[Quella che segue e' una nuova versione dell'articolo precedentemente pubblicato, nella quale e' stata revisionata - in virtu' di una segnalazione del Dott. Antonio Socci, che qui si ringrazia vivamente - la parte finale, laddove si discuteva dell'Immacolata Concezione, riferendola impropriamente alla nascita di Gesu', e non della stessa Maria
UB - 21 maggio, 2001 ]
Una nota a proposito del significato
della Primavera di Botticelli
(Franco Baldini)
"La Primavera, in special modo, è rimasta un enigma."
Edgar Wind
Voglio innanzitutto dichiarare che lo scritto seguente non ha alcuna pretesa: non essendo né uno storico né un critico dell'arte non possiedo gli strumenti necessari a conseguire in merito alcun tipo di certezza, né posso affermare di aver approfondito l'argomento nella misura che richiederebbe.
Tuttavia - poiché è generalmente ammesso dagli specialisti che il significato della Primavera di Botticelli conserva aspetti non chiari - svolgo qui, su sollecitazione dell'amico prof. Bartocci, alcune considerazioni che, per le novità che contengono, potrebbero essere in qualche modo utili a chi volesse indagare ulteriormente il problema.
Tradizionalmente - come riferisce Edgar Wind nel suo La Primavera di Botticelli - a partire dalla destra del quadro per chi guarda, i personaggi sono identificati con la sequenza Zefiro - Chloris - Flora, secondo una citazione dai Fasti di Ovidio quasi certamente portata a conoscenza del pittore dal suo amico Poliziano; le figure centrali con Venere e Cupido; poi vengono le tre Grazie e infine Mercurio. Non credo si possa dubitare che l'identificazione del primo terzetto sia esatta: come si può vedere, rispecchia i versi di Ovidio in modo assolutamente fedele.
"Ora chiamata Flora, ero in realtà Clori: la lettera
greca del mio nome fu guastata dalla pronuncia latina.
Ero Clori, ninfa dei campi felici dove hai udito
che in passato ebbero la loro dimora uomini fortunati.
Dire quale sia stata la mia bellezza, sarebbe sconveniente
alla mia modestia: ma fu essa a trovare come genero per mia madre un dio.
Era primavera, vagavo; Zefiro mi vide, cercai di allontanarmi;
m'insegue, fuggo; ma egli fu più veloce.
E Borea, che aveva osato rapire la preda dalla casa di Eretteo,
aveva dato al fratello piena licenza di rapina.
Tuttavia fa ammenda della violenza col darmi il nome di sposa,
e nel nostro letto non ho mai dovuto lamentarmi.
Godo d'una eterna primavera; è sempre splendido l'anno,
gli alberi hanno sempre le fronde e sempre ha pascoli il suolo.
Possiedo un fiorente giardino nei campi dotali,
l'aria lo accarezza, lo irriga una fonte di limpida acqua:
il mio sposo lo ha riempito di copiose corolle, e ha detto:
"Abbi tu, o dea, piena signoria sui fiori"
Spesso io volli contare le loro specie,
ma non vi riuscii: il loro numero superava il conteggio."
Ora, questo si accorda straordinariamente bene - anche nell'integrazione dinamica delle immagini - con l'identificazione della sequenza Zefiro (vento primaverile), Chloris (il verde primaverile), Flora (lo schiudersi dei fiori che segue la verdura). Mi pare obbiettivamente difficile poter mettere in dubbio questa identificazione delle tre figure.
Tuttavia ciò pone un problema abbastanza grave relativamente all'unità formale della composizione. A quei tempi, questa dipendeva costantemente da un'unità semantica (quasi sempre letteraria) sottostante. Ora, se si identifica la figura femminile al centro con Venere, non si vede bene quale possa essere questa unità. Infatti, se è vero che nel mito e nella favola si trova di che collegare semanticamente tra loro le figure di Venere, Cupido, le Cariti e Mercurio, non vi si trova invece nulla che riallacci Venere all'episodio narrato da Ovidio.
