Leonardo Sciascia e il caso Majorana:
siciliani scompaiono nel nulla,
ma un'ipotesi tarda ad apparire...

(Umberto Bartocci)


 


1 - Preambolo

"Nel momento in cui Nisticò ci diceva della inaspettata, insospettata, incredibile notizia che la lontana voce dell'amico gli aveva rivelata, noi abbiamo vissuto un'esperienza di rivelazione, una esperienza metafisica, una esperienza mistica: abbiamo avuto, al di là della ragione, la razionale certezza che, rispondenti o no a fatti reali e verificabili, quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato."

Il lettore devoto di Leonardo Sciascia avrà certamente riconosciuto nelle righe precedenti uno dei passaggi conclusivi del pamphlet che quest'autore dedicò, nel 1975, alla scomparsa dello scienziato catanese Ettore Majorana, verificatasi nel 1938, un anno prima della più terribile guerra che l'umanità finora ricordi1. Esse descrivono l'esperienza, appunto quasi mistica, dell'illuminazione "immediata", che permette all'improvviso alla mente di comprendere quanto era rimasto ostinatamente celato ad ogni precedente sforzo concettuale. Allo storico della scienza esse riecheggiano le parole con le quali Sir William Rowan Hamilton illustrò, nel 1858, la sua scoperta dei quaternioni:

"Essi videro la luce, già completamente cresciuti, il 16 ottobre 1843 [H. aveva allora 38 anni], mentre stavo passeggiando a Dublino con la signora Hamilton risalendo verso il Brougham Bridge. In altre parole, là e allora sentii chiudersi il circuito galvanico del pensiero e le scintille che si sprigionarono da esso furono le equazioni fondamentali tra I, J e K, esattamente tali e quali le ho sempre usate da allora in poi. Tirai fuori sul posto un notes, che esiste ancora, e vi scrissi sopra un'annotazione, sulla quale, in quello stesso istante, mi accorsi che avrebbe potuto valere la pena di spendere la fatica dei prossimi dieci (o forse quindici) anni della mia vita ... mi accorsi che era stato risolto in quel momento un problema, era stato alleviato un bisogno intellettuale, che mi aveva ossessionato per almeno quindici anni"2.

Bene, se il valore di un'intuizione di tipo scientