Avvicinandomi a Wittgenstein…

(Euro Roscini)

 

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Ho la sua Prefazione sotto gli occhi.

Non mi trovo in accordo, da subito, con la frase/chiave che vuole riassuntiva dell'intero 'Trattato': "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere."

A parte la cacofonia delle ripetizioni può e si può/si può, detto e dire e con due ciò in così breve spazio (una ventina di parole); a parte l'ambiguità banale (probabilmente da illetterato che è) tra dire e parlare, e l'istanza deontologica (si deve) che sbilancia la frase, chiudendola brutalmente - a parte... (ché, se del caso, avrebbe dovuto esprimersi: 'tutto ciò di cui si può parlare, va detto chiaramente, e quanto non può esser detto va taciuto').

Ho l'impressione che tagli/che spezzi. E neppure tanto di netto. Da un lato l'espressione/linguaggio chiaro (possibilmente?) e dall'altro l'espressione/linguaggio taciuto (dignitosamente?): il primo legittimo nella sua concretezza (forse), il secondo abusivo nella sua astrattezza (forse).

Come se avesse voluto sputare la sentenza: se sai di che parlare, fallo e il più possibile chiaramente; se no stai zitto, ché fai più bella figura. Ma non voglio pensare neppure un attimo che sottintenda a questo logoro suggerimento screanzato, no!

Comunque non mi sembra, da questa sorta di auto/presentazione telegrafica, che sia quel pensatore a tutto sesto che molta cultura del mio tempo erige quasi a fondatore della nuova chiarezza (logica?).

2

La chiarezza dell'espressione dei pensieri (perché questa egli intende e dirà immediatamente dopo) è - secondo me - un miscuglio di fatalità, tendenza e specificità.

È fatale perché non è idealizzabile, progettabile, programmabile. E tendente perché continua, progressiva, infinita (di questo, in particolare, dirò appresso).

Soprattutto, essa/chiarezza, è specifica perché relativa a chi pensa/parla/scrive (non semplicemente che dice). In più al suo luogo e al suo tempo.

Ogni uomo consapevole - cioè - esprime più/meno chiaramente i suoi pensieri, a seconda che pensi soltanto (per se stesso?), o pensi/parli (a chi?) o pensi/scriva (per chi?). E ovviamente in ragione del luogo geografico e del tempo storico in cui si colloca di volta in volta.

Dal canto mio, ho voglia soltanto di godere - possedendola! - di altra più dilatata chiarezza espressiva appena ne raggiungo/ne conquisto una qualsiasi che m'illumini, illuminandomi dall'alto. E se qualcuno mi commenta dietro che le mie espressioni, avendole pur scelte, avrei potuto sceglierle più chiare oppure tacerle, ribatto che no: che ho soltanto provato, giuocato, ingannato me stesso e l'aria che mi circonda - ovvero finto di sceglierle. Pur tuttavia arrampicandomici, sudando e logorandomici su di esse/con esse tanto da morirne.

Voglio dire - un uomo come son io finisce col vivere la propria chiarezza mentale come pelle, istintivamente, con passione e libidine. Almeno il più delle volte. E l'omuncolo che mi venisse più/meno gratuitamente a fare la 'morale logica', trovandomi surriscaldato, potrei mandarlo di filato a quel paese.

3

Questa sacrosanta tendenza all'espressione migliore, di maggiore chiarezza e sempre più nitida del mio pensiero è simile/analoga a quella a cui - credo - è destinata la mia stessa coscienza.

La coscienza di me si muove, cresce, va verso... (è tuttavia tendenza di ciascuno, vale per tutti, è tragitto che accomuna - questo lo penso con convincimento assoluto)... verso l'infinito. E il concetto d'infinito - non mi venite a dire - riesce ad intuirlo anche un uomo mediocremente intelligente, seppure per poco e nell'infinitesimo di cui è capace.