Faccio notare che la figura femminile centrale è palesemente incinta: se è vero che le donne di Botticelli hanno tutte il ventre un po' arrotondato, questa lo ha in modo assai più marcato delle altre, cosa fortemente sottolineata dal panneggio della tunica e del manto. Si tratterebbe dunque più precisamente di trovare, nella letteratura accessibile a Botticelli, qualcosa che riallacci una qualche gravidanza di Venere alla favola di Flora: altrimenti l'interpretazione tradizionale rimane segnata da un fastidioso iato semantico.
A mio avviso ciò è imperativamente richiesto anche dalla struttura stessa della composizione. Pur essendo in questo campo un profano, nemmeno io fatico a vedere che, se vi si elimina la figura di Mercurio, il quadro trova una perfetta simmetria: ai lati due gruppi di tre figure e al centro due figure sovrapposte lungo l'asse verticale mediano. Questo insieme, essendo formalmente unitario, deve esserlo anche semanticamente. Ma il problema è, appunto, che non si sa quale rapporto semantico ci sia tra Venere e il gruppo Zefiro - Chloris - Flora. L'unica figura che non è formalmente unita alle altre - o lo è solo secondariamente, a causa dell'inquadramento generale della composizione - è quella di Mercurio: è quindi la sola che potrebbe godere di una certa qual autonomia semantica. Si noti che, se considerata a sé, anche la parte che contiene Mercurio è simmetrica, naturalmente su quell'unica figura: la rappresentazione è cioè divisa in due parti in sé simmetriche che, giustapposte, creano un'asimmetria formale. Quest'ultima è poi corretta metricamente perché il quadro non risulti completamente sbilanciato, nel senso che lo spazio materiale concesso alle tre figure all'estrema destra è un po' più esteso di quello concesso alle tre Grazie, ma non tanto da riassorbire del tutto l'asimmetria. Si potrebbe anzi dire che, abbellendola, Botticelli la sottolinea.
A causa di quanto precede, gli aspetti formali del quadro dicono chiaramente - secondo me - di due sensi distinti e conchiusi in se stessi, che l'artista pone in relazione tra loro.
Ora, la difficoltà dell'interpretazione tradizionale - che, come ho detto, riunisce semanticamente Venere, Cupido, le Cariti e Mercurio mentre ne lascia separati Zefiro, Chloris e Flora - sta proprio nel fatto che non rispetta minimamente la struttura formale in quanto la scissione semantica del quadro che essa propone non vi trova corrispondenza.
Infatti la scissione formale tra le due simmetrie è:
mentre quella semantica proposta dall'interpretazione tradizionale è:
il che non solo non si accorda assolutamente con la struttura formale, ma la rende anche incomprensibile.
C'è tuttavia - secondo me - un'altra lettura possibile, molto più interessante e adeguata in quanto si accorda benissimo con quanto abbiamo detto in precedenza. Si tratta di una lettura talmente ovvia e facile, da rendere assolutamente incredibile il fatto che non sia mai stata presa in considerazione.
Assumiamo dunque come certo che le tre figure sulla destra per chi guarda siano Zefiro, Chloris e Flora, le quali esprimono una citazione dai versi 195-214 del quinto libro dei Fasti di Ovidio: non ne è mai stata data un'interpretazione che potesse anche lontanamente competere con questa. Ora, per giungere alla corretta interpretazione di tutto il gruppo che nella composizione è simmetricamente a sé stante, basta continuare a leggere Ovidio, anche dopo il verso 214. Infatti, ai versi 219-220 leggiamo:
"E subito giungono le Càriti, e intrecciano ghirlande
e serti destinati a cingere le loro celesti chiome."
Dunque, nello stesso contesto del lungo monologo di Flora, noi troviamo le Grazie, costituenti appunto il trio che nella composizione fa da contrappeso a quello formato da Zefiro - Chloris - Flora.
