particolare scomposizione del moto, che ritroveremo più tardi, e che veniva da un illustre maestro: scompose il moto in una componente trasversale ed in una radiale. Una scomposizione simile l'aveva già adottata Kepler nell'Astronomia Nova ed anche nell'Epitome Astronomiae Copernicanae, quest'ultimo ben noto a Leibniz. Non stupisce quindi che l'abbia fatta sua, poiché sembrava molto pratica. Prescindendo quindi da quale fosse il moto trasversale, propose una ulteriore scomposizione del moto radiale in due componenti principali, che riconobbe giustamente essere differenziali del secondo ordine, cioè accelerazioni: il conato centrifugo, che era ben noto a tutti dall'opera di Huygens, e il conato centripeto. Non specificò esattamente a cosa dovesse essere imputato quest'ultimo, ma qui emerse la prima differenza sostanziale con l'opera di Newton. Leibniz infatti pose queste due "forze" diverse tra di loro: quando la seconda eccede la prima abbiamo l'apparire della gravità, poiché il corpo tende verso il centro rispetto al quale si stanno eseguendo i calcoli, mentre se la prima eccede la seconda abbiamo quello che definì la "levità", poiché il corpo apparentemente viene allontanato dal centro medesimo.

Immediatamente appresso scrisse De motu gravium, nel quale analizzava il moto di proietti sottoposti all'azione della gravità; in questo testo vengono menzionate sia la "vis viva" che la "vis mortua", la prima delle quali abbiamo già visto in cosa consistesse. La seconda non era niente altro che una sollecitazione istantanea, tanto che Leibniz stesso dice che la vis viva si ottiene per somma delle vires mortuae. Questo testo risulta interessante anche perché per la prima volta Leibniz, in una addizione probabilmente posteriore, dà una spiegazione meccanica di quello che potrebbe essere il meccanismo che genera la gravità. Vediamo di cosa si tratta. Un corpo che si trova ad orbitare nello spazio deve essere immerso in un fluido che rotea seguendo un moto vorticoso. Essendo questi due, l'etere ed il corpo, di materia solida, sono sottoposti al conato centrifugo. Se però il corpo, benché formato di materia più solida, fosse poroso, e quindi si trovasse a contenere un numero minore di particelle, allora subirà una sollecitazione da parte delle particelle dell'etere, poiché esse tendono a sostituirsi al corpo nel luogo più lontano dal centro del vortice. L'effetto generale sarà che il corpo solido viene spinto verso il centro del vortice stesso.

Questi due scritti, di carattere generale, rimasero inediti, forse perché rientravano nel progetto più ampio della dinamica, che Leibniz contava di portare a compimento in seguito. Trovò invece la pubblicazione, nel gennaio del 1689, il breve saggio Schediasma de resistentia Medii. Un mese più tardi fu pubblicato il Tentamen de motuum coelestium causis, sempre negli Acta Eruditorum, che finalmente dava corpo alle convinzioni cosmologiche leibniziane.

2. Il Tentamen

Leibniz esordì con una diffusa introduzione su quello che dovrebbe essere il metodo di indagine nella filosofia naturale. Ciò che colpì maggiormente l'immaginario leibniziano fu quello che considerava un pericoloso rinascere di concezioni oramai obsolete e da tempo abbandonate. Questo era dunque il punto di partenza della critica leibniziana. Non si poteva ammettere che un fenomeno naturale non potesse essere spiegato in termini comprensibili ad un'intelletto umano; non è ammissibile supporre l'esistenza di una qualche forza d'attrazione tra le varie parti della materia. Per usare parole sue potremmo dire che "se si ammettono spiegazioni di questo tipo allora non ci si dovrebbe stupire se ogni filosofo introducesse una qualità opportuna per spiegare qualunque fenomeno".

