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La fauna dell'Urheimat

(Alberto Lombardo)


 







Il problema della localizzazione dell'Urheimat, la protopatria originaria degli antichi Indoeuropei, è uno di quelli che più hanno fatto dibattere gli studiosi nell'ultimo secolo. Ormai le tesi contrastanti che si sono venute successivamente a stratificare sono talmente tante (sino alle più stravaganti) che è difficile darne brevemente conto. Sostanzialmente, il problema è stato spesso viziato da alcuni problemi di prospettiva cronologica, vale a dire si è usualmente pensato all'Urheimat come a una zona temporalmente e geograficamente statica nella quale le nazionalità indoeuropee sorsero, si svilupparono per un periodo indeterminato o variabile e dalla quale successivamente, in ondate differenziate nel tempo, si dispersero in molti luoghi dell'orbe terracqueo. La lacuna di una simile prospettiva sta nella sua visione statica, cioè nella non considerazione della possibilità che gli Indoeuropei abbiano avuto invece fasi di sviluppo comune in zone differenziate, e che il parlare di Urheimat sia dunque possibile solo riferendosi alla vera e propria patria originaria, e non a una sede intermedia o finale della storia comune. Tale nuova, più elaborata visuale sta imponendosi più recentemente, tanto che - relativizzando la vexata quaestio - si fa un parlare sempre maggiore, per esempio, di Urheimat dei Germani, dei Balti, degli Slavi etc. Il problema vero e proprio dell'Urheimat, nella sua accezione fondamentale, resta quello della determinazione della terra originaria. Per una simile localizzazione, è necessario lo sforzo congiunto di diverse e numerose discipline: dalla linguistica comparata alla paleontologia, alla climatologia, alla nuova mitologia comparata, dall'archeologia allo studio della poetica e via dicendo. In particolare all'interno della paleontologia linguistica, vale a dire quella branca della linguistica che, sulla base dello studio comparativo, individua nei termini più largamente attestati del vocabolario compatto indoeuropeo il nucleo lessicale dei parlanti indoeuropeo, e deduce dunque per vie mediate le caratteristiche fisiche e geografiche di luoghi e costumi, si sono ottenuti e tuttora si ottengono risultati interessanti. Lo studio della fauna ha un valore esemplare: questo breve saggio si propone di analizzare sommariamente - e senza pretesa di completezza - i nomi dei fondamentali animali presenti nel vocabolario compatto, per tentare di dare una descrizione del mondo in cui i parlanti l'indoeuropeo compatto vissero. L'insieme dei dati qui raccolti conduce verso una regione nordica nella ricerca delle più remote origini.
 
 

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Cervo e alce.

Il nome di questo animale ci viene dal latino cervus: parola dalle origini assai lontane, risalente a un'antica forma indoeuropea *ker-wo- (che è ampliamento in -u di *ker, 'testa'), attestata in più aree, ossia in quella celtica (gallese carw, cornico carow, bretone karo), germanica (antico alto tedesco hiruz), baltica (prussiano sirwis, 'capriolo') e greca (xera\ s, 'cornuto'). "Dal nome del cervo", spiega inoltre Fr. Villar, "deriva poi la parola castigliana cerveza (in francese antico cervoise, in italiano antico cervogia) "birra", entrata in latino come cerv sia (e cerev§ sia) attraverso le Gallie. La birra era così designata per il colore biondo, che ai Galli doveva evocare il colore del cervo".

Si tratta senza dubbio di un animale assai importante per noi Indoeuropei, tanto per quanto riguarda gli aspetti linguistici quanto per i significati che al cervo si sono associati. Infatti, esso è uno degli animali fondamentali della protopatria nordica che i nostri antichi progenitori abitarono in epoche remote, prima della diaspora e delle numerose migrazioni che li portarono a popolare buona parte dell'orbe terracqueo. Sin da tempi antichissimi, in quell'area circumpolare il cervo era significativamente associato col simbolismo del sole e della luce, come recita l'Edda: "da Sud vidi il cervo solare muovere - i suoi piedi stanno sulla terra - ma le corna raggiungono i cieli". Questa importanza centrale del cervo è stata spiegata egregiamente da Adriano Romualdi, un profondo studioso della preistoria indoeuropea: egli identificò il cervo con l'animale dei cacciatori del Nord, contrapposto nel simbolismo al toro, elemento della forza cieca generatrice e tipico delle precedenti civiltà matriarcali. Lo scontro tra i due opposti simbolismi, tanto chiaro in Irlanda, in Scandinavia, in Val Camonica, è la raffigurazione nei simboli di due civiltà e anche di due diversi principî, e il cervo in questa contrapposizione assume l'emblema di animale tipico della civiltà indoeuropea. Scrive Romualdi: "Dietro a questo urto di simboli, dietro all'espansione dei popoli dell'ascia da combattimento e alla diffusione dei linguaggi indoeuropei, si cela un avvenimento di grande importanza spirituale. È il principio paterno che si urta contro la "civiltà della madre"; la virilità olimpica contro il mito taurino e materno della fecondità; l'ethos delle "società degli uomini" contro la promiscuità entusiastica dell'antico matriarcato".

Non stupisce dunque la grande diffusione e importanza di questo animale nelle mitologie indoeuropee: dalla Grecia, ove era consacrato a dei della purezza e della luce (Apollo, Atena, Diana), all'India, in cui rappresenta la cavalcatura del dio del canto Vayu. Nella cosmologia scandinava i quattro cervi sull'albero del mondo rappresentano i quattro venti; nel mondo celtico esistono veri e proprî dei-cervi (p. es. Cernunnos) e divinità che conducono carri trainati da cervi; ancora oggi chi visiti in Irlanda luoghi come Coole, nella contea di Clare, rimarrà colpito dal senso di profonda reverenza e rispetto che vengono tributati dagli abitanti a questi stupendi animali.

Per quanto riguarda l'alce, il suo nome ci viene dal latino alces, e questo derivò a sua volta dall'antico alto tedesco *alha (in tedesco oggi è Elch e in svedese elg). La radice indoeuropea è forse ARK-, che ha senso di "difendere", "proteggere", presente anche nel latino (arca, arx) e nel greco arkéÇ (= "proteggo"). Ma la parentela più stretta (stando al Benveniste) ad apparire è quella col greco alk , che è "la forza dell'anima, la fortitudo, che non cede davanti al pericolo e resta risoluta qualunque sia il destino". Significativamente, nell'Iliade (IV 245) Agamennone sprona gli Achei paragonandoli, per la loro mancanza di alk , a "cervette che, quando molto han corso pei campi, si fermano stanche, perché non hanno in petto coraggio".

Il nome richiama strettamente quello di una delle rune, la quindicesima della serie del futhark, e cioè Algiz, che non a caso richiama nella sua forma le corna dell'animale. Il suo nome richiama quello dei Gemelli, i nordici "dioscuri" Alcis (analoghi anche agli Ashvin della tradizione indiana), associati a loro volta alla terza funzione sovrana indoeuropea, quella relativa alla fecondità.

Questo animale è simbolo di vita e rinascita, come le corna lo sono della primavera e dell'eterno ritorno: numerose divinità indoeuropee munite di corna rimandano a questo stesso senso. Il dio celtico Cernunnos, per esempio, raffigurato sul famoso Calderone di Gundestrup, è munito di corna, e viene associato alla fecondità naturale.

