Atlantide
un mondo scomparso - un'ipotesi per ritrovarlo
(Alberto Arecchi)
(Ed. liutprand, Pavia, 2001)
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Difficile essere originali su un argomento come quello di Atlantide, dove le ipotesi avanzate nel corso di due millenni si contano a centinaia. Quest'impresa è riuscita ad Alberto Arecchi, che nel suo libro: "Atlantide - un mondo scomparso - un'ipotesi per ritrovarlo", sviluppa una tesi per certi aspetti inaspettata e sorprendente.
Il punto di partenza è analogo a quello di una serie di teorie che avevano avuto largo seguito agli inizi del secolo scorso, con autori del calibro di Berlioux, Gordon, Butavand, Charpentier ed altri, i quali localizzavano l'Atlantide nel Sahara, o sulla costa nord africana, fra la Libia ed il Marocco. Con essi Arecchi, fra le varie indicazioni storiche e geografiche fornite da Platone, ritiene senz'altro veritiera quella secondo cui Atene "distrusse un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l'Europa e l'Asia, muovendo dal mare Atlantico". Egli precisa, tuttavia, che con il termine "mare Atlantico" Platone intendeva riferirsi non all'omonimo oceano attuale, ma al Mediterraneo centrale. Ed è proprio qui, infatti, che egli colloca l'Atlantide.
Stabilita l'ubicazione geografica, egli passa a determinare l'epoca in cui il mitico impero fu distrutto, che sarebbe stata non il 10.mo millennio, ma il 13.mo sec. a. C.. Questo nel presupposto che ci sia stato un errore nell'interpretazione dei dati forniti da Platone, il quale avrebbe parlato non di 9000 anni "prima del suo tempo", bensì di 9000 mesi.
Fino a qui niente di nuovo; si tratta infatti di ipotesi ormai consolidate nell'ambito delle precedenti teorie, e sostenute da una serie di argomentazioni logiche e ben motivate. E' a questo punto, però, che Arecchi introduce una variante mozzafiato, proponendo uno scenario geografico e geologico grandioso, in cui ambientare la sua Atlantide: quello di un Mediterraneo diviso in due parti nettamente separate da un imponente "argine" naturale, posto a sbarramento del canale di Sicilia, con il bacino occidentale allo stesso livello odierno e aperto sull'Atlantico, mentre il bacino orientale era un mare chiuso, con un livello di ben 300 metri inferiore a quello attuale (pag.129). Arecchi pone l'Atlantide in questo bacino interno, identificandola con un vasto bassofondo, allora asciutto, nel mare Ionio. Non contento, egli ipotizza l'esistenza nell'entroterra sahariano di un vero e proprio mare "pensile", sopraelevato di circa 350 mt (e quindi di almeno 650 mt. rispetto al livello dell'Atlantide), con una superficie pari a quella dell'Italia, contenuto anch'esso da un argine naturale lungo un'ottantina di chilometri (p. 134). La distruzione di Atlantide e la sua definitiva scomparsa sotto i flutti sarebbero state provocate dal cedimento contemporaneo di questi due argini, con le conseguenze facilmente immaginabili. Tale catastrofe sarebbe avvenuta, secondo i suoi calcoli, tra il 1320 ed il 1167 a.C., a cavallo fra la 18.ma e la 20.ma dinastia egizia, vale a dire in epoca pienamente storica.
Questa, in estrema sintesi, l'ipotesi proposta. Con quali elementi a sostegno?
Il libro parte da una ricerca letteraria di tutto rispetto ed offre una ampia panoramica delle fonti antiche su Atlantide e delle varie ipotesi moderne che la collocano nel Mediterraneo e dintorni; nonché molte notizie, tratte da storici greci (in particolare Erodoto) sui popoli libici del secondo e primo millennio, che secondo l'autore si identificherebbero con gli atlantidi e con i popoli limitrofi che condividevano la stessa civiltà. Ampio spazio viene concesso a citazioni letterarie, tratte da opere classiche, anche se i legami con il mito di Platone rimangono il più delle volte inespressi e misteriosi (se non decisamente opinabili, come quando l'autore afferma che "dalla consultazione di una stele poetica del faraone Thutmosis III è scaturito quello che poteva essere il nome egizio della terra di Atlantide. Infatti vi si nomina il popolo dei Tjehenu, e si dice che una parte almeno del loro territorio era costituito dalle isole Utjentiu: un nome che rivela una fortissima assonanza con quello di Atlantide!") (pag.49).