E non è tutto, perché, se continuiamo a leggere, ai versi 229-256 noi troviamo quanto segue:
"Persino Marte, se lo ignori, fu generato per opera mia:
ma prego che Giove non lo sappia, come non lo seppe finora.
La sacra Giunone, essendo nata Minerva priva di madre,
si dolse che Giove non avesse avuto bisogno di lei.
E andava per lamentarsi con Oceano dell'azione dello sposo;
affaticata dal cammino si fermò presso la nostra soglia.
Appena la vidi, dissi: "O Saturnia, che cosa ti ha spinto fin qui?"
Ella mi espone verso qual luogo si dirige,
e aggiunge il motivo. Io cercavo di consolarla con parole amiche.
"Il mio affanno", dice, "non si può consolare con parole.
Se Giove è diventato padre senza congiungersi con la sposa,
e da solo si è appropriato del nome dell'uno e dell'altra,
perché io devo disperare di essere madre senza marito,
e di partorire restando casta, senza virile contatto?
Proverò tutte le misure esistenti sulla vasta terra,
a costo di esplorare fin i mari e gli abissi del Tartaro."
Ero sul punto di parlare; ma avevo il volto di chi esita.
Mi disse: "Non so cosa, o ninfa, ma mi sembra che tu possa qualcosa".
Tre volte volli prometterle aiuto, ma tre volte la lingua s'arrestò:
l'ira di Giove era la grande ragione del mio timore.
Disse: "Aiutami, ti prego: il soccorritore rimarrà segreto,
e mi sarà testimone il dio della palude stigia".
"Ciò che chiedi", risposi, "lo darà un fiore che mi giunge
dai campi olenii; esso è unico nei miei giardini;
chi me lo ha dato disse: "Se tocchi con esso una giovenca sterile,
diverrà madre": la toccai e senza indugio diventò madre."
Subito con il pollice colsi il fiore ben radicato; con esso
tocco Giunone, ed ella nel grembo toccato concepisce."
Alla luce di quanto precede, che cosa impedisce di riconoscere - nella donna al centro della composizione, che è in evidente stato di gravidanza - la dea Giunone, resa incinta di Marte ad opera di Flora? La fonte della sua identificazione con Venere è infatti Vasari, ed è soltanto a causa della sua autorità che - secondo me - nessuno l'ha mai messa in discussione nonostante i notevoli problemi che suscita. Occorre tuttavia osservare che Vasari, nella sua Vita di Botticelli, non è sempre attendibile: non solo attribuisce al pittore un quadro non suo ma lo dice "piagnone", ossia savonaroliano, e lo destina a una vecchiaia di infermità e di stenti: tutte affermazioni che sono state poi dimostrate false.
Secondo me la dama in questione è Giunone, non Venere. Infatti Iuno era sempre rappresentata con un aspetto dignitoso e calmo, proprio come la nostra dama. I Matronalia, festa in suo onore, dedicata al risveglio della natura e alla fertilità dei campi, degli animali e delle donne, si tenevano alle Calende di Marzo, cioè all'inizio della primavera. Il nome "Iuno" poi deriva da "iun-", forma sincopata di "iuven-", contenendo dunque l'idea di "forza vitale", "giovinezza".
La dea è già incinta di Marte, dio non solo della guerra ma anche preposto alla tutela delle messi, cui era dedicato il mese di Marzo, primo mese della primavera e primo mese dell'anno secondo i latini.
Le tre Grazie - anch'esse menzionate in Ovidio - sono verosimilmente quelle adorate ad Eleusi, ossia Auxò, Tallò e Carpò , nomi che evocano la crescita, il germogliare delle piante e la piena maturità dei frutti. È quindi constatabile una simmetria anche semantica tra Zefiro e Auxò, Chloris e Tallò, Flora e Carpò, spiegata facilmente con il fatto che la sequenza Zefiro - Chloris - Flora è una serie di sviluppo naturale: è il vento tiepido di primavera che aiuta i verdi e teneri germogli (Chloris = chloros = verde pallido) a fiorire. Ora, le tre Cariti - come abbiamo visto - ripetono esattamente la stessa sequenza.