Lupo.

Parrà strano che l'inglese e il tedesco Wolf sorgano dalla medesima radice da cui deriva alla nostra lingua "lupo". Eppure il latino lupus deriva da *lukwos / *wlkwos, ed è affine al greco lv kos e al sanscrito vrka. Il termine si presenta nel lituano vR lkas, nell'antico slavo vlß kß , nel gotico vulfas e in molte lingue antiche e moderne in forme affini. In latino e in alcuni dialetti italici la 'p' è sostituita alla 'k' del ramo germanico; così avviene anche nella seconda sillaba del termine in questione. La radice del termine, e analogamente quella della lince (la latina lynx, greca lygx e antico alto tedesca luhs) è la stessa di "luce", cioè *leuk.

Simbolicamente, il lupo è infatti in antico animale luminoso dalle sacre valenze; come nel caso di molti simboli, peraltro, il suo significato divenne duale, e a quelle positive andarono a giustapporsi valenze negative. Fu così che, seppure legato a miti fondatori (Roma) e a società guerriere, il lupo fu al tempo stesso collegato all'età oscura, come al Ragna-r` kkr ricordato dall'epica nordica.

Cane.

I nostri avi indoeuropei conobbero, certo già nell'epoca precedente la loro diaspora, un termine comune per designare il cane. Questo animale accompagnava infatti la vita agro-pastorale dei lontani progenitori già numerosi millennî orsono. Il nome per designarlo doveva essere *kw\ n, che si è poi tramandato, tra le numerose lingue, nell'antico irlandese cu, nel gallese ci, nel tocario A ku, nel lituano Ó ut (n), nell'armeno Ó un, nel greco cd on, nel nell'avestico span-, nel sanscrito çv~ -, oltre che nel latino canis, da cui il nostro 'cane'. Per quanto attiene alle lingue germaniche, si hanno le testimonianze dell'antico alto tedesco (hunt) e del gotico (hunds), e le sopravvivenze, tra le lingue moderne, nel tedesco Hund e nell'inglese, oggi desueto, hound (si noti che ancor'oggi greyhound designa il 'levriero').

Gli indoeuropeisti Adams e Mallory rilevano come il cane sia il primo animale addomesticato, e come il processo di addomesticazione avvenne oltre diecimila anni orsono. Dal Mesolitico in poi, il cane è largamente conosciuto in Eurasia. I due studiosi, in un loro scritto sul tema, fanno un'osservazione interessante: in varie aree indoeuropee le parole che designano il 'cane' possono indicare anche il 'lupo', come avviene per esempio in Irlanda e nell'India arcaica. In tali casi il cane assumerebbe il significato e la funzione anche simbolica del lupo, tanto dal punto di vista mitico quanto in quello del comportamento sociale, ove i lupi sono usualmente associati ai guerrieri.

La millenaria stretta familiarità con questo animale ha determinato il sovrapporsi di una miriade di leggende, tradizioni e significati, tanto che è impossibile accennare a tutti. Vi sono però alcuni elementi fondamentali: è uno psicopompo, vale a dire una "guida delle anime", specie nel post-mortem, analogamente a come lo è stato durante la vita (sua e del padrone); è collegato agli inferi, che custodisce o nei quali dimora (si pensi al Garm dei Germani, al Cerbero dei Greci o alle figure dei cinocefali e di Anubis nell'antico Egitto) e alla morte in genere, tanto da poter mettere in contatto con l'aldilà; è, come accennato, un simbolo del furor guerriero (specie nel suo aspetto di lupo): esempio ne è l'eroe irlandese Cd chulainn, il cui stesso nome significa "cane di Culann".

Volpe.

Viene alla nostra lingua senza soluzione di continuità dal latino vulpes (in antico volpes). Arrivando al latino si è solo a una stazione intermedia: risalendo ulteriormente verso la sorgente gli studiosi hanno identificato una comune radice indoeuropea *wlÇ p. In ogni caso Giacomo Devoto definisce le connessioni del termine latino con gli altri corrispondenti nelle aree baltica e greca come "disturbatissime". Si hanno attestati il lituano ln p e il greco al\ pex. Inoltre, attribuendo alla parola che nell'etimologia designa la volpe - come fece il Pokorny mezzo secolo fa - il significato di "rubatrice", si può vedere nel sanscrito lopas, "furto", un ulteriore sviluppo di questa stessa radice, la quale, varrà notare, si presenta nei suoi primi due elementi del tutto affine a quella che designa il "lupo" (la radice di questo termine è *w· kwo). D'altronde anche nel simbolismo esistono alcune affinità tra i due animali. Inoltre la caratteristica e proverbiale furbizia di questo mammifero nelle lingue storiche ha prodotto talvolta un'assimilazione con termini che ne indicano tale qualità; non solo noi usiamo dire "furbo come una volpe", per indicare una persona astuta e talvolta anche ingannevole, ma anche nell'antico scandinavo il termine fox (che permane inalterato, tra le lingue germaniche, nell'inglese - a indicare appunto la volpe) significava "inganno".

La volpe è una delle più classica figure di "briccone", note ai simbolisti e - a un gradino più basso - agli etnologi e studiosi di folklore; anzi tra gli animali è quello che meglio lo incarna. Nel mondo nordico nella volpe "si incarnano gli spiriti delle persone infide che talora appaiono nei sogni". Inoltre - particolare che conferma quanto scritto sopra - anche il termine maschile Refr ("volpe", appunto) "si ritrova talora come nome proprio, spesso a indicare persone assai astute" (Chiesa Isnardi, I miti nordici). Restando nel mondo nordico esiste una kenning, o circonlocuzione poetica, per definire l'aurora boreale: "luce della volpe".

Lontra.

In latino lutra deriva forse dall'incrocio di *udro-, con significato di "animale acquatico", (attestato nelle aree ariana o indoiranica, greca e germanica) e lutum, "fango". Questo termine lutra, successivamente incrociato con il greco en(v )dria (quest'ultimo derivante a sua volta da énydris, "animale acquatico"), deve avere dato origine a "lontra".

Nello Zoroastrismo e nel mazdeismo è uno degli animali "puliti", e come il cane non può essere uccisa impunemente (poiché appartiene ad Ahura-Mazda); nell'iconografia cristiana rappresenta invece S. Cutberto. Nella mitologia classica l'énydris è identificata da Plinio ed Eliano con la serpe d'acqua (Idro), cui è attribuita la leggenda della distruzione del coccodrillo; questa credenza (in realtà spuria) sopravvive nei bestiari medievali in una visione generale del mondo cristianizzata.

Tra i Celti la lontra, insieme a un orso e un lupo, accompagna il "signore degli animali" Cernunnos.

Castoro.

Viene dal latino castor, e questo nacque probabilmente come aggettivo castoreus dal greco Kastor (nome di uno dei due Dioscuri). Ma in latino il termine "puro" (come lo definisce il Calonghi) per designare tale animale è fiber (della seconda declinazione: genitivo fibri). Sembrerà strano che la lingua dei Romani avesse un termine per indicare un'animale che mai si sarebbe potuto incontrare sulla riva del Tevere: si tratta, anche in questo caso, di una parola sopravvissuta nella lingua particolare dopo la diaspora indoeuropea, sebbene ciò che essa designava non fosse più visibile ai parlanti tale lingua. In questi casi spesso accadeva che il termine andasse col tempo a indicare concetti affini, legati a elementi della nuova realtà che i parlanti incontravano; ma ciò non avvenne in questo caso particolare.