Ampia e di indubbio interesse è la bibliografia fornita dall'autore in merito a questi temi, in stridente contrasto con la totale assenza di riferimenti ad opere di carattere matematico e scientifico. Già una serie di piccoli lapsus denuncia la sua scarsa familiarità con queste discipline, come per esempio nei calcoli delle date proposte, fatti in base all'assunto che "un anno solare comprende non 12 mesi lunari, ma 13 mesi e 12 giorni" e che "l'anno egizio, comprendeva 360 giorni e 30 [sic, ma si tratta di un evidente errore di stampa: leggi in realtà 12] mesi di 30 giorni ciascuno" (pag.29). In realtà un anno solare è composto da 12 mesi lunari + 11 giorni, mentre l'anno egizio antico era di 365 giorni.
Si tratta comunque di peccati veniali, che non incidono significativamente sull'insieme della teoria. Quel che lascia interdetti, invece, è la totale assenza di giustificazioni scientifiche per lo scenario geografico e geologico che ne è alla base. Vista l'enormità della proposta, che appare shockante anche a chi è digiuno di queste materie, ci si aspetta che l'Autore fornisca un minimo di prove, vuoi di carattere geologico che storico. L'attesa, però, viene immediatamente delusa. Infatti egli confessa candidamente che gli unici documenti "scientifici" su cui basa la sua ipotesi sono costituiti da atlanti e carte nautiche del Mediterraneo edite nel 1921 e liquida la questione fondamentale delle prove in due parole, limitandosi a dichiarare che quello scenario "è possibile" (pag. 53), senza peraltro fornire la benché minima giustificazione alla sua affermazione. Decisamente poco!
Una regola dichiarata della ricerca scientifica è che "ad affermazioni straordinarie devono accompagnarsi prove di carattere straordinario". Arecchi non ne fornisce alcuna (e come potrebbe!!) e demanda ad altri questo compito, auspicando che qualcuno sia in grado, prima o poi, di fornire prove geologiche a sostegno di quella che è l'ipotesi fondamentale della sua teoria.
Peccato! Perché quanto al resto il suo libro nasce da una ricerca storica e letteraria approfondita, di indubbio interesse e validità, che poteva sfociare in una riproposizione convincente delle teorie del Berlioux e Co., basate su più credibili scenari geografici e geologici.
(Flavio Barbiero - per informazioni sull'autore, si rimanda al suo articolo contenuto in questo stesso numero di Episteme)
flbarb@tin.it
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Il libro in questione ha come autore il Prof. Alberto Arecchi, specialista in storia dell'arte ed in storia medioevale in particolare del Pavese e fratello del grande fisico Tito. Il libro affronta la sempre aperta e controversa questione dell'esistenza o meno di Atlantide e della sua collocazione nel tempo e nello spazio. L'autore si basa oltre che su intuizioni ed argomenti personali su letteratura in buona parte di origine francofona e prodotta nel periodo fra le due guerre, quando le ricerche di geologia dei fondali marini misero per la prima volta in evidenza strutture sommerse di origine relativamente recente (dorsali oceaniche, etc.). Mancano invece riferimenti bibliografici a lavori più recenti dell'area anglofona, in particolare riferimenti a lavori che vedono l'evoluzione del pianeta Terra, anche in tempi recenti, non tanto come la conseguenza di lenti processi, sebbene di eventi catastrofici, anche di origine extraterrestre (ipotesi proposta da Velikovsky e poi ripresa da molti altri studiosi, fra cui il sottoscritto e l'Ammiraglio Barbiero).