Giunone concepisce "dummodo casta": a mio avviso è per significare questo che Cupido, assente dal brano di Ovidio, viene inserito da Botticelli nella composizione. Egli rivolge la sua freccia verso la Grazia Tallò (Viriditas), quella vergine, che rappresenta appunto la Castità. Così Botticelli figura il desiderio di Giunone. Infatti nel caso in questione la gravidanza non è la mera conseguenza della copulazione, cioè di un desiderio sessuale. Naturalmente, il Cupido in questione è figlio di Venere Urania, non di Venere Pandemia.
Noi vediamo allora che, in questa prospettiva, all'unità formale della parte destra della composizione corrisponde l'unità testuale e semantica di una lunga citazione da Ovidio che costituisce una straordinaria celebrazione della primavera.
Prendiamo ora in considerazione la figura del giovanotto sulla sinistra del dipinto, formalmente fuori simmetria. Questo "in più" formale va letto secondo me nel modo seguente: il quadro è diviso in due parti giustapposte il cui senso si equivale, cioè l'una spiega l'altra, come in una specie di equazione, formale perché semantica.
I calzari alati e il caduceo sono ovviamente sufficienti a identificare il personaggio come Mercurio. Anch'egli è assente dal racconto di Ovidio, tuttavia sappiamo che, per tradizione, era considerato scorta e duce delle Grazie: Botticelli, introducendolo nella composizione, sfrutta dunque la compiacenza di un tópos letterario. Tuttavia, proprio in relazione all'aggiunta di Cupido e Mercurio, dobbiamo sottolineare che Poliziano, nel suo commento in versi ai Fasti di Ovidio - purtroppo perduto - avrebbe potuto averli introdotti, fornendo così già pronta a Botticelli l'intera serie dei personaggi della Primavera.
In luogo del solito petaso, il dio porta un elmo: è l'elmo di Ade, che conferisce l'invisibilità a chi lo indossa, appunto uno degli attributi tipici di Mercurio. Tuttavia, il fatto che il pittore abbia intenzionalmente scelto questa alternativa (rispetto a quella più comune del petaso) non può essere senza significato. Mercurio indossa l'elmo di Ade, dunque è invisibile. L'inventio è semplicemente deliziosa e dimostra, se ce ne fosse bisogno, il genio di Botticelli. L'artista, con questo sottile artificio stilistico ci dice che ci sta facendo vedere qualcosa che ordinariamente non si vede, che ci sta mostrando l'invisibile. Così questa aggiunta, se per un verso turba la simmetria del dipinto, per quest'altro non la turba affatto perché Mercurio c'è, ma come qualcosa che non si dovrebbe vedere. Che cos'è questa cosa?
Cerchiamo di capirlo. Mercurio, i cui piedi sono ben piantati a terra, tende il caduceo verso il cielo, e con l'estremità perfora un nembo. La sua tunica rossa - color del fuoco - è poi decorata da fiammelle che salgono e scendono. Non serve di più per comprenderne il significato: Mercurio il messaggero, instancabile tramite tra terra e cielo, è una bellissima allegoria del fuoco celeste o spiritus mundi (da non confondere con l'anima mundi ), detto anche mercurio celeste o spirituale, che nella filosofia della natura vigente ai tempi era supposto circolare incessantemente tra terra e cielo secondo il ritmo delle stagioni. Ecco quanto ne scriveva Marsilio Ficino nel terzo libro del suo De vita:
"Esso è un corpo sottilissimo, quasi non corpo e già anima, o quasi non anima e già corpo. La sua capacità contiene pochissima natura terrena, un po' di quella aquea, ancor più di quella aerea, ma soprattutto moltissima di quella del fuoco delle stelle (...). Esso vivifica tutto e ovunque ed è il responsabile prossimo di ogni generazione o mutamento."