Il termine fiber trova corrispondenza nel gallico Bibr(acte) (un nome personale), nell'alto tedesco bibar (tedesco moderno Biber), nel lituano bebras e nel sanscrito babhru, che ha due significati: come aggettivo significa "brunorosso" e come sostantivo maschile indica l'icneumone. Anche il greco phrd ne (rospo) viene dallo stesso tema, e cioè l'indoeuropeo *bhebhru- (Pokorny).

Sull'importanza di questo termine comune del vocabolario indoeuropeo varrà riportare quanto scrisse Romualdi: "Gli Indoeuropei conoscono la betulla, l'albero bianco del Nord. Conoscono la quercia, il pioppo, le conifere. Conoscono l'orso, il lupo, il cervo, il castoro. Vivono in un ambiente di foreste dove la radura, il luogo in cui piove la luce in mezzo alla gran selva, è sacra alla divinità del cielo". Anche questo animale, cioè, ci riconduce nell'identificazione della protopatria originaria, l'Urheimat degli indogermanisti, a un paesaggio nordico - le regioni nordeuropee della Svezia meridionale, della Danimarca e della Germania settentrionale.

Topo, sorcio, ratto.

Nel caso di questo animale il termine venuto a prevalere in italiano non è probabilmente di origine indoeuropea, ma mediterranea. Si tratta infatti del risultato del tardo latino talpus (da talpa, che è appunto di origine mediterranea). In area settentrionale *talp è cambiato in *taup-, sino a giungere al termine oggi invalso; sino al secolo scorso aveva una diffusione più o meno pari a "topo" anche "sorcio", oggi però sempre più in disuso. Anch'esso ha probabilmente origine mediterranea.

Mentre le lingue romanze hanno subito questa influenza mediterranea (francese taupe, spagnolo topo, catalano taup) in quelle germaniche il vocabolo si è mantenuto in forme più fedeli alle origini indoeuropee: inglese mouse, tedesco Maus: qui è rimasta evidente la radice indoeuropea *mus, che si manifestò in forme pressoché invariate dal latino all'alto tedesco e al norreno e dal sanscrito al greco, sino al prussiano moderno; nello slavo antico compare come myÓ 0 , nell'armeno come mukn e nell'albanese sotto la forma m§ .

A queste parole va ancora aggiunto l'italiano "ratto", derivante da una serie onomatopeica in cui le due consonanti "r" e "t" dovevano rimandare all'idea del "rodere" (la cui radice era *rÇ d / *r~ d); forme affini a "ratto", come rileva Devoto, sono attestate in tutta l'area romanza e in quella germanica occidentale (provenzale e francese rat, spagnolo e portoghese rato, tedesco Ratte), ma verosimilmente anche in area celtica (bretone raz, medio irlandese rata, gaelico radàn).

Suini.

Si tratta di animali che ci forniscono molte informazioni sull'antichità. In italiano vi sono tre sostantivi per indicare questo animale: maiale, porco e suino - quest'ultimo designa la sottofamiglia zoologica. L'etimologia del primo termine ci porta forse alla dea romana Maia, cui poteva essere offerto. Il secondo è di chiara origine indoeuropea: viene da *porko(s) e indica l'animale addomesticato (e di norma giovane) in contrapposizione a quello selvatico: è presente nell'antico irlandese orc, alto tedesco farah, lituano parÿ | s, slavo antico prase, latino porcus e umbro purka (in cui è femminile). Pare attestato anche in area iranica: avestico *parsa (ricostruito da Benveniste), curdo purs, khotanese pasa. Per quanto attiene "suino", infine, viene da *sã s, di più ampio significato, e comprendente l'animale adulto ma anche la scrofa e il cinghiale. È assai diffuso (in latino sono presenti sia sus sia suinus): gallese hwch, alto tedesco sã s, gotico swein (da cui il tedesco Schwein), lettone suv ns, antico slavo svinß , tocario B suwo, umbro si, greco hv s, albanese thi, avestico hã e sanscrito sã (karas). In norreno Sv r è un attribuito della dea Freyja, e significa "scrofa".

Come ha scritto Adriano Romualdi, "il maiale è un tipico elemento della prisca cultura indoeuropea, legato ad antichissimi riti (suovetaurilia), attestante sedi ben visibili". È sacrificato anche dai Greci, nei misteri eleusini, in Irlanda tra i Celti e assai diffusamente tra i Germani (anche i Longobardi): è infatti l'animale tipico dell'agropastorizia nordica originaria, secondo quanto ha spiegato tra gli altri Walther Darré scrivendo del popolo indoeuropeo preistorico, presso il quale tale animale aveva valenze sacrali: "non è un caso che la razza nordica consideri tra gli animali sacri il tipico animale dei sedentarii delle foreste a foglie caduche della zona fredda temperata, […] né è un caso che, quando si scontra con i Semiti del Mediterraneo orientale, proprio il maiale dia luogo alle più accese dispute; il maiale è l'antipodo animale del clima desertico. Ed è naturale che i patrizi all'atto del matrimonio sottolineino l'elemento agricolo e sacrifichino un maiale che doveva essere ucciso con un'ascia di pietra". Una diversa sacralità, cioè, rispetto alla venerazione di cui invece era oggetto tra i Semiti, che lo considerano impuro, ma, secondo il Frazer, sebbene non potessero ucciderlo, "in origine il maiale era piuttosto venerato che aborrito dagli Ebrei. Questa spiegazione è confermata dal fatto che fino ai tempi di Isaia vi furono Ebrei che si riunirono segretamente in qualche giardino per mangiare carne suina o di topo come rito religioso. Senza dubbio era questa una cerimonia antichissima". Insomma, conclude Romualdi, "la familiarità col maiale è uno dei molti elementi che ci obbligano a vedere negli Indoeuropei un popolo delle foreste del Nord".

Nel suo significato simbolico è di norma associato alla fertilità e il suo sacrificio segna la venerazione degli dèi e la consacrazione dei patti, ma con il predominare del cristianesimo sull'occidente è andato sempre più assumendo caratteristiche "semitiche", sino a venire identificato via via con l'impudicità, la passione, la lussuria e infine col diavolo. Nella Bibbia, infatti, il "guardiano dei porci" (immagine dell'agropastore indoeuropeo originario) è la figura più degradata e spregevole (il figliuol prodigo della parabola).

Orso.

Il nome del plantigrado viene da un tema indoeuropeo *Î kyo- o *Ë ky os, che serve a designarlo come "il danneggiatore". Da questa radice fonetica sono sortiti: in area celtica l'irlandese art, il gallese arth e il nome personale gallico Art(ioni), di una divinità femminile affine alla greca Arto; il latino ursus (da cui il nostro "orso", tramite un *orcsos); il greco < rktos; l'albanese ari, l'armeno arj, l'avestico arÓ a- e il sanscrito Ï kÕ as; anche una lingua non indoeuropea come il basco, per il tramite di un prestito, presenta la forma hartz. Dal termine greco è poi derivato "artico", cioè "proprio all'orsa" - e il riferimento è qui ovviamente alla costellazione. Nelle varianti del mito greco, ad assurgere in cielo sub specie delle due orse sono Callisto la bella, amata da Zeus, e suo figlio. Secondo alcune versioni fu l'invidia di Giunone, secondo altre la misericordia di Zeus a produrre tale catasterismo (trasformazione in astro o costellazione).