Due sono i punti saldi sui quali Leibniz costruì la sua indagine: in primo luogo i fenomeni, così come sono osservati dagli astronomi, in secondo luogo le leggi della meccanica, che richiedono che una qualsiasi sollecitazione sia esercitata solamente tramite il contatto fisico. Per quello che riguarda i fenomeni Leibniz si riferì solamente alle tre leggi di Keplero. Ora, dalla prima legge di Keplero è chiaro che i pianeti non percorrono delle rette, come dovrebbero se non fossero sottoposti ad alcuna azione, ma delle ellissi. E' dunque chiaro che subiscono una azione di qualche sorta. Ma dalle leggi della meccanica si deduce che le azioni che costringono i pianeti a percorrere tali orbite debbono essere trasmesse da qualcosa che è a contatto con loro. Dal momento che nulla di materiale si osserva, si deve trattare di una qualche sostanza trasparente e diffusa in tutto l'universo, poiché tutti i pianeti vengono osservati compiere tali orbite. Ora questa sostanza può essere solo di due tipi: solida o fluida. Il primo caso è da scartare, poiché dalle ricerche di Tycho Brahe si deduce che le orbite non possono essere solide. Va da sé che la sostanza che induce i pianeti a rimanere nelle loro orbite è un fluido che riempie l'intero universo. Tale fluido, oltretutto, è in movimento, creando un vortice attorno al Sole, poiché si osserva che i pianeti circolano tutti nello stesso verso attorno all'astro, con velocità decrescente man mano che ci si allontana dal centro del vortice.

Da questo punto in poi Leibniz abbandonò le considerazioni meramente qualitative e cominciò col determinare quale fosse la velocità del fluido attorno al Sole. Leibniz osservò che supponendo che un corpo qualsiasi, che percorre un'orbita non necessariamente circolare, si muova con una velocità trasversale (la componente del vettore velocità ortogonale alla retta che unisce il pianeta al Sole) proporzionale all'inverso della distanza dal centro del vortice, allora quello stesso pianeta osserva la seconda legge di Keplero, detta "legge delle aree", la quale stabilisce che ogni pianeta descrive aree eguali in tempi eguali (ovvero, se si prendono le posizioni di un pianeta in due tempi diversi e le si uniscono con sue segmenti alla posizione del Sole, ne viene fuori che le aree dei settori ellittici sono uguali lungo tutta l'orbita purché le due posizioni planetarie siano separate da eguali intervalli di tempo). Sotto quest'ultima ipotesi si può dimostrare, viceversa, che la velocità trasversale del pianeta è proporzionale all'inverso della distanza dal Sole stesso. Dalle osservazioni si evince che i pianeti osservano la seconda legge di Keplero, quindi è chiaro che essi circolano attorno al Sole con velocità trasversale proporzionale all'inverso della distanza del pianeta, o, per usare la terminologia leibniziana, 'in maniera armonica'. Ma perché Leibniz usò questo termine? In matematica una progressione si dice "armonica" quando ad ogni numero viene associato il suo inverso. Vediamo dunque che Leibniz concepì il suo vortice come un'enorme massa fluida formata da strati che scorrono uno sull'altro in modo tale che la velocità del fluido in ogni singolo strato (supposto di spessore trascurabile rispetto al raggio ) sia inversamente proporzionale alla distanza dell'orbe stesso dal Sole.

Ora chiaramente questa enorme massa fluida in rotazione trasporta con sé tutto quello che si trova al suo interno, compresi corpi enormi come i pianeti, e lo fa "come se essi galleggiassero in un tranquillo mare" che li porta con sé. Ma in base a quale fenomeno questi vengono trasportati? Leibniz ipotizzò che le particelle che compongono il fluido si opponessero in una qualche misura al passaggio di altri corpi, e dunque, dopo un certo tempo, i pianeti, anche se inizialmente fossero stati animati di un moto proprio qualsiasi, si sono in seguito stabilizzati in uno stato di quiete relativa con gli orbi fluidi, in modo che da muoversi con la loro stessa velocità trasversale.

Ma, sempre in considerazione della validità della prima legge di Keplero, risulta chiaro che i pianeti non solo circolano attorno al Sole, ma possiedono un moto di progressivo avvicinamamento e allontanamento dal Sole lungo la linea che congiunge i due astri. Questo tipo di moto Leibniz lo chiamò "paracentrico", come a suggerire che si svolge in una linea passante per il centro del vortice. E' chiaro che il moto di circolazione attorno al centro del vortice è causato dal ruotare dello stesso, che a causa dell'attrito tutto trasporta con sé in una eterna giostra. Ma che dire del moto paracentrico? Lebniz ci dice laconicamente che questo moto ha origine "dalla impressione escussoria della circolazione e dall'attrazione solare".