Io sostengo con forza che ogni uomo tende a proiettarsi in esso. Che chiami poi vita o natura o dio, o l'Immenso, l'Immutabile, il Perfetto; che gli dia il nome immacolato d'un unto, di un santo, di un papa o gli assegni un simbolo geometrico, un numero o altro simbolo (o magari il suo stesso nome/guru di se stesso) - beh, veramente non fa differenza e conta niente.

Anche colui che uccide il suo infinito non agendo/non volendo agire radicalmente la sua funzione trascendente, in realtà sancisce la propria caduta nel vortice del vuoto/del buio/del silenzio senza fine (che però vuole/esige - lo stronzo! - vuoto/buio/silenzio di tutti, universale, meta ineludibile anche dell'uomo diverso da lui; ma questo è altro discorso). Insomma, la nostra proiezione nell'infinito non ha limiti.

Così che procedendo in questa direzione - verso l'infinito - anche la chiarezza attraverso la luce dell'espressione, anche la coscienza attraverso l'espressione della chiarezza si sposta, diviene, asseconda quel verso: da oscura si fa chiara, da meno chiara si fa più chiara; a volte con cadute e ricadute verso l'oscurità. Ma poi, riprendendo, torna in linea col suo percorso verso l'infinito.

In coscienza, credo che Dio stesso non si salvi da questa condizione.

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Che mi viene a dire nel suo tractatus/con la sua praefactio questo filosofo/logico - molto tecnico e molto poco filosofo? Io non so se parlo lo stesso linguaggio logico di lui (che comunque rivendico insieme a quello ana/logico ed in/logico, a pari dignità). Ma con immediatezza spavalda sostengo... - perché sono tridimensionale/perché credo nella Tridimensione che ho scritto/perché il TRE m'illumina di chiarezza stimolandomi a donargli sempre maggiore espressione - ... sostengo le affermazioni seguenti.

1°) Tutto ciò che è chiaro (nel contenuto) non va/non andrebbe mai detto/tanto detto, meno che meno con chiarezza (della forma) perché ovvio e scontato, noioso, sfiancante da ripetere seppure più chiaramente e, se da sviscerare, demoniaco. 2°) Tutto ciò che può essere detto, è lapalissiano che si può dire chiaramente (cioè - suppongo - brevemente/semplicemente, grammaticalmente/sintatticamente, logicamente/lucidamente, concretamente/sensatamente, e sempre che si abbia voglia e attitudine in un preciso momento ad esser brevi, sintattici, sensati, ecc./ecc.). Ma - aggiungo - lo si può dire anche in modo oscuro, ambiguo, oracolistico, devastante, solleticoso, visionario o altro del genere, da farlo sembrare eccezionale, inquietante, seduttivo, bello/brutto ma pregnante o altro del genere. 3°) Tutto quanto è da dirsi di approfondente/di luminoso/di colmante, si deve dire con chiarezza estrema, ossessiva e sviscerata; non si può dire soltanto. 4°) Se l'umanità - immagino - avesse veramente taciuto tutto quello di cui non avrebbe dovuto parlare mai, non ci sarebbe stata né umanità né storia/né evoluzione dell'umanità: ovvero non sarebbe mai accaduto quel divenire per gradi/per tappe, o per fasi, o per cicli e come in progress (io amo dire per brutte copie) di religione, di scienza e di coscienza, qui la politica, lì l'arte, più in là la letteratura, non al centro l'economia, in fondo il viaggio e sopra a tutto l'esperienza che è maestra di vita per l'uomo universale - cioè quel che fa il percorso complessivo/fatale dell'uomo verso quell'infinito di cui sopra.

E poiché questo 'gran logico/filosofetto' introduce fin nella sua formula/divisa l'idea costringente e faticosa di dovere (si deve) legandola/sposandola a tacere, bene, io - cavaliere smarrito e generoso - difendo chi è strutturalmente difficile, o puro, o squadernato, vergine e tagliente, o consunto... Per cui, in aggiunta ai precedenti quattro punti, ne pongo con enfasi altri tre.

5°) 'Si deve' parlare anche oscuramente e 'si può' tacere anche chiaramente! 6°) Tutto ciò che non può essere detto non si deve tacere - anzi! - né chiaramente né oscuramente, e tutto ciò che non deve essere detto si può dire - anzi! - oscuramente come chiaramente! 7°) E quello che non si deve affatto dire si può sempre/comunque logicizzare e quello che si può tacere doverosamente non si deve sempre/comunque poter logicizzare!... (vorrei seguitare).

Questo ed altro, con altre cento inermi affermazioni combinate come le precedenti, lo sostengo perché nel mondo che vivo ha senso e significato la prova, lo sprone, la provocazione, il suggerimento, la difesa, l'esasperazione, il tentativo, la forzatura, il non/senso, lo scivolare nei propri crepacci, la contraddizione, il fracassarsi nei precipizi altrui, il delirio... - tutto ha senso!

Tuttavia non è questo che mi preme.

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La sua formula teoretica non è ternaria. Ma binaria. L'intera frase lo dimostra: morfologia, sintassi, semantica, stile, intendimento, propaganda di sé e quant'altro.

Affermazione e negazione (e il dubbio? - affermo un postulato, lo concreto nel dubbio, per superarlo/negarlo). Dire e parlare (e il pensare e lo scrivere se sono sinonimi?, o soltanto lo scrivere se 'dico' nel senso che 'penso'?). Si può e si deve (e la volontà? - io voglio, dunque devo, perché io possa). Dire/parlare e tacere (e l'osare? - oso fondando, dico/parlo discorrendo/confrontandomi, concludo tacendo/ascoltando a mia volta).

Chiaramente, poi, come avverbio/attributo di ciò che si può dire è contrapposto a ciò che si sottintende che sia l'avverbio/attributo di ciò di cui non si può parlare (qui, oltre tutto, l'ambiguità fondamentale della frase, per cui egli non sarà mai deputato ad introdurre nessun saggio di logica/chiarezza per me).

Si può supporre, ma solo a tentare, in contrapposizione binaria a chiaramente un termine che va dall'irrazionale all'insensato, dall'insensato all'osceno, dall'osceno all'indicibile (tanto è vero che non si dice proprio!).

E in fondo a tutto lo stile.

Chi non si accorge (in una paginetta striminzita che introduce un trattato che "merita per ampiezza, per portata, per profondità - come scrive l'invaghito Bertrand Russell introducendolo a sua volta - di essere considerato un evento importante nel mondo filosofico") di quella sua dicotomia formale, quasi bambinesca, o della scrittura da liceale sguarnito e al limite del patetico, quale "Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire ecc." - eh, chi non se n'accorge?

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Ora, tutta la mia cultura d'appartenenza è ancorata (qui l'ennesima prova miserevole) sul 'due', sulla 'dualità', sul 'binario'.

Essere e divenire (e l'esistere?), soggetto ed oggetto (e il concetto?), mezzo e fine (e il principio?), causa ed effetto (e il corso?), necessità e sufficienza (e il numero?), quantità e qualità (e la natura?), forma e sostanza (e il contenuto?) o contenuto e forma (e la sostanza?), spazio e tempo (e la vita?), mente e corpo (e lo spirito?) o anima e corpo (e la mente?), il femminile e il maschile (e il neutro?), il dio e il demone (e l'uomo?) o l'uomo e il dio (e il nume?), ecc./ecc. All'infinito.

Il binario, rispetto al ternario mi sembra così limitativo, escludente e barbarico da poter stabilire con polso sicuro - io! - l'appartenenza di chi ne faccia uso al novero di quanti, per parafrasare un po' e un po' per plagiare questo Autore rigidino e ragioniere, 'non potendo parlare (di filosofia) dovrebbero tacere'.

Eh sì, la specialità (peggio, specializzazione) del proprio intelletto e quand'anche la genialità non fanno assolutamente, per nessun motivo, il filosofo, mai!