Questa è tra l'altro la ragione per cui l'acrostico INRI si vide in seguito conferire - oltre all'interpretazione canonica di Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum - quella filosofica e naturalistica di Igne Natura Renovatur Integra. Questo fuoco o spirito celeste era considerato l'agente invisibile di ogni dinamica ciclica nella natura sublunare, ed è perciò che Mercurio porta l'elmo di Ade. La sua figura tesa tra terra e cielo costituisce un tratto verticale: simbolo ben noto dello spirito.
Comprendiamo quindi il senso dell'asimmetria del dipinto: esso è platonicamente diviso in due parti, una che rappresenta il mondo visibile, quello delle manifestazioni e, tutt'al più, delle cause apparenti, l'altra il mondo invisibile, quello delle cause reali.
Mercurio volge le spalle al resto della composizione, non la vede. Le due parti sono tenute assieme unicamente dal loro inquadramento generale nello scenario del giardino terrestre e, al suo interno, dallo sguardo di Tallò, Viriditas, la Castità - proprio quella che Cupido prende di mira - che si appunta su Mercurio.
Vale la pena soffermarsi un attimo sul gioco di sguardi presente nella tela: in essa nessuno guarda nessun altro, eccezion fatta per Chloris, Zefiro, Tallò e Mercurio.
Chloris e Zefiro si guardano l'un l'altro, il loro è un rimando circolare, tutto interno alla parte destra del dipinto, quella che abbiamo detto rispecchiare il mondo visibile.
All'altro lato di questa stessa parte, la Grazia che corrisponde a Chloris - cioè Viriditas - non guarda più all'interno del mondo visibile ma all'esterno, verso Mercurio, ossia verso la parte della tela che rappresenta il mondo occulto, invisibile. Mercurio a sua volta non rivolge lo sguardo a Viriditas ma scruta interrogativamente il nembo celeste, il deus absconditus da cui proviene.
Lo sguardo di Chloris rinvia alla causa immanente, mondana, apparente della propria metamorfosi: Zefiro. Ma anche lo sguardo di quest'ultimo rinvia alla causa apparente e mondana del proprio desiderio: Chloris. Senza il vento tiepido di primavera la verdezza dei germogli non darà mai fiori, ma senza i germogli sui quali agire il vento di primavera resta inefficiente. È questo il rimando circolare tipico del coniugium, dell'amore carnale in cui l'uno dei due attori rimanda all'altro come causalità sensibile del proprio atto.
Dal lato di Viriditas (Castità), invece, le cose stanno diversamente: il rimando di sguardi non è circolare ma va dalla condizione apparente del concepimento (Castità) alla sua causa occulta e prossima (spiritus mundi), da questa a quella occulta e prima (Dio).
Ciò secondo me esprime l'idea che la castità, in quanto condizione paradossale del concepimento, necessita di un ricorso a una qualche causa invisibile dello stesso. Non può esserci concepimento assolutamente casto: Iuno è casta solo apparentemente, nel mondo visibile, non in quello invisibile. Ecco perché Viriditas guarda Mercurio: riconosce in lui la causa occulta del concepimento di Giunone. Con lo sguardo, la condizione visibile del rinnovamento della natura rinvia alla sua causa occulta. E se Mercurio non guarda, non vede il resto della composizione, è proprio perché ne rappresenta la causa fisica, naturale, non intenzionale, dunque inconsapevole. Solo per coloro il cui sguardo è prigioniero del mondo delle apparenze può esservi concezione casta, immacolata, ma per colui che si spinge a scrutare anche il mondo invisibile, il filosofo platonico, essa non lo è affatto: soltanto, avviene attraverso un meccanismo sottile, che sfugge alla presa dei sensi.