In effetti è da convenire che la spiegazione proposta è un po' vaga, ma si deve tenere a mente che probabilmente lo scopo dello scritto non era tanto quello di proporre un modello per la gravitazione, quanto piuttosto per il sistema solare. Abbiamo visto che negli studi preparatori era stato indicato un possibile meccanismo gravitazionale, ma è probabile anche che Leibniz intendesse perfezionarlo prima di divulgarlo. A sostegno di questa ipotesi sta il fatto che, a pochi mesi di distanza, tornò esattamente su questo argomento con uno scritto incentrato in buona parte su questa problematica.

A questo punto siamo in grado di trarre un bilancio, benché approssimativo, dei risultati raggiunti da Leibniz nel Tentamen. In termini pratici la spiegazione proposta da Leibniz ricalcava quella data da Cartesio, anche se Leibniz stesso aveva in passato criticato molto l'opera cartesiana. Praticamente il vortice solare, ruotando, trascina con sé tutto quello che si trova al suo interno, pianeti compresi. E fin qui nulla di diverso da quanto proponeva Cartesio. Il vortice leibniziano però era concepito in modo tale che vi fosse un rapporto preciso tra le velocità dei vari strati del vortice. Abbiamo visto che dal punto di vista dei calcoli la circolazione armonica rende perfettamente conto della seconda legge di Keplero. Leibniz però conosceva anche il fatto che un moto può essere scomposto in due direzioni diverse senza che i due distinti moti si influenzino l'un l'altro: cioè un pianeta può comunque osservare la seconda legge di Keplero a prescindere dalla forma dell'orbita che precorre. Dato che i pianeti, a causa degli impulsi subiti dagli orbi, percorrono orbite chiuse, si chiese dunque quale fosse la legge degli impulsi capace di rendere tali orbite delle ellissi. Attraverso i calcoli, supponendo che l'impulso reale subito da ogni pianeta fosse la differenza tra il conato escussorio (la tendenza centrifuga del pianeta stesso) e l'impulso ricevuto dall'orbe, arrivò a dedurre che tale legge era proporzionale all'inverso del quadrato della distanza dal Sole. Questo, unitamente a considerazioni sulle modalità di trasmissione dell'azione da parte del fluido, dava la possibilità di effettuare calcoli applicando il calcolo differenziale, che aveva da poco contribuito a sviluppare. Prendeva corpo così una teoria 'meccanica' dei moti planetari che fosse però anche matematizzata; in questo senso realizzò una sintesi tra gli aspetti migliori della teoria cartesiana e di quella newtoniana: veniva conservata, depurata dai suoi aspetti più approssimativi, la razionalità della spiegazione cartesiana, e nel contempo si aveva un adeguato apparato matematico, così da poter effettuare precisi calcoli, senza però dover ricorrere a meccanismi irrazionali, o peggio abdicare alla funzione di ricerca delle cause, come nella teoria newtoniana.

Torniamo ora al nostro discorso principale, la ricerca della sorgente della gravità, fissando la nostra attenzione sul fatto che anche gli orbi, come il resto della materia del sistema solare, possiedono una velocità di circolazione attorno al Sole e sono formati da materia che possiede comunque una sua corporeità.

3. Sulla causa della gravità

L'articolo al quale Leibniz faceva riferimento in conclusione del Tentamen, quello ove spiegò finalmente la sua concezione della gravità, venne pubblicato quindici mesi dopo, nel maggio del 1690, sempre sugli Acta Eruditorum. Il titolo era eloquente: De causa gravitatis... . In questa sede Leibniz diede una chiara spiegazione di come il fluido potesse trasmettere una sollecitazione; utilizzerò qui la descrizione dell'esperimento ideato dall'autore per esporre il suo pensiero.