Giacché allora, per lo stesso motivo di eccezionalità/di merito/di bravura, di ambito circoscritto/di regole del giuoco/di maestria nel giuocare, di capacità propria/espressione perimetrale/superlatività indiscussa, se ciò bastasse, a buon titolo, potrebbe essere filosofo, considerarsi tale e magari con sussiego anche un condottiero, un sollevatore di pesi e uno scacchista, oppure un chimico, un giocoliere ed un pittore, oppure un parrucchiere, un centometrista e un matematico...

Ebbene, egli è un semplice matematico!

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Infine, questa formula non è originaria. E la cosa è filosoficamente grave dal mio punto di vista.

Per questo motivo mi accingo a scivolare appena, guardandomi da ogni lato e pronto ad aggrapparmi, da questa prefazioncina allo snocciolamento di poche centinaia di frasi numerate/variopinte, variopinte/ermetiche che vengon dopo, costituenti il corpo del libro. Su cui ho già gettato lo sguardo, curiosando, ma con certa perplessità, timore alquanto e quasi diffidenza.

Non è originaria perché egli si richiama dichiaratamente ad altri: Frege e Russell. I quali sono matematici, di cui lui è allievo (questo la dice lunga). A cui deve gran parte dello stimolo di quanto scrive (questo preannuncia il quadrato e la fortificazione).

Ecco difatti la frase/incipit, di apertura della Prefazione.

"Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili -." Il che equivarrebbe a: oh saggio discepolo, se vuoi esser saggio, ascolta (forse) il saggio maestro!

Fin da queste prime parole riesco a dedurre la dipendenza e l'élite, l'approfondimento filosofeggiato, la chiosa e l'addobbo, il clima accademico/il clima di Cambridge (dove insegna Russell e dove è voluto andare il promettene studente austriaco pure invaghito). Insomma, capisco il punto d'onore - come posso dire? - che l'allievo eletto deve esibire e sostenere di fronte ai suoi maestri: punto d'onore intorno a princìpi, a schemi, a teorie matematiche/cosi maledettamente matematiche (altro che logiche!). Da smaltire per compito - princìpi, schemi, teorie - professionalmente, quotidianamente. E poi magari ringozzarsene nei giorni dei giorni.

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Bene, eccomi a leggere la prima pagina del "Tractatus logico/philosophicus" di...

Mi rendo subito conto di tante cose... Tra queste, dell'onestà che io ho avuto scrivendo da me stesso l'introduzione (non la prefazione) alla mia Tridimensione: cioè l'essermi definito/collocato - anch'io élitario! - come 'uomo comune' tra la razza degli 'uomini di talento' e la razza degli 'imbecilli d'Iddio' (ché almeno in questo senso sì, sono razzista).

Mi fermo a metà pagina - come al solito, come miliardi di altre volte: dal liceo, dall'università; anzi da quando ero adolescente e bambino.

Non credo che procederò più oltre. E il motivo è semplice: non ho la chiave d'ingresso, non conosco il codice, mi sfugge il linguaggio segnico. Mi sento solo, col mio linguaggio, bello ed unico - sguarnitamente solo, ma vergine.

Tuttavia...

Tuttavia un'idea ruffianesca, medianica, devozionale; un'idea che mi intriga, mi rende assonantico, mi metamorfizza per qualche battito; un'idea scimmiesca, un'idea pagliaccia, no: un'idea simbiotica/sinergica/comunistica mi suggerisce... mi suggerisce di provare per qualche riga... di provare uno schema/un metodo, una soluzione giuocata: anch'io, a fargli da pappagallo e da pendant, o da imitatore infimo made/television (magari).

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Meus tractatus in fieri

1 Il mondo è tridimensionale.

1.1 Tridimensionale come alto/lungo/largo, o verticale/orizzontale/laterale... Ma anche pensiero/azione/senso... Soprattutto Logos/Ethos/Pathos!