Ma vi è da notare un'ultima magnifica cosa: il resto della composizione, escluso Mercurio, è disposto secondo la forma di un triangolo con un vertice rivolto verso l'alto (i vertici sono costituiti da Zefiro, Auxò e Cupido): questo era allora proprio il simbolo grafico del fuoco. Così Botticelli, accostando Mercurio al resto della composizione, eguaglia il tratto verticale al triangolo, lo spirito al fuoco, affermando che il fuoco è lo spiritus mundi reso visibile e testimoniando ulteriormente, per chi sapeva leggere la sua cifra, della propria segreta fede ermetico-origenista nella palingenesi.
È qui necessario ricordare che il Rinascimento fu percorso da uno stranissimo dibattito, a tratti anche molto acceso, che verteva su una singolare questione: "Origene ha potuto avere la salvezza eterna o no?". Origene fu un padre della Chiesa del quale alcune tesi furono rigettate come eretiche. En gros, egli aveva compiuto un'affascinante sintesi cristiana tra idee tipiche del neoplatonismo e idee tipiche dello stoicismo. In particolare credeva nella rigenerazione periodica dell'universo attraverso il fuoco e nella trasmigrazione delle anime: come si vede, qualcosa di molto prossimo alle tesi sostenute da Ermete Trimegisto e tradotte da Ficino. Quale migliore esempio per l'intellighenzia ficiniana, che considerava il cristianesimo semplicemente come la sintesi e il compimento di tutte le antiche religioni? Ciò fece sì che gran parte della migliore cultura rinascimentale fosse origenista (anche se non sempre apertamente). Il dibattito che se ne produsse avrebbe dovuto essere il logico preliminare - ovviamente nel caso che la tesi della salvezza di Origene fosse stata accettata ufficialmente - ad autorizzare un origenismo esplicito, dichiarato, come forma cristiana dell'ermetismo.
In Firenze, la rinascita di Origene comincia proprio ai tempi di Botticelli, ad opera di Matteo Palmieri e Leonardo Dati, in un clima di estrema segretezza, pur avendo entrambi manifestato la volontà che le loro idee fossero rese pubbliche dopo la morte. Palmieri morì nel 1475 e il suo poema origenista - Città di vita - fu esposto in pubblico con grandi lodi. Nel 1475 un'edizione delle Omelie di Origene fu pubblicata in appendice ai sermoni di S. Gregorio. L'Accademia platonica adottò Origene apertamente e Ficino ne lodò assai le opere. Nel 1486 l'impetuoso Pico della Mirandola, nelle sue Nonagentae conclusiones , ribadì la tesi relativa alla salvezza spirituale di Origene: questa fu contestata, insieme ad altre, da un comitato inquisitoriale e il libro venne messo all'indice.
Il 1478 - probabile anno di composizione della Primavera - s'inserisce dunque in un momento storico in cui le tesi origeniste cominciano a diffondersi tra gli intellettuali e nello stesso circolo frequentato da Botticelli: si può dire senz'altro che vi costituiscono uno degli argomenti à la page. Ora noi sappiamo che Botticelli - definito da Vasari "uomo sofistico" - fu sospettato in vita proprio di origenismo. Se Vasari, senza argomentare, mostra di non credere a tale accusa, in modo molto più persuasivo Wind attira la nostra attenzione su un fatto illuminante:
"Nella Cappella Sistina, Botticelli raffigura la Tentazione di Cristo e la Guarigione del lebbroso come parti di un grande ciclo biblico centrato sull'ospedale di Santo Spirito, una fondazione patrocinata da Sisto IV. Con questa allusione topografica si intendeva certamente fare omaggio al papa, ma ciò non spiega quale rapporto esista tra la Guarigione del lebbroso e la Tentazione di Cristo, o tra questi due episodi e il Santo Spirito. Ebbene, in un'omelia di Origene questi tre temi sono fusi in uno."