"Si prenda un tubo orizzontale lunghissimo, chiuso ovunque e pieno di mercurio, nel quale, appresso all'estremo [più lontano] V sia, nel luogo G, il globo vitreo G, il quale sia fatto da materia meno densa o meno solida del mercurio, né possa essere corrosa da questo. Se quindi il tubo cilindrico è fatto ruotare attorno all'altro estremo T immobile, in modo che rimanga nel medesimo piano orizzontale, allora il mercurio tenta di recedere dal centro e tende verso V, spingendo dunque il globo, e il medesimo è obbligato a tendere verso T senza alcuna ascensione."

TV

Già da queste prime spiegazioni si può intuire che la ragione di questo effetto è di tipo dinamico. Il fluido etereo, alla pari del mercurio, viene concepito dotato di una qualche solidità, anzi di una maggiore solidità rispetto ai corpi che contiene, ("...fluidum aliquod ex partibus solidioribus constans..."), e quindi, una volta messo in rotazione, subisce la cosiddetta forza centrifuga. Poiché l'etere è più denso della materia che vi si trova immersa, tende a sostituirsi a quest'ultima verso le parti più esterne del vortice producendo l'apparenza della gravità.

Ma torniamo alle parole dell'autore. "Infine, anche se il tubo fosse un poco inclinato sulla orizzontale, così che l'estremo T sia più basso di V, tuttavia, con una forza di circolazione sufficientemente rapida, può essere fatto [in modo] che il globo, diversamente galleggiante nel mercurio, discenda da V verso T, la quale è una adattissima rappresentazione della gravità."

Con questa piccola modifica all'esperimento Leibniz intendeva dimostrare che anche in presenza di una tendenza contraria alle aspettative, in questo caso la spinta archimedea esercitata dal mercurio sul globo, si poteva comunque far tendere il globo verso il centro con una opportuna velocità di rotazione. Non è comunque difficile comprendere che, poiché tutte le particelle che costituiscono il sistema non hanno alcuna azione reciproca (newtoniana) di tipo gravitazionale, non vi sono tendenze contrarie da vincere, e la situazione che meglio rappresenta l'universo, così come Leibniz lo concepiva, è la prima.

Ad ogni modo, nel passo successivo, finalmente Leibniz si sbilanciò e descrisse esplicitamente il meccanismo finora solo accennato. "La causa dunque del perché la forza centrifuga di questa materia recedente dal centro spinga verso il centro l'altra materia meno recedente, può essere spiegata distintamente così, che la materia B (mercurio), recedente dal centro T, si sforza di insinuarsi tra C (mercurio) ed il corpo 2G (globo), e poiché il mercurio C non può essere spinto più oltre, per l'impedimento del fondo V del tubo, respingerà il corpo 2G verso T, o a 3G."

Finalmente risulta chiaro di che tipo di meccanismo si tratta. Analizzando la cosa da un punto di vista moderno, questo appare essere un effetto del tutto analogo a quello del galleggiamento dei corpi nei liquidi. In questo ben conosciuto fenomeno fisico, le molecole del fluido, così come le particelle di un qualsiasi corpo solido immersovi, sono sottoposte alla azione del campo gravitazionale terrestre, che le spinge verso il basso. Quindi i corpi che hanno una densità più bassa del fluido subiranno una spinta minore dello stesso. Come conseguenza le molecole del fluido avranno la tendenza a disporsi più in basso rispetto a quelle del corpo, che viene così spinto verso l'alto. Da questo origina quella che si chiama la 'spinta archimedea'. Nel vortice leibniziano tutto succede in maniera analoga: il campo di forze che dota la materia di 'peso', che nel primo caso è la gravità terrestre, ora è il campo delle forze centrifughe dovute alla circolazione attorno al Sole. Di conseguenza le particelle di etere, più solide di quelle dei corpi celesti, tendono a sostituire le stesse verso il 'basso'. Ora però il basso non è più la superficie terrestre, ma l'esterno del vortice, mentre l'alto è il centro del medesimo. La gravità non è altro che la spinta archimedea dell'etere applicata ai corpi celesti, e originata dalla sua maggiore forza centrifuga.