1.2 Il mondo sono io: sostanzialmente, contenutisticamente, formalmente.

2 Io sono il mio interno/la mia superficie/il mio esterno.

2.1 Il mio interno sono i miei organi anatomici. Ma di più è il mio pensiero, il mio giudizio, i miei stati d'animo. E di più ancora, la mente contenitrice di anima, e ancora massimamente, l'anima contenitrice del mio pezzo di 'dio' incondivisibile (forse il noumeno di me) frammento infinitesimo del Dio originario 'suicidatosi'/frantumatosi nella tridimensione dell'Universo, che Lui volle generare e a cui appartengo.

2.2 La mia superficie è la mia stessa fenomenologia: di me che appaio innanzi tutto a me stesso, e secondariamente agli altri che incrocio/mi guardano/mi considerano... Potrei aggiungere alla mia superficie, inoltre, i miei passi, le gocce di sudore che a volte mi colano (spesso l'estate, dalla fronte principalmente), le lacrime rare che ho versato poco e male nella vita (ma certamente non i corrispondenti stati emotivi, i quali appartengono al mio interno).

2.3 Il mio esterno è tutto ciò che realmente/concretamente/ materialmente (non immaterialmente, spiritualmente, ecc. che appartiene solo al mio interno) esiste/sussiste/ resiste o rovina in ogni direzione a un milionesimo di millimetro dal mio corpo/dalla mia pelle: la formica e la galassia, il bicchiere dal quale vedo bere l'amico e la luna, lo sputo (sputo di rado), il libro, l'orgasmo (innumerevoli); inoltre la voce di me di cui ascolto il suono (non la pregnanza) e soprattutto suoni/immagini/idee di altri che mi sono simili e non simili; poi ancora i paesaggi che vedo (non le mie visioni), le materialità che tocco (non quelle che tocco virtualmente), ecc.

3 Il mio interno, la mia superficie e il mio esterno hanno uguale valenza: cioè gli attribuisco uguale importanza.

3.1 Importanza come valore, bene, interesse, curiosità, riflessione, studio, giudizio, ecc. secondo i casi, le situazioni, le circostanze.

3.2 Ogni valenza d'importanza ha tre modalità: positività/neutralità/negatività.

4 Il mondo diviene/io sono il mondo/io divengo.

4.1 Divenente è un mio giudizio.

4.2 Divenente è il giudizio che do principalmente del mondo/a me stesso/a tutto.

4.2.1 Principalmente implica/sottintende/include una scala di gradazioni di maggiore/uguale/minore importanza, tali da farmi scegliere in determinati casi/situazioni/circostanze quello a cui il termine (nel caso 'principalmente') si riferisce (nel caso 'divenente').

4.2.1.1 Scegliere, in particolare, lo uso/abuso nel senso/significato di preferire, focalizzare, cogliere... Oppure anche amare. Ma altrimenti temere o odiare (mi succede spesso di odiare nel senso di disprezzare).

4.2.1.2 Casi/situazioni/circostanze, le intendo specificamente di riflessione filosofica/filosofeggiante: anzi, prevalentemente.

4.3 Divenente perché io (il mondo) mi muovo/mi modifico/mi trasformo. Divenente perché non sono mai, mentre vivo (penso/agisco/sento) uguale/identico a quello che ero prima o - suppongo - sarò dopo. Divenente perché nell'attimo stesso in cui io dico che 'sono', il mondo/il mio mondo/io stesso 'non siamo più', in quanto divenuti/perché divenuti.

4.4 Divenente come accadente. O succedente. O avvenente (non nel senso di seduttivo, ma spesso anche nel senso di seduttivo). E altri sinonimi dello stesso calibro.

4.4.1 "Qualcosa può accadere (divenire, succedere, avvenire, verificarsi, sopraggiungere, capitare, ecc.) o non accadere e tutto il resto rimanere uguale" - (Tractatus alienus 1.2.1) - è frase sghemba, trasversale, metafisica, oscura, illuminante (alla maniera del lanternino di Diogene), la quale anziché lasciare il tempo che trova, trova il tempo che lascia. Comunque, per me, non seduttiva.