Questa "assunzione in cielo" dell'orsa, oltre che a livello linguistico, può essere illustrata con l'aiuto del simbolismo. L'orsa (o meglio le due orse) ci indicano la direzione del Nord, tramite la stella polare. Il simbolo nordico, la direzione cioè della patria d'origine, è significativamente collegato con l'orso anche nelle tradizioni che gli sono relative: tra l'altro, tornando agli aspetti linguistici, l'orso è animale di localizzazione nordica e la sua presenza in così tante lingue indoeuropee corrobora la individuazione nel Nord della patria originaria (l'Urheimat) dei popoli indoeuropei. Nel simbolismo l'orso è animale altamente sacro, specie (ma non solo) tra gli Indoeuropei, che per designarlo ebbero moltissime circonlocuzioni e kenningar. Analoga reputazione l'orso gode tra gli Ainu, una popolazione di razza apparentemente occidentale che vive nell'isola di Hokkaido e segue una religione animista di tipo sciamanico; ivi è anche fatto oggetto di un rito sacrificale. Questa sacralità dell'orso si lega a quella delle origini; l'orso è animale ancestrale, e non a caso presenta sia caratteristiche maschili sia femminili (specialmente nella tradizione nordica). Inoltre è animale "ordinatore": secondo una diffusa leggenda, tramandata da Aristotele e Plinio sino ai bestiarî medievali, l'orsa darebbe la vita ai proprî piccoli leccando pezzi di carne: "modellandola", essa crea la propria progenie. Questa virtù creatrice fu poi reinterpretata, in epoca cristiana, con un'ardita metafora che voleva vedere in tale atto la conversione dei pagani al cristianesimo.

Un figura importante e altamente significativa è quella dell'uomo-orso, che si presenta in forme varie in ambiti diversi. Il più noto di questi esempî è quello dei berserkir, gli uomini-orso invasati dalla furia odinica delle saghe nordiche. Oggi nel folklore l'uomo-orso è ancora assai diffuso e ha funzioni "totemiche" (su questi temi ha scritto pagine assai interessanti M. Centini).

L'importanza di questo animale si avverte ancora nettissima sul suolo europeo: seppur nelle fiere ormai non vi siano più orsi danzanti, restano i toponimi (per esempio di Berna, legata anche nel mito di fondazione alla figura del plantigrado; rileviamo di passaggio che tra le lingue germaniche il tedesco Bär e l'inglese bear derivano da una diversa radice, che è la stessa da cui il nostro colore "bruno"), oltre alle raffigurazioni araldiche, gli emblemi nazionali (come nel caso della Russia), i cognomi e i nomi personali (specie in Scandinavia), oltre ai proverbi ("vendere la pelle dell'orso"), i modi di dire ("comportarsi come un orso"), una ricca favolistica (per esempio la fiaba dei "tre orsi") e varie raffigurazioni carnevalesche tradizionali.

Felini.

Adams e Mallory, nell'Encyclopedia of Indo-European Culture edita pochi anni orsono, identificano due forme dalle quali nello spazio linguistico indoeuropeo sono sortiti i termini indicanti il gatto comune: *kat- e *bhel-; delle due è stata probabilmente la prima ad avere una maggiore fortuna. Per la ricostruzione di *kat si hanno elementi nel latino volgare cattus (che, divenuto gattus per via della lenizione di c in g, era in origine termine indicante il gatto selvatico), sia nell'antico irlandese catt; ma non è del tutto certo che quest'ultimo derivi dal latino, anzi il Devoto pare pensare il contrario. Quel che è attestato o dimostrato è il passaggio del termine dalla lingua latina sia all'area slava (russo kot) sia a quella baltica (antico prussiano catto, lituano katè, lettone ka&plusmn; e); di qui sino a lingue a noi più familiari, come l'inglese (cat), il tedesco (Katze) e lo svedese (katt). Ovviamente il passaggio è avvenuto anche alle lingue romanze (in provenzale, catalano, spagnolo e portoghese si usa cato, in francese chat). Ma, aggiungono Adams e Mallory, "presumibilmente il latino cattus fu preso in prestito da qualche fonte non-latina". Per quanto attiene *bhel-, ci limitiamo qui a ricordare che esso sopravvive, nella nostra lingua, nel termine felino.

Alcuni problemi ci sono posti dall'archeologia, poiché testimonianze varie parrebbero suffragare l'idea che questo animale si sia diffuso in Italia prima e in Europa poi in tempi relativamente recenti. Risulta dunque poco chiaro il suo ruolo, per esempio, nella mitologia nordica, dove è un importante attribuito della dea Freyja, della quale, in pariglia, tira il carro. A nostro modo di vedere se gli studî archeologici sono fondati si tratta, come spesso avviene in mitologia, di una trasposizione del simbolismo da un animale a uno consimile - e cioè probabilmente da un piccolo mammifero selvatico, forse proprio il gatto selvatico, a quello domestico.

Il leone ha un interesse diverso rispetto agli altri termini esaminati. Mentre la parola italiana "leone" deriva dal latino leo (accusativo leonem), e questo a sua volta venne in età arcaica alla lingua di Roma dal greco Ç n, léontos (questa forma pare essere quella di un participio presente), tra gli antichi Indoeuropei si può solo con grande fatica determinare una radice ricollegabile a questo animale: mentre in sanscrito questo grosso felino si designa con simha, nell'albanese il leopardo è inj. Da questi due dati si è dedotta una radice *singho- (Walde-Pokorny), che, quand'anche fondata, non ha però la stessa diffusione di altri termini designanti animali diversi. Questa è un'importante prova a contrario per escludere che gli Indoeuropei potessero essere originarî di una zona abitata da leoni, e per localizzare viceversa nel Nord la loro patria originaria.

Pesci.

Da una forma indoeuropea *piski-, secondo il Pokorny, si sarebbero sviluppati i termini comuni: l'irlandese &sect; asc (peiskos), l'alto tedesco fisc, il gotico fisks e il latino piscis: è ovviamente da quest'ultimo che è venuto il nostro "pesce"; altrettanto chiaro il fenomeno della rotazione consonantica di Grimm nelle lingue germaniche (la "p" passa in "f", come da pater a fadar). Anche se le connessioni del latino sono dunque solo con le aree celtica e germanica la parentela è comunque abbastanza significativa. In ogni caso oggi in moltissime lingue europee contemporanee si utilizzano termini imparentati.

Il salmone deriva il suo nome italiano dal latino salmo (accusativo salmonem), ed è presente nell'antico francese e in inglese come salmon. Il Devoto ne sostiene l'origine gallica; vi è chi ha ipotizzato che il nome derivi dalla radice *sar-, cioè 'scorrere', dalla quale deriva anche il verbo 'salire'. Questo rimanderebbe infatti alla caratteristica del pesce inteso come "saltatore". Tale pesce (che in indoeuropeo trae l suo nome da una forma *laks) che ha fornito a uno studioso tedesco, P. Thieme, il fondamento per uno studio epocale e da cinquant'anni assai dibattuto che gli ha fatto evidenziare con estremo fondamento la possibilità dell'origine nordica degli Indoeuropei.