Ora questa teoria si presta ad almeno una sostanziale obiezione: questa, dovuta a Johann Bernoulli, fu pubblicata nel 1696 in un articolo sugli Acta Eruditorum, nel quale veniva dedotto che, in un vortice di tipo cartesiano, la gravità si sarebbe dovuta osservare verso l'asse del vortice, e non verso il centro dello stesso.

Leibniz conosceva bene questo argomento, e diede la sua personale interpretazione (anzi ne diede due!): "E, come del resto è qui tacito, è necessario che questo etere sia mosso attorno alla terra non per l'equatore o per i paralleli, ma per circoli massimi, come sono i meridiani (altrimenti i gravi tenderebbero all'asse e non al centro), ma in questo modo è necessario l'etere stesso essere assai raccolto verso i poli; da ciò non appare in che modo i gravi, nei luoghi vicini ai poli e all'equatore, vengano spinti nello stesso modo verso il centro, il che tuttavia è fatto, né tanto è osservata, insegnano i fenomeni, differenza sensibile. ... Può essere assegnata un'altra causa della medesima, non soggetta a questa difficoltà, concependo un'esplosione di questa tal materia [l'etere] dal globo della terra, o dagli altri [astri] del cielo, propulsa in tutte le direzioni, con la quale è prodotta una qualche radiazione analoga alla radiazione della luce; così certamente abbiamo recesso dal centro della materia eterea, la quale, per la medesima forza di recedere dal centro, che i corpi più grandi non hanno, li spinge verso il centro, o li rende gravi."

Assistiamo quindi ad una evoluzione della concezione del vortice cartesiano: non più solo un movimento rotatorio attorno al centro, ma anche un movimento trasversale uscente da detto centro. Questa spiegazione risolve apparentemente il grave problema della simmetria sferica dell'azione gravitazionale, ma ne apre di nuovi (e forse più gravi). Si deve ammettere in effetti che tali moti eterei divenivano estremamente complicati. Leibniz arrivò ad una conciliazione di queste cose in un modo inusuale.

4. Un secondo Tentamen

Come si evince dallo studio dei manoscritti leibniziani del periodo, appare palese che si occupò molto di queste questioni, ma soprattutto di dare una struttura coerente a tutta la sua cosmologia. Riprese ed ampliò il suo Tentamen con nuove e più ampie dimostrazioni, ma anche con nuove ipotesi riguardo alla struttura del vortice solare. Nel tentativo di risolvere la difficoltà prima citata ipotizzò che: "... appare chiaro che debba essere altra la materia fluida da quel fluido che dicemmo fare la gravità e che è spinto lontano dal centro: appare essere molto più sottile e non seguente la direzione della materia, ma è esercitante suoi propri moti ...". Che cosa vuole dire Leibniz con questa frase? Semplicemente che il gravitare dei pianeti verso il Sole e il e il gravitare dei corpi terrestri sono provveduti da due fluidi diversi, di diversa sottigliezza e non interagenti. Il primo, molto più grossolano, circola attorno al Sole in modo armonico, e fa in modo che i pianeti osservino la seconda legge di Keplero, mentre il secondo, più sottile, da al pianeta la sua 'facoltà' di attrarre tutti i corpi verso di sé da tutte le direzioni, seguendo la legge dell'inverso del quadrato delle distanze dal centro, allo stesso modo di quanto avviene a livello degli orbi planetari. Complessivamente dunque, il primo fluido fa la gravità nel Sistema Solare secondo la legge newtoniana ed obbliga i pianeti ad orbitare seguendo le due prime leggi di Keplero, mentre il secondo fluido fa la gravità nei pianeti, sempre secondo la legge newtoniana. Si realizzava così una armonizzazione di tutti i fenomeni conosciuti, ma restava aperta un'altra questione molto importante: come poteva la terza legge di Keplero conciliarsi con questo costrutto apparentemente molto elegante? Leibniz lasciò la questione aperta, e vedremo poi come tentò di risolverla, ma per ora è interessante vedere come arrivò a determinare che il fluido facente la gravità terrestre esercitasse la sua azione proprio secondo una proporzione inversa al quadrato della distanza dal Sole. L'azione gravitazionale che l'etere trasmetteva, doveva essere proporzionale alla quantità dello stesso che si trovava ad interagire con un grave qualsiasi. Ora, se si prende in considerazione un angolo solido qualsiasi, la materia eterea emessa dall'astro in quel determinato angolo solido non poteva variare, e quindi, una volta emessa la 'radiazione', questa doveva conservarsi immutata per tutto il suo allontanarsi dal centro di emissione. A questo punto, in analogia alla radiazione luminosa, la 'densità eterea' doveva diminuire in maniera direttamente proporzionale alla superficie intercettata dall'angolo solido di partenza su sfere concentriche centrate nel punto di emissione. Leibniz sapeva che questa superficie aumentava in proporzione al quadrato del raggio della sfera, e quindi la densità dell'etere diminuiva in ragione inversa del quadrato di detto raggio. Per conseguenza la sua capacità di agire sui corpi solidi doveva diminuire in proporzione inversa al quadrato della distanza dal centro di emissione. Ecco dunque che tutto si armonizzava con i fenomeni celesti ( o quasi). Rimaneva aperta la questione della terza legge, ma Leibniz rimandò i lettori ad un lavoro a venire.