5 Io/divenente sussisto o mi dissolvo?... - ecco un primo punto eventualmente da chiarire, riguardante la sussistenza di ciò che è (io/il mondo) o la sua dissoluzione.

5.1 Il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno, divenendo/non restando/scomparendo formalmente, sussiste/sussistono nella sostanza (e/o nel contenuto) di prima (quale?) o si dissolvono trasformandosi in altro (in che?) o in niente?... - secondo punto/corollario del primo eventualmente da chiarire.

5.2 E dove e quando e perché il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno, nell'attimo stesso che l'ascolto/lo guardo/lo tocco, o l'osservo/lo misuro/lo definisco, o lo valuto/lo giudico/l'assolvo (oppure lo boccio), essendo divenuto altro da sé, sussiste/come? Oppure si dissolve del tutto/come?... - terzo punto/corollario del primo eventualmente da chiarire.

6 Il mio interno e/o ecc. nell'attimo ecc. che ascolto ecc. che osservo ecc. che valuto ecc. è "divisibile in fatti"? (1° punto alquanto irrilevante da chiarire), e questi sono fatti "in spazio logico"? (2° punto alquanto irrilevante da chiarire), e i fatti sono "sussistenze di stati di cose"? (3° punto alquanto irrilevante da chiarire).

6.1 Divisibile vuol dire che si può dividere senza pregiudizio.

6.1.1 Senza pregiudizio, in particolare, vuol dire che ciò che è eventualmente diviso mantiene le sue peculiarità: identità, personalità, coscienzialità...

6.1.2 Divisibile, dunque, più nel senso/significato di analizzare che nel senso/significato di frantumare.

6.1.3 Divisibile come 'che divido mentalmente' (atto inerente al mio interno) o 'che divido realmente' (frantumo).

6.2 Il (mio) spazio logico non comprende/esautora l'intero spazio.

6.2.1 L'intero mio spazio consta di spazio ana/logico, spazio logico e spazio in/logico (in ordine susseguente).

6.3 Nel 99,99 % (forse per mille o per milione) dei casi/situazioni/circostanze che vivo i fatti sono le cose e le cose i fatti - qui non ci piove come nel Tartaro. A meno che un bell'intelletto mi fa degli esempi convincenti di fatti che non son cose e di cose che non son fatti.

6.3.1 E, forse, nello 0,01% (o per mille o per milione) i fatti sono 'facenti' come le cose - qui ci piove come nel Tartaro. Ma allora una delle due...

6.3.1.1 Non ho il tempo infinitesimale di dividere/analizzare (neppure di dividere frantumare), o ascoltare, osservare, valutare, ecc. il facente, perché ho soltanto da starci con esso passivamente/fatalmente il tempo istantaneo che mi usa - il porco!

6.3.1.2 Oppure ci faccio quel che ci ho da fare (a mia volta, sono io il porco); allora - scopro - che non è più facente, ma è fatto/già fatto/irrimediabilmente fatto.

7 Io sono alto/lungo/largo...

ecc. ecc. ecc.

10

Concludendo, dal mio punto di vista tridimensionale ci sono tre modalità di approccio del filosofo sedicente, vero o falso che sia (non parlo dei ragionatori tout court di filosofia o studiosi di filosofia altrui) alla verità/alla ricerca/all'infinito. Che sarebbe interessante focalizzare ed esplicare scientificamente, tecnicamente, dottrinariamente; ma che non faccio perché: 1°) non sono capace, 2°) sarebbe inutile, 3°) non vorrei neppure saperlo fare. Per cui mi limito secondo il mio stile intuitivo/analogico/organico (mi basta e avanza) ad esporle qui di seguito, aggiungerle a queste note come so fare e a mò di 'ite missa est' - la cosa viene da sé.