La balena deriva il suo nome dal termine latino volgare balena (classico ballaena), che trova una corrispondenza nel greco phállaina. In area germanica, si presenta in tedesco come Walfisch, in inglese come whale (il nome del Galles si è legato infatti anche a quello del mitico cetaceo), mentre in islandese, svedese e danese è hval.

Parole come "baleno", "balenio", "balenare" derivano dal nome della balena, in ragione dell'apparire repentino e improvviso di questo animale.

Tra i Germani la balena aveva una parte importante nel simbolismo, e nella tradizione nordica esisteva la credenza che questo animale, dotato di poteri magici, portasse al sabba le streghe (Olaus Magnus nel suo famoso Historia de gentibus septentrionalibus dà ampio spazio al cetaceo e alla sua caccia).

Granchio.

Il nome di questo animale crostaceo si presenta simile in varie lingue e dialetti neolatini e celtici (anche a questi ultimi è arrivato dal latino cranculus, diminutivo di cancer): provenzale e catalano cranc, vallone cranche, spagnolo cangrejo, portoghese granquejo (e garanguejo da *cancriculus), cimbrico cranc e bretone kranck. In italiano e portoghese si verifica la lenizione della c- iniziale in g-.

Il latino cancer passò a designare anche la costellazione (e da essa il corrispondente segno zodiacale), e successivamente è divenuto termine medico per via dell'analogia delle ramificazioni di tale malattia con le molte zampe dell'animale. Scrivendo dell'etimologia di questa parola, Devoto spiega che il termine latino cancer è in realtà una forma dissimilata da carcer (dissimulazione, dunque, di una -r in -n); cioè il termine che, dal significato di "sbarre del circo" è poi passato a designare la prigione ("carcere" nell'italiano attuale). Lo studioso inoltre scrive che esistono parallelismi, sia semplici sia dissimulati, anche nelle aree greca e indiana. Ed effettivamente il tema indoeuropeo da cui venne il termine cancer è stato ricostruito dal Pokorny come *karkar ("granchio"): oltre al latino si trova effettivamente sia nel greco karkR nos sia nel sanscrito karkaÛ a-. La presenza del termine nelle "aree laterali" è un argomento che ne fa ritenere l'appartenenza alla lingua comune indoeuropea, almeno nel suo stadio detto "postanatolico".

Serpente.

Il corrispondente latino della nostra lingua, serpens (accusativo serpentem) nasce come participio presente di un verbo serpere - e questo viene a sua volta dalla radice fonetica indoeuropea *serp. Da questa stessa, che ha appunto il significato di "serpeggiare", sono derivati anche il greco antico hérpÇ , il sanscrito sarpati e l'albanese gjarpN n (quest'ultimo corrisponde all'animale, non al verbo all'infinito). Verrebbe in questo caso da pensare a una radice di tipo onomatopeico, o quantomeno a un'antica vicinanza tra suono e significato: un simile pensiero ci porta indietro nei millennî, sino ai territori - fisici o meno - dove si verificò la nascita della parola. Forse per ragioni simili, ma ormai inconsce, dal latino classico b stia si passò al tardo latino medievale b&sect; stia e da questo al nostro "biscia": anche qui il suono pare richiamare l'immagine dell'animale. Bisogna segnalare sin d'ora che nel fondamentale Indogermanisches etymologisches Wörterbuch del Pokorny (Berna 1955), saggio che resta un punto di riferimento fondamentale per lo studio della linguistica comparata indoeuropea, figura un'altra radice fonetica che designa il serpente, che è *e(n)gwh, e che da essa derivano, oltre all'irlandese esc(ung), "anguilla" (cioè serpe acquatica), il lituano angìs, l'antico slavo oz0 , il tocario B auk e i greci égis e \ fis, anche l'armeno auj, l'avestico añ i- e il sanscrito ahi-; inoltre il latino anguis, da cui è venuto il nostro termine "anguilla".

Quello del serpente è uno dei simboli più enigmatici e ricchi di significati che esistano. È essenzialmente la manifestazione della potenza, dell'energia e della forza. Ma le sue caratteristiche sono in tutto e per tutto duali, dato che è collegato tanto al maschile quanto al femminile, alla generazione e alla nascita quanto alla morte, ed è presente, nei miti, come portatore di influenze di ogni tipo: non è un caso che assai di frequente sia assimilato o addirittura confuso con il drago. Nello stesso simbolismo giudaico-cristiano, seppure prevalgano le caratteristiche oscure, con conseguente assimilazione al male, al demonio e al "tentatore", Cristo è da Tertulliano definito "il Buon Serpente". Per Guénon il carattere "terribile" del serpente si spiega col fatto che "raffigura l'incatenamento dell'essere alla serie indefinita dei cicli della manifestazione". Tra i Greci vi sono numerosissimi miti e leggende su questo animale: da quella relativa al giovinetto Ercole che nella sua culla strozza due serpenti al mito di Medusa (come delle Erinni e delle Graie), di cui una moltitudine di serpi costituisce la capigliatura; inoltre avvolto (o avvolti) sul caduceo rimandano al potere del corpo - e di conseguenza sono attributi di Ermes e Asclepio nelle loro vesti "mediche". A questo proposito un'immagine assai affine è quella yogica indiana relativa ad ida e pingala, le due vie opposte del respiro, che analogamente si sviluppano sinuose intorno a un asse retto - quello della colonna vertebrale - per risvegliare la Kundalini, il "potere del serpente". Tra i Germani è largamente presente, a simboleggiare, secondo la Chiesa Isnardi, la vita primordiale. In età vichinga, però, la sua connotazione divenne negativa, e fu associato alle potenze malefiche che irromperanno nel giorno della battaglia finale. La studiosa ricorda che "Il serpe-mostro per eccellenza ricordato nel mito è Mix garx sormr, "serpe di Mix garx "": si tratta dell'enorme animale che costituisce la crosta terrestre, e i cui sommovimenti nel sonno rappresentano i nostri terremoti. Quando verrà la battaglia finale sorgerà contro il cosmos, l'ordine degli uomini e degli dèi, e verrà affrontato da Thor, che ucciderà venendone a sua volta ucciso.

Verme.

"Verme" corrisponde al latino vermis. Questo vocabolo è il corrispondente latino del germanico wurm (alto tedesco) e wad rms (gotico). Ancora oggi in tedesco si indica con Wurm e in inglese con worm. Così gli indoeuropeisti ricostruirono un tema *wermi-. Al di fuori di queste due aree linguistiche tra gli Indoeuropei prevalse però una forma simile, *kwrmi-, attestata in area indoiranica (medio persiano kirm, sanscrito kÏ mi), baltica (lituano kirmìs), slava (antico slavo rß v0 ) e celtica (irlandese cruim, gallese pryf). Segnaliamo che il colore "vermiglio" trae il suo nome dalla cocciniglia, che forniva questo colore rosso tra il cremisi e lo scarlatto.