Questo lavoro però rimase in sospeso per molto tempo, o meglio Leibniz non ce ne dà notizia, in quanto venne assorbito in un lavoro molto più impegnativo: il suo ampio trattato sulla dinamica. Frattanto si stava preparando il terreno per la violenta disputa che vide coinvolti Newton e Leibniz riguardo al calcolo differenziale, e la questione cosmologica non rimase estranea al fatto. Molte critiche cominciarono ad arrivare dal versante inglese, e qualcuna anche dagli ambienti francesi, da lui considerati amici.

5. L'ultimo tentativo

Verso la fine del secolo Leibniz, che finalmente era stato ammesso all'Accademia delle Scienze, iniziò una corrispondenza con Varignon, che diede nuovo impulso ai suoi studi cosmologici. Attorno al 1706 compose un saggio dal titolo Illustratio Tentaminis de motuum coelestium causis, col quale si propose di dare una versione definitiva della sua teoria. Il saggio risultò troppo lungo e l'editore degli Acta Eruditorum lo invitò a farne un riassunto, che venne pubblicato in quello stesso anno.

Con esso Leibniz, dato il considerevole numero di critiche ricevute, si era proposto non solo di emendare alcuni piccoli errori che aveva commesso nelle versioni precedenti, ma anche di puntualizzare la sua posizione riguardo al vortice solare, in relazione soprattutto alla modifica proposta in precedenza ed all'unico problema vero che egli pensava rimanesse aperto. Mi riferisco ovviamente alla terza legge di Keplero. Ma andiamo con ordine. Spiegò più chiaramente la differenza esistente tra i due tipi di etere, quello grossolano, relativo al vortice solare, e quello fine, relativo ai vari pianeti. Riteneva che questa spiegazione potesse essere considerata valida poiché i pianeti ruotano tutti nel medesimo piano, e quindi, anche se l'azione gravitazionale doveva possedere simmetria sferica pure per quello che riguarda l'intero sistema solare, nondimeno questa simmetria non era visibile, e quindi il vortice, così come lo aveva concepito inizialmente, era adatto alla spiegazione dei fenomeni.

Diverso è il caso per quello che riguarda la terza legge di Keplero. Nei lavori precedenti Leibniz non aveva neanche tentato di affrontare l'argomento, ma a questo punto si imponeva un suo studio, dato che la validità della legge era universalmente riconosciuta. Il punto di partenza fu stabilito da Leibniz sull'ipotesi che gli orbi fluidi, tramite l'attrito vicendevole che si esercitavano, dovessero avere la stessa quantità di "potenza" (quella che oggi chiameremmo energia cinetica). Tradotto in termini matematici significa che il prodotto tra la massa fluida presente nell'orbe e il quadrato della velocità dell'orbe stesso dovesse rimanere costante. Ma la materia presente negli orbi è proporzionale alla circonferenza dell'orbe stesso, e quindi, in definitiva, proporzionale ai raggi. Ma, per la circolazione armonica, le distanze dal Sole sono proporzionali agli inversi delle velocità degli orbi. Dalla cinematica è noto che la circonferenza (intesa come cammino) è proporzionale al tempo periodico per la velocità. Ma la velocità al quadrato, se si considera mv2 costante nei vari orbi, è proporzionale all'inverso del raggio. Quindi componendo tutte queste si ottiene che kr = vT, ovvero