Supponendo che le piccole verità innumerevoli di cui è cosparsa la mente dell'uomo storico - come siamo - siano i punti infiniti costituenti un'unica grande verità a linea, ipotizzo tre possibili figurazioni di linee.

La prima un segmento: finito, netto, delimitato per definizione dai suoi due estremi. Su di esso uomini come il mio austriachetto trattatista si ficcano, scavano, si seppelliscono; vanno a cercarvi il limite del limite, suddividendo e ri/suddividendo, misurando fino allo spasimo il punto/verità che hanno lasciato un attimo prima (forse perché sanno di trovarsi in una linea chiusa). I quali sono/mi appaiono, nella loro ricerca maniacale, determinati e lucidi, stitici e risparmiatori, aridi e freddi; come d'altra parte affilati nel giudizio, che mirano, con spietatezza. Qui, dentro il loro segmento, questi filosofi di verità/di ricerca/d'infinito elaborano i loro trattati (anch'essi infiniti, eppure ripetitivi), che tendono a sacralizzare ed imporre con autorità a quanti riescono a raggiungere.

La seconda una linea retta: infinita, aperta ai due lati, lunga quanto il mondo. In essa soggetti/individui come sono stato io (soprattutto fanciullo, o quando transitavo più per i banchi stretti del liceo che per i banchi sgangherati dell'università) si muovono a destra e a sinistra, ritornando/procedendo, ora contando svariati punti in una direzione ora cancellandoli/fermandosi/andando in altra direzione. Uomini - questi - improvvisatori e disordinati, furiosi/perdenti, oscillanti/entusiastici, ma al primo vento capriccioso accorati e rinunciatari... (su cui - credo - il sistema di verità che di volta in volta si va edificando, su questo pianeta assegnatoci, fa bene a non dargli la responsabilità e il merito di nessuna pietra fondante). Io, se ancora fossi quello di allora, con questa mentalità finirei con lo scrivere volumi e collane del 'meus tractatus' (e sarebbe sempre 'in fieri' perché una retta) di cui sopra ho dato un minuscolo saggio.

La terza una linea spezzata/chiusa: dal cerchio (che è un poligono infinito) al triangolo, infinitesimalmente angolare o tutt'al meno triangolare, un' 'ò' tonda quanto l'Essere o un triangolo equilatero (non isoscele, non scaleno) come il mio terzo occhio/ occhio interno. Qui, saggi come sono io adesso, dentro/ma non chiusi, variabili/ma disciplinati, illusi/ma non angosciati, soprattutto creativi, conficcano ogni volta ana/logicamente, logicamente e in/logicamente tutti i paletti delle loro verità. Verità infinite e combaciantesi, smesse eppure riprendibili, finite ed illimitate.

Ah questi filosofi (tra cui esigo/voglio/desidero di essere tridimensionale) nella visione/concezione/emozione del loro UNIVERSO - di appartenenza - che va dal cerchio al triangolo!...

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Euro Roscini è nato a Perugia nel 1939. Laureato e giornalista, conduce nella sua città una tranquilla esistenza di funzionario nell'Amministrazione regionale. Sposato/separato/divorziato, ha due figli a cui è legato: Leda e Matia. Dalla pubblicazione di Tridimensione (I edizione, dicembre 1998, presso la Editrice Selecta di Quinto Vicentino, II edizione. novembre 2000, presso Morlacchi Editore) si considera un "filosofo nuovo del III Millennio", contenendo il suo libro la formula/cifra (o schema/teorema) unica/intera/onnicomprensiva di percezione/concezione/visione di sé e dell'uomo, della vita, del mondo e di dio. Scrive da sempre poesie metriche, che recentemente ha raccolto in un'unico volumetto - Alfabeto poetico - di prossima pubblicazione (ancora presso Morlacchi Editore). Come giornalista/pubblicista dirige responsabilmente questa stessa rivista Episteme.

E-mail: roscini@consiglioregumbria.org