Se si può dunque attribuire a Botticelli almeno un dipinto di ispirazione origenista, come non pensare che quest'ultima possa esser presente in altri? Dato lo sfondo culturale, difficilmente si può ammettere che questo possa esser stato per lui un tema di riflessione solo occasionale.
In relazione al possibile origenismo della Primavera, vi è un altro dato da ricordare: circa due anni prima della sua composizione, dunque nel 1476, Sisto IV introdusse ufficialmente la festa della Concezione di Maria nel Calendario romano. Benché un pronunciamento definitivo sulla assai vexata quaestio dell'Immacolata Concezione dovesse attendere fino al 1854, era comunque un passo importante verso la proclamazione del dogma. Il dibattito in merito datava da gran tempo e, in quel periodo, era vivissimo, tanto che lo stesso Sisto IV, nel 1483, dovette addirittura minacciare di scomunica chi, in una delle due fazioni, accusasse di eresia gli appartenenti all'altra. Ora, uno dei padri della Chiesa che veniva invocato sovente dagli oppositori di questo specifico privilegio mariano era proprio Origene, il quale aveva ritenuto che Cristo fosse morto anche per i peccati di Maria.
A questo punto, credo di aver raccolto materiale sufficiente per leggere il quadro secondo i quattro sensi che venivano allora regolarmente inclusi in ogni opera d'arte, che fosse letteraria o figurativa, e che Dante codificò nel De vulgari eloquentia.
Il senso letterale - primo senso da cui tutti gli altri dipendono - consiste in una lunga citazione letteraria tratta dalla rielaborazione polizianesca dei Fasti di Ovidio, oppure dai Fasti stessi. Le due figure aggiunte alla narrazione - quelle di Cupido e Mercurio - sfruttano dei tópoi letterari assai comuni, perfettamente concessi dal contesto, ma che tuttavia aggiungono aspetti semantici in esso non contenuti.
Al secondo livello il quadro è ciò che si sa da sempre: un'allegoria della primavera. La sequenza Zefiro - Chloris - Flora - Iuno - Casto concepimento di Marte - Grazie - Mercurio significa il rinnovamento della natura, la cui causa occulta (il suo agente invisibile) sta nella discesa stagionale dello spiritus mundi.
Il senso morale esprime allora, coerentemente, la teoria ficiniana dell'amore spirituale, come mezzo attraverso cui l'uomo, e al limite la natura tutta, può deificarsi. A Ficino il desiderio di Giunone di partorire "dummodo casta", al pari di Giove, non deve essere apparso affatto come un desiderio invidioso, bensì come un'emulazione di Dio che non poteva mancare di avere effetti spiritualizzanti.
Anagogicamente invece - cioè, con le parole di Dante, riguardo "le superne cose dell'etternal gloria"- è probabile che tutto ciò esprima pittoricamente la sofisticata opinione ficiniana rispetto al problema teologico generale costituito dal cosiddetto "primato mariano", inteso come l'insieme delle più o meno dirette implicazioni (quali appunto Immacolata Concezione, concepimento in stato verginale, mantenutosi anche successivamente alla nascita del Cristo, etc.) di un unico evento fondamentale, vale a dire una nascita senza unione sessuale - perno, assieme alla resurrezione, della fede cristiana. Non sono riuscito ad accertare quale possa esser stata effettivamente l'opinione di Ficino in merito ma, sulla base di quanto so delle sue idee, tendo a ricostruirla come segue. Nella sua paradossale posizione di "eretico cattolico", anche qui egli deve essersi sforzato di conciliare tesi opposte. Io penso che egli né accettasse né respingesse le tesi di entrambi i partiti, ma le situasse su due piani differenti e ciò gli consentisse da una parte di non rinnegare il suo amato Origene, dall'altra di non rifiutare del tutto l'idea di una "venerazione mariana". Infatti, seppure egli possa ben aver teso a dar ragione a Origene nel caso particolare, è lecito supporre che abbia ritenuto genericamente opportuno introdurre (accrescere) detta venerazione, in quanto al suo aspetto veramente essenziale, dal quale tutti gli altri dipendono, ovvero una maternità senza alcun intervento maschile. Ma tuttavia, nel suo modo tipico - attraverso la testimonianza ovidiana, e ancora una volta origenianamente - egli deve avere considerato questa credenza vera solo allegoricamente, come la cristianizzazione di un mito pagano da riferirsi all'innocenza (anti-manicheismo) della natura e al suo rinnovamento annuale, in una visione platonico-naturalistica della mariologia che, se fosse stata esposta apertamente, avrebbe certamente attirato su di lui gli strali della Santa Chiesa.