v = kr/T . Ma se r = h/v2 (con h costante) otteniamo che r = h/(kr/T)2 , che dà wr3 = T2 (con w costante), che è esattamente la terza legge di Keplero.

Questo ragionamento contiene, dal mio punto di vista, inesattezze formali e sostanziali. Dal punto di vista formale non è accettabile porre contemporaneamente r = k/v e r = h/v2 (con h e K sempre costanti) se non in una circonferenza, ma, dal momento che i pianeti si muovono in ellissi, questo non è accettabile; dal punto di vista sostanziale si presuppone che la densità del fluido etereo debba diminuire con l'aumentare del raggio, mentre è molto più plausibile, a causa della forza centrifuga che spinge le particelle d'etere verso l'esterno del vortice, che questa aumenti.

In generale non ci sono altre questioni di primario interesse per il discorso qui sviluppato. Come è stato detto, lo scopo del saggio era duplice, quindi l'autore lo divise in due parti: una prima dove corresse un errore di calcolo commesso nel Tentamen del 1689, ed una seconda dove, oltre a cercare di includere la terza legge di Keplero nella sua teoria, argomentò in risposta alle critiche ricevute (a dire il vero quasi tutte venute da ambienti inglesi) ed espose dettagliatamente come le evidenti regolarità che presenta il sistema solare potessero essere interpretate come indizi della validità della teoria da lui proposta. A proposito della legge di Keplero, non c'è da stupirsi se il tentativo non sia riuscito, in quanto le due leggi non sono perfettamente compatibili tra di loro: Newton partì dalla terza legge e concluse che le velocità trasversali dei pianeti erano proporzionali all'inverso della radice della distanza dal Sole, Leibniz partendo dalla seconda stabilì che le velocità trasversali erano proporzionali agli inversi delle distanze dal Sole. Queste due velocità sono conciliabili, ancora, solo nel caso di orbite perfettamente circolari. Le regolarità che Leibniz portò a prova della sua ipotesi sono invece quelle già citate in precedenza. Le potremmo riassumere così: prima di tutto l'orbita dei pianeti giace sempre approssimativamente in un piano, l'eclittica; i pianeti ruotano attorno al Sole tutti nello stesso verso; i satelliti dei pianeti principali hanno il piano dell'orbita poco discosto da quello dell'eclittica; anche i satelliti ruotano attorno ai primari nello stesso senso che questi al Sole. Effettivamente tutto questo può apparire come il chiaro segno di una non casuale disposizione, il sintomo della presenza di una causa che accomuna tutte queste cose, e Leibniz effettivamente era convinto di ciò.

Resta però il dubbio di una non approfondita analisi dei fatti, che mette in luce la presenza di particolari trascurati di questa spiegazione, seppur suggestiva e ricca di spunti di indagine. Vediamone alcuni. Prima di tutto, anche se è vero che i pianeti allora conosciuti orbitano sul medesimo piano, questo non è vero per Plutone il cui piano dell'orbita è inclinato di circa 30 gradi su piano dell'eclittica. I satelliti dei pianeti principali, che orbitano pure quasi sul piano dell'eclittica, lo fanno però in un modo, ovvero nello stesso senso dell'orbitare dei pianeti principali, che contravviene all'aspettativa. A rigor di logica ogni pianeta principale dovrebbe essere circondato da un vortice ad esso pertinente, che ruotando dovrebbe portare attorno al pianeta i suoi satelliti. Orbene questo vortice secondario, poiché la velocità relativa tra lui e il vortice principale del Sole è maggiore nella zona più vicina al Sole stesso, dovrebbe ruotare nel senso contrario all'orbitare del pianeta, e con questo portare i satelliti dalla stessa parte. Alla stessa maniera anche i pianeti dovrebbero ruotare attorno al proprio asse, per la stessa ragione, nel senso opposto a quello di rivoluzione, ma la Terra fa evidentemente il contrario. Sempre in base allo stesso ragionamento i pianeti dovrebbero ruotare attorno ad un'asse all'incirca perpendicolare al piano dell'eclittica, mentre, sempre la Terra, ruota attorno ad un'asse inclinato di 24 gradi sull'eclittica. Se poi i pianeti principali non possiedono un loro proprio vortice, allora i satelliti dovrebbero essere prima o poi trasportati dalle correnti del vortice solare in orbite svolgentesi attorno al Sole stesso, cosa che non succede. Ma lasciamo queste considerazioni speculative, basate su fatti che Leibniz non poteva conoscere, e che non gli possono quindi essere imputati, per tornare ai fatti storici.