In tale contesto l'autore propende per una storicità del racconto platonico, spostandolo però assai più vicino nel tempo, a circa il 1300 AC, ed in una collocazione quasi mediterranea, ovvero nell'area nordafricana all'ingrosso nella regione della Tunisia. Ipotesi principale dell'autore è quella di un ponte di terra che avrebbe unito la Sicilia alla Tunisia, fatto che, legato anche ad una proposta connessione fra Sicilia e Calabria, avrebbe portato ad una divisione del Mediterraneo in due parti, di cui quella orientale avrebbe avuto un livello delle acque circa 300 metri più basso dell'attuale. Il travalicamento catastrofico delle acque del bacino occidentale in quello orientale sarebbe stato all'origine della catastrofe descritta da Platone.
Le osservazioni mie sono le seguenti.
- Le date e la collocazione platonica al di là delle colonne di Ercole, e di un Atlantico definito allora navigabile, sono perfettamente inquadrabili con l'epoca della terminazione brusca dell'ultima glaciazione, per cause probabilmente catastrofiche (impatto di cometa od asteroide, spostamento degli assi, collasso dei ghiacci…? Varie ipotesi si presentano per nessuna delle quali si ha una assoluta certezza). Tale scenario è stato sviluppato dal sottoscritto in un lavoro del 1984, era già stato considerato da Barbiero in un simile contesto, anche se con una diversa collocazione del centro della civiltà atlantidea (Antartide invece di Hispaniola), e vi è pure indipendentemente pervenuto Collins (che propone Cuba, e che anche appare nel film "Atlantis", dove anche il sottoscritto sarebbe dovuto apparire se problemi di email non avessero interferito). Quindi ritenere "uno zero" in più come errore fondamentale nella datazione platonica non è una necessità e l'attraversamento dell'Atlantico non è da considerarsi un problema anche per tecnologie antiche, come dimostrato dai viaggi di Heyerdahl.
- E' importante nell'approccio di Arecchi un livello –300 metri del mare per il Mediterraneo orientale. Ora tale valore sembra eccessivo, in particolare in quanto solo nel 9500 AC circa si è avuto un sostanziale aumento del livello marino (forse 120 metri, certo non 300) ed è ormai certo, come può vedersi dai molti dati presentati nel recente libro di Oppenheimer "Eden ad Est", che nel periodo successivo alla fine della glaciazione il livello dei mari ha avuto sì una serie di variazioni ma generalmente di meno di 10 metri ciascuna, in positivo o negativo. Inoltre la città di Byblos è antichissima, risale almeno al 3000 AC, ed in essa ci sono strutture portuali antiche, antecedenti il 1300 AC, le quali di certo non avrebbero potuto servire un porto se il livello del mare fosse stato 300 metri più basso.
Ci sono state certo molte catastrofi, Platone parla di tre grandi (queste ritengo associate a variazioni dell'asse terrestre, anche inversioni), di cui la prima quella di Atlantide (la cui datazione a circa il 9500 AC mi sembra la migliore) e l'ultima quella di Deucalione e Pirra, che personalmente vedo come sopravvissuti all'ultimo grande diluvio, quello cosiddetto Noachide, dove sopravvissero, a mio parere, Noè, sul monte Judi circa 30 km a sud dell'Ararat, Ziusudra-Zoroastro, sul monte Nimush = Anye Machen, Manu (Mannu in Tacito) su Montisola, e i detti Deucalione e Pirra, in località che al momento non riesco ad individuare. Dato tale evento al 3171 AC, esattamente 590 anni dopo l'inizio del calendario ebraico, databile con l'unzione di Noè come sacerdote dell'ordine di Melchisedek (Malik Sadok, principe saggio), da parte di Matusalemme… Altre successive catastrofi attorno al 2200, 1629,1447, 701… AC, ultima grande nel 536 DC, con la catastrofica esplosione che ha formato Giava e Sumatra dividendo una grande isola, vedasi gli annali dei re di Giava….
(Emilio Spedicato - per informazioni sull'autore, si rimanda al suo articolo contenuto in questo stesso numero di Episteme)
emilio@unibg.it