Da buon allievo di Ficino, Sandro Botticelli ci illustra insomma - con la discrezione che la prudenza poteva suggerire a quei tempi - un punto particolare della riflessione filosofica professata in modo discreto dai componenti dell'Accademia dei neoplatonici fiorentini, per i quali l'uguaglianza di tutte le religioni era proprio costituita nel loro render percettibili per il volgo delle verità naturali universali e impercettibili.
Naturalmente non sono sicuro della mia interpretazione e non intendo certo combattere battaglie in sua difesa: mi limito ad offrirla al giudizio degli specialisti segnalando che rispetto a quella tradizionale ha, ai miei occhi, indubbi vantaggi:
- innanzitutto essa rende scrupolosamente conto della struttura formale del dipinto;
- è perfettamente compatibile con il pensiero generalmente espresso dai membri dell'Accademia Fiorentina, di cui Botticelli faceva parte;
- spiega l'enigmaticità del dipinto con il suo esprimere discretamente un'opinione molto complessa e delicata su un tema allora assai controverso;
- conferma, prolungandolo, gran parte del migliore lavoro esegetico fatto dagli specialisti.
[Non ho ritenuto necessario procurare una vera e propria bibliografia per un lavoro così modesto. Tuttavia non posso esimermi dal riconoscere che mi sono basato in modo massiccio sul magnifico saggio di Edgar Wind La primavera di Botticelli, contenuto in Misteri pagani nel Rinascimento (Adelphi); per la questione dell'origenismo rinascimentale ho anche utilizzato l'eccellente scritto del medesimo autore La rinascita di Origene, contenuto in L'eloquenza dei simboli (Adelphi); ho citato Ovidio nella traduzione di Luca Canali per la BUR e Ficino dalla classica edizione di Basilea del 1576. Tutti gli altri riferimenti li ho dati a memoria: spero di non essere incorso in lapsus catastrofici.]
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Franco Baldini è nato a Piacenza nel 1953. Psicanalista di formazione e presente da oltre un ventennio sulla scena internazionale, è attualmente direttore scientifico della Scuola di Psicanalisi Freudiana. Ha tenuto conferenze, corsi e seminari in varie Università europee e nordamericane. Ha pubblicato una cinquantina di saggi in italiano, tedesco, francese e inglese su temi che vanno dalla metodologia all'epistemologia, dalla clinica all'antropologia. Nel 1995 - con il saggio Freud's line of reasoning - ha ottenuto il notevole risultato di dimostrare, contro un pregiudizio durato oltre sessant'anni, come il metodo clinico freudiano sia in realtà una forma molto sofisticata di falsificazione di asserti teorici deboli, ottenuta con l'impiego originale e pionieristico di una forma di negazione oggi impiegata, nel campo della Computer Science, sotto il nome di "negation as failure". Attualmente lavora a una costruzione dell'oggettivita' psicanalitica in chiave neokantiana e all'integrazione tra psicanalisi e neuroscienze, oltre a dirigere un gruppo di ricerca sulla formalizzazione fisico-matematica della metapsicologia freudiana. E' appassionato da sempre di enigmi storici, scientifici e artistici: in questo ambito ha studiato con particolare attenzione l'alchimia antica e classica in quanto matrice della moderna scienza sperimentale.
E-mail: f.baldini@thelema-spf.org