6. Epilogo

I lettori si aspetteranno che Leibniz, avendo molto a cuore queste questioni, si sia dedicato ad una loro ampia diffusione presso la comunità scientifica. Nei fatti invece il notevole eclettismo del nostro fece in modo che i suoi interessi si rivolgessero ad altro. Già da qualche tempo Leibniz si dedicava alla stesura di saggi molto importanti, che assorbivano molto del suo tempo; i suoi interessi principali restavano pur sempre la politica e la diplomazia. In quegli anni infatti divenne consigliere dello zar, anche se avrebbe voluto seguire il suo principe alla corte di Londra: non dimentichiamoci che la sua opera diplomatica di molti anni prima ottenne il risultato di far sedere sul trono d'Inghilterra uno degli Hannover. Ma la sorte aveva decretato che gli ultimi anni non dovessero essere fruttuosi dal punto di vista scientifico. In quel periodo, oltre ai "Nuovi saggi sull'intelletto umano", Leibniz compose la Teodicea, che rappresenta il suo capolavoro, anche perché in realtà è una delle poche opere che abbiano ricevuto una notorietà universale. Entro poco tempo sarebbe scoppiata la fase più violenta della disputa sul calcolo infinitesimale, che raggiunse anche il suo livello minimo di dignità, con colpi bassi e scorrettezze indegne della statura intellettuale dei protagonisti. Oramai sulla settantina, era vinto dai dispiaceri; la morte della principessa Carlotta l'aveva provato nell'animo, la gotta aveva minato il suo corpo. Non c'erano più le energie intellettuali per continuare ad impegnarsi. Qualche anno più tardi la morte appiattirà ogni divergenza, lasciando che il tempo decretasse il vincitore della battaglia; ma, come spesso succede, la vittoria di un contendente non significa la scomparsa dell'altro. Leibniz, che si era battuto a favore della causa meccanicista, lasciò ai posteri un bellissimo tentativo di spiegazione razionale dell'universo tutto, un'opera che avrebbe meritato ben altra notorietà. La stessa sorte subirono altri che, seguendo la strada aperta da Leibniz, tentarono di spiegare il mondo in un modo più intelligibile, non volendo attendere che 'venisse la fede', una fede che essi ritenevano superflua, fondando il loro ragionamento su basi razionali..., ma questa è già un'altra storia.

 

Ringraziamento - Il presente lavoro riassume una parte delle mie ricerche attorno al nascere della moderna concezione dell'universo. Esse non sarebbero state possibili senza il prezioso e competente aiuto datomi dal Prof. Marco Mamone Capria, che ha fattivamente contribuito al loro svilupparsi. Colgo qui l'occasione per ringraziarlo pubblicamente.

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Alessandro Moretti è nato a Città di Castello nel 1970. Laureato in Matematica, ha discusso una tesi della quale il testo qui pubblicato costituisce una breve sintesi. Attualmente lavora nel campo dell'informatica, ma la storia della scienza rimane il suo interesse culturale principale. Recentemente ha collaborato alla pubblicazione del volume Cartesio e i vortici del dubbio, a cura di Lino Conti e Marco Mamone Capria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999.

E-mail: sigfridooffeso@libero.it