Nel mondo nordico germanico il verme venne confuso in più casi con il serpente. La cosa può apparire curiosa, ma quello di "Gran Verme" fu uno degli attributi del serpe di Mix garx r, cioè del mostruoso figlio di Loki che riposa sul fondo dell'oceano e il cui corpo costituisce le terre ferme. Sussultando e muovendosi nel sonno questo essere mostruoso provoca i terremoti; si ridesterà per la Battaglia Finale. Allora verrà affrontato da Thor, che ucciderà venendone a sua volta ucciso: "ecco sopraggiunge il famoso / figlio di Hl\ x yn, / va il figlio di Odino / a lottare col serpe, / con coraggio si batte / il guardiano di Mix garx r, / tutti gli uomini / lasceranno il mondo abitato; / retrocede per nove passi / il figlio di Fjörgyn / morente lontano dal serpe / incurante del disonore" (Völusp< LVI). Un'altra assimilazione nordica del verme con il serpente si ha nel mito relativo al frassino Yggdrasill, l'albero del mondo. Le sue possenti radici, specie quella in Niflheimr, sono rose da serpenti (o vermi, appunto). Eppure il possente albero resterà saldo sulle sue radici delle quali nessuno conosce l'origine sino alla Battaglia Finale, "produrrà frutti salutari e medicamentosi e non temerà né ferro né fuoco".

Formica.

Usiamo in italiano, per designare questo animale, il termine latino. Questo però venne da un più antico *mÏ mica, derivazione della forma indoeuropea *morm. Questo nome, come scrive del resto G. Devoto, è al tempo stesso largamente diffuso nel territorio indoeuropeo, ma anche di tradizione disturbatissima: infatti si presenta in forme varie, dall'antico irlandese moirb e l'antico gallese morion (plurale), al norreno maurr, l'antico slavo mrav0 ji, il greco md renx, il tocario B warme, l'armeno mr: imn, l'iranico avestico maoiri- e il sanscrito vamra. Tale varietà di forme ha fatto scrivere a un altro studioso, D.Q. Adams: "il numero delle varianti fonologiche suggerisce che la designazione per "formica" nelle tradizioni indoeuropee fu più che usualmente soggetta a deformazione fonologica… così risulta difficile ricostruire l'esatta forma protoindoeuropea di tale parola, la quale è chiaramente di origine protoindoeuropea".

Uccelli.

Primo per valenza simbolica è il cigno, che trae il suo nome dal latino cygnus, che deriva a sua volta dal greco kv knos. Il tedesco Schwan (antico svan) come l'inglese swan derivano dalla medesima radice *kan, la quale è all'origine del latino cano (cantare). Il cigno è dunque, etimologicamente, il "cantante".

Le leggende di diverse aree confermano questa sua proprietà. In Irlanda, una nota leggenda narra del triste destino dei figli del re Lir che vengono trasformati in cigni e ridotti per secoli in tale condizione; il loro canto, peraltro, aveva la virtù di affascinare chiunque li avesse ascoltati. Nel Fedone platonico Socrate afferma che il canto funebre del cigno esprimeva la gioia di reintegrarsi nel divino, del quale l'uccello era epifania.

Animale iperboreo, sacro all'Apollo nordico, è presente nelle incisioni della Valcamonica, avanguardia della "migrazione dorica" in Italia. Non senza un preciso significato, nel mito greco il carro della bionda Venere è trainato in aria da cigni. Nella tradizione indiana è simbolo di purezza e conoscenza: ha deposto l'uovo aureo dal quale sorse il dio Brahma.

Secondo il mito raccontato da Ovidio, Cigno era il figlio di Stenelo, re dei Liguri. Quando Fetonte, per avere improvvidamente condotto il carro solare del padre Febo (Apollo), fu fulminato da Giove e cadde nell'Eridano (cioè il fiume Po), Cigno, che era parente del defunto, ne pianse disperatamente la morte. Il dolore fu tanto, che si trasformò nell'animale che porta il suo nome. Scrive a proposito di Cigno il poeta del IV-V secolo Claudiano (carme XXVIII): "Un vecchio trasformato dalle piume… un circolo latteo bagna le ali protese del compagno Cigno, lo stellato Eridano vagando con curve sinuose solca la chiara volta di Noto e scorre con gorgo siderale sotto ad Orione terribile per la sua spada". E Virgilio (Eneide, X.192-3): "e una vecchiezza raggiunse bianca di morbida piuma / e questa terra lasciò, salì dietro il canto alle stelle". Il tema della vecchiezza legata all'animale non va riferita, forse, solo alla bianchezza della capigliatura che richiama quella dell'animale, bensì anche alla remota origine, i cui connotati, secondo il mito richiamato, sono quelli della purezza, della bianchezza, della "solarità". Simboli che univocamente ci parlano dell'origine nordica e iperborea, cui ancora oggi guardiamo.

Per quanto riguarda l'oca, data l'etimologia del suo nome si potrebbe dire che essa fu definita come "uccello minuto", poiché questo viene dal latino tardo auca (che corrisponde alla forma del catalano e dell'antico spagnolo), da una forma intermedia ricostruita avica, la quale viene a sua volta da avis ("uccello", appunto). Il latino classico aveva però un altro termine più antico e preciso per designare questo animale, e cioè anser (hanser), nel quale il retaggio indoeuropeo era ben più evidente. Suoi termini parenti erano l'irlandese g iss ("cigno") e la forma ricostruita gans&sect; ; l'alto tedesco gans (tedesco sing. Gans, plur. Gänse; in inglese il singolare è goose, il plurale Geese e l'oca maschio gander); il lituano ñ asìs; l'antico slavo gasi; il greco chén e il sanscrito hamsa- (anche questo spesso significante "cigno"): tutti sortivano da una medesima forma *ghans (Pokorny). Questa sorta di confusione linguistica col cigno diffusa in varie lingue si spiega sia per via della somiglianza dei due animali, entrambi bianchi e col collo curvo, sia a livello simbolico, dove parimenti spesso sono confusi. Un esempio mitologico ha valore indicativo più di ogni altro: la ninfa Nemesi, per sfuggire a Zeus che voleva unirsi a lei si trasformò in oca, ma fu ugualmente fecondata dal re degli dei, trasformatosi in cigno. Dalla loro unione scaturirà l'Uovo. Sulla scia degli studî di Bachofen, Alfredo Cattabiani rileva come l'oca sia "la Terra stessa, un'immagine della materia materna", e ne sottolinea la forte partecipazione all'universo simbolico della Grande Madre. Così possiamo forse vedere oca e cigno come le due manifestazioni, rispettivamente sotto forma femminile e maschile, di una stessa immagine trascendente. Come il cigno, l'oca rappresenta (tra l'altro) l'origine artica, e l'arcaica ciclicità del tempo. Questo è testimoniato, tra l'altro, dal fatto che nella civiltà classica fu associata al tempo stesso sia alle immagini di bambini (lo mette ben in luce Cattabiani nel suo Volario), sia a Persefone-Proserpina, dea degli inferi. Lo stesso avviene nel caso del cigno. Le coincidenze nel simbolismo non si fermano però qui: vanno ricordati almeno altri tre importanti elementi. Anzitutto l'associazione di entrambi questi uccelli con donne sovrannaturali (si pensi per esempio alla favolistica celtica e a quella slava). In secondo luogo, appaiono entrambi come epifanie dell'altro mondo: tipica a proposito la mitologia irlandese, ma non solo. Infine - e soprattutto - sono entrambi associati al suono e alla musica in senso eminente. In una visione ciclica del tempo il canto del cigno, che predice la fine, forse non è poi troppo dissimile dal verso dell'oca, che rappresenta la creazione e l'origine. Infatti secondo la mitologia egizia il verso di Amon-Ra, che in forma d'oca sorvolò le acque deponendovi l'Uovo cosmico, fu il primo suono mai prodotto; e nell'India (citiamo nuovamente le parole di Cattabiani) "è la manifestazione della Grande Madre originaria, tant'è vero che fu chiamata anche la Madre dei Veda, creatrice della lingua scritta, dea della parola".

Per quanto riguarda l'anatra, o anitra, si usano in italiano entrambi i termini, che hanno percorso una storia parallela. Il secondo corrisponde in pieno al latino volgare *anitra, che è il risultato di un incrocio del latino classico anas, anatis con il suffisso in -tr-; il primo è invece meno influenzato dalla volgarizzazione. Comunque anas viene da un'antica radice fonetica indoeuropea, e cioè *and t (Pokorny) o comunque da una forma *haà hati- / *haenhati- (Greppin). Essa compare, oltre che nel latino, nell'alto tedesco anut (tedesco moderno Ente), nell'antico prussiano antis, nel lituano < ntis, nell'antico slavo &#129; ty (e nel russo d tka), nel greco nessa e anche nel sanscrito ~ ti-, "uccello acquatico". Inoltre esistono alcune parole derivate che indicano la carne d'anatra, come il latino anatina. Tutti questi dati fanno pensare a buon diritto agli studiosi a uno "status protoindoeuropeo di questo termine" (John Greppin).

Inoltre è logico dedurre che questo animale facesse parte del mondo indoeuropeo originario, data la presenza nel vocabolario comune. Gli studi archeologici ne attestano la presenza ovunque in Europa e solo in parte dell'Asia settentrionale (ciò ci pare indicativo per tornare a negare la possibilità che i nostri progenitori provenissero dall'Oriente, come certi studiosi indoeuropeisti sovietici o di impronta ideologica sovietica hanno spesso sostenuto).

Spesso nel mondo classico l'anitra ha carattere di "profetessa dei venti", in quanto capace di prevedere le variazioni atmosferiche e meteorologiche. Inoltre (riportiamo quanto afferma Cooper) "quando volava in gruppo a pelo d'acqua era intesa come simbolo di superficialità, eccessiva loquacità e inganno. Il tema dell'inganno è evidente nel francese canard, che significa anitra, ma anche "falsa notizia"".

Andrà ricordata la nota vicenda fiabesca del "brutto anatroccolo", nella quale, probabilmente, non si deve tanto ravvisare un'immagine negativa dell'anitra quanto piuttosto, per contrapposizione, un inno poetico alla bellezza simbolica del bianco animale nordico, il cigno iperboreo che indica la direzione delle origini remote.

L'origine del nome del colombo è abbastanza paradossale. Sebbene infatti la colomba sia uno dei simboli per eccellenza della bianchezza, il latino columbus, che ha un corrispondente esatto nel greco k\ lymbos, pare venga da una radice indoeuropea *kel (o forse *gel), ricostruita sul raffronto con l'antico slavo golobi: tale radice ha il significato di "scuro" (come nel greco kelain\ s, "nero"), e il nome dell'animale significherebbe dunque "uccello grigio scuro".

Bisogna però aggiungere che da millennî altri uccelli hanno evoluto il loro nome in modo del tutto parallelo a quello del colombo. Così, in particolare, il palombo: da una radice indoeuropea *pel, indicante un colore grigio o azzurro sbiadito, venne al latino palumbes, che si sviluppò sino all'italiano odierno in modo del tutto parallelo al columbus. Da *pel deriva anche "pallido", che ha mantenuto il senso originario di "sbiadito": inoltre altre voci in varie aree, specie in quella greca e germanica, ma anche nell'armena, nella slava, nella baltica e nell'indo-iranica. Aggiungiamo come curiosità che il nome "palombaro" deriva da quello dato in tardo latino allo sparviero (palumbarius), per via dell'assimilazione dell'uomo che si immerge nelle profondità delle acque con l'animale che si precipita dalle altezze dei cieli.

Come ha recentemente spiegato Alfredo Cattabiani, "nei miti antichi e poi nei bestiari medievali si tende in genere a parlare della colomba, al femminile, anche quando si indica il maschio, il colombo o piccione: sicché il lettore rimane sconcertato e non riesce più a raccapezzarsi […]. In ogni modo i tre nomi colombo, colomba e piccione sono equivalenti; tuttavia il secondo è prevalso nel linguaggio simbolico".

La colomba è tradizionalmente simbolo dell'anima, della purezza e della pace. Consacrata alla Grande Madre, spesso viene associata all'Albero della Vita e in particolare all'ulivo. In quest'ultima iconografia il suo simbolo richiama la pace e la prosperità luminosa (Atena); ma nella mitologia classica fu associata anche a Bacco e a Venere. Sotto forma di piccione questo animale talvolta è legato alla codardia, alla vigliaccheria e alla lascivia; presso varî popoli fu oggetto di sacrifici rituali. La sua associazione al tema diluviale, inoltre, non è solo biblica.

La parola 'corvo' ci viene direttamente dal latino corvus (cfr. anche l'accusativo singolare umbro curnaco), parola di remota origine indoeuropea, probabilmente onomatopeica (kr… kr). È attestata in forme affini in diverse altre aree (il che ne fa presumere una derivazione dalla fonte comune): celtica (irlandese crã , ricostruito *krowos), germanica (alto tedesco hraban, norreno hraukr) e baltica (lituano Ó < rka, e kraé kti il verbo), oltre che greca (c\ rax, cor\ ne), indiana (sanscrito k~ ravas) e nell'albanese s\ rr (cornacchia). Dalle lingue indoeuropee il termine è passato poi all'ebraico haraban.

Nell'Urheimat il corvo doveva solcare con la sua nera figura il cielo: assurse a epifania di diverse divinità, con tratti affini. Il suo simbolismo, peraltro, è duale, dal momento che è collegato sia con la saggezza, la preveggenza e la lungimiranza, sia con la morte e la distruzione: le sue peculiarità lo fanno animale solare e notturno al tempo stesso. Forse è anche per questo motivo che viene spesso associato al lupo, che ha analoghe caratteristiche. Gianna Chiesa Isnardi, ricordando la H< lfs saga ok H< lfsrekka (Saga di H< lfr e dei guerrieri di H< lfr), afferma che "nelle figure dei due fratelli Hr\ kr inn hvR ti e Hr\ kr inn svarti "cornacchia bianca" e "cornacchia nera" è forse conservato il ricordo della duplice simbologia dell'animale" (I miti nordici).

Nello Zoroastrismo è animale benefico e puro che dissipa la corruzione; il culto di Mitra definì corvus il primo grado iniziatico dei suoi misteri solari. Nella mitologia greca il carattere solare si manifesta nel fatto che è messaggero di Helios-Apollo e collegato a Crono, ad Atena e a Asclepio-Esculapio; i corvi predissero la morte di Platone, come a Roma quelle di Tiberio e Cicerone. Nell'Orfismo appare a simboleggiare la morte iniziatica ed è conseguentemente associato alla pigna e alla torcia, che sono simboli della rinascita metafisica. Analogamente nella tradizione ermetica è simbolo della nigredo (la morte rituale, il "passaggio alle tenebre"), come lo sono il teschio e la tomba. Il dio Brahma, nella religione hindu, si manifesta anche sotto le sembianze del corvo.

Particolare importanza riveste nella mitologia nordico-germanica e in quella celtica. Tra i Germani i corvi sono sacri a Wotan-Odino, e i suoi due corvi Huginn e Muninn ("pensiero" e "memoria") volano nel mondo a raccogliere ogni informazione, per poi tornare a riferirla al dio sovrano. Lo seguono anche nella furiosa caccia selvaggia, e analogamente nella mitologia celtica sono sacri tanto a Lug dalla lunga lancia (così simile a Odino), quanto alla Morrigan, dea del furor guerriero e della morte in battaglia. In un mito gallese Owein è un eroe "sovrano di corvi" e si scontra con il seguito di Artù. Questa diffusione in area celtica e germanica ne ha comportato una forte presenza nell'araldica, dove pare però essere confuso con la cornacchia.

Un ultimo dato interessante è che il corvo è spesso associato, in diverse aree e sino al tardo medioevo, agli occhi: non solo per via della sua capacità di lungimiranza, ma anche perché gli occhi sono il suo primo pasto quando si imbatte nei caduti in battaglia; inoltre i suoi occhi hanno potere medicamentoso. Fjölsvix r è minacciato, allorché menta, "di essere mutilato da due corvi che gli strapperanno gli occhi". Ciò è forse da mettere in relazione con la qualità del corvo di rappresentare la prima funzione sovrana indoeuropea, quella magico-religiosa (testimoniata anche dal suo collegamento a Odino e Lug), come gli occhi lo sono nella gerarchia simbolica del corpo umano.

Il cuculo trae il suo nome da una forma onomatopeica (*kuku-) abbastanza diffusa nel panorama indoeuropeo. Di essa si ha vestigia nelle lingue storiche nell'irlandese cã ach, nel gallese cog, nel verbo lituano kukd oti (fare cucù), nel russo kukd Ó a, nel greco k\ kkyx, nel sanscrito koka- (e kokila-) e nel latino cucã lus. Il latino pare avesse anche una forma, più rara e antica, cã cus (a ulteriore conferma della ricostruzione del tema indoeuropeo), della quale cuculus rappresenterebbe una sorta di diminutivo poi invalso come nome principale. Questa è una delle tante parole che si sono conservate ancora oggi affini in moltissimi lingue, e in quasi tutte si è mantenuto il senso dell'onomatopea: anche in lingue influenzate da quelle indoeuropee, come il turco e il georgiano. Nominando questo uccello, ne riproduciamo il verso e, per un attimo, parliamo forse inconsapevolmente la sacra lingua degli uccelli, che molteplici tradizioni e leggende raffigurano come la "lingua angelica" e sacra per eccellenza.

Nel simbolismo il cuculo è strettamente legato ad amore, fecondità e abbondanza pere via della sua funzione di "annunciatore" della bella stagione (in un calendario scandinavo medievale al cuculo è associata la data del 25 aprile, e nella antica tradizione nordica il mese che andava da circa metà aprile a circa metà maggio era definito "mese del cuculo"); inoltre, in alcuni ambiti ha la funzione di "sovrano" tra gli altri uccelli; ed ha anche alcuni caratterizzazioni negative e tenebrose, che fanno di lui uno dei parassiti simbolici per antonomasia.

Come riportava già Aristotele, questo animale depone il suo uovo nel nido di altri uccelli (per lo più passeracei) eliminando dalla covata uno di quelli dell'ospite; allo schiudersi, il piccolo cuculo viene allevato e cresciuto dall'ignaro genitore adottivo. Questo fatto ha avuto due significative attribuzioni nel mondo del simbolismo: da una parte, ha accresciuto i significati primaverili che già erano proprî di tale animale, dall'altra lo ha fatto apparire in alcuni ambiti quale "emblema dell'abbandono dei doveri materni e del parassitismo, ma anche del canzonatore, tanto che una volta si usava il verbo "cuculiare" per "prendere in giro"" (Cattabiani).

In ambito folklorico, e specialmente in Piemonte, esiste l'espressione "vecchio come il cucco". Sempre stando a quanto scrive Alfredo Cattabiani, essa sarebbe sorta dalla credenza secondo la quale il cuculo non morirebbe mai; inoltre, essendo immortale il cuculo tutto ha visto e tutto sa - un po' come il corvo, per altri aspetti. In un poema indotibetano quest'immagine del cuculo quale sapiente risulta appieno suffragata. Ne La preziosa ghirlanda degli insegnamenti degli uccelli si narra infatti del saggio AvalokiteÑ vara il quale, dopo avere assunto le forme di questo uccello, rimase per lunghi anni nel folto di un albero di sandalo. Quando venne richiesto di parlare da un pappagallo, iniziò un discorso di saggezza che fu ascoltato da un uditorio sempre maggiore di uccelli, che si radunarono in un grande e memorabile convegno. Il cuculo stabilì di riunirsi l'anno seguente: ciò avvenne, e quasi tutti i pennuti assunsero un impegno di natura spirituale; ciò li condusse sulla strada verso la liberazione.

L'italiano "tordo" corrisponde al latino turdus, che è una parola di antiche origini. Si trovano suoi corrispondenti tra i Celti (irlandese moderno truid, 'tordo', e irlandese medievale truit, 'storno'), i Germani (antico alto tedesco drosca, norreno throstr, inglese moderno thrush, tedesco moderno Drossel), i Balti (lituano strn zdas, lettone strazds, antico prussiano tresde), gli Slavi (russo drozd) e i Greci (greco stroudhos, che assunse il significato di 'passero'). La linguistica comparata ha individuato l'origine di questi nomi in una forma comune indoeuropea *(s)tr\ sdos-, dalla quale sarebbero sortite le varie espressioni dialettali. John Greppin, dell'Università di Cleveland, la definisce parola "del Nord-Ovest indoeuropeo". Riferisce inoltre che i tordi del genere zoologico turdus sono ben noti per il loro dolce canto, e che i più comuni, all'interno del genere, sono il tordo canterino, il merlo e la tordella gazzina. Aggiunge infine che i varî tordi sono "ben distribuiti dall'Europa sino all'Asia occidentale e centrale" e che in India il tordo e la ciarla sono definiti con termini comuni, che designano entrambi tali uccelli.

Mosca.

Il nome di questo insetto si è conservato nei millennî, sino a giungere alla nostra lingua del tutto simile a quello utilizzato in tempi arcaici dal vocabolario indoeuropeo. Attraverso il latino musca ci giunge sin dalla radice indoeuropea *mus, ampliata in *mus-k~ . Questo tema è stato ricostruito dai linguisti tramite la comparazione con l'antico basso tedesco muggia, il norreno my, il lituano musè, l'antico slavo muxa, il greco antico myîa, l'albanese mizN e l'armeno mun. Si delinea così la radice *mus, attestata nelle aree baltica, slava e greca; ampliata da *-ka nel latino e ridotta alla forma *mu o *mã nelle aree germanica, albanese e armena.
 
 

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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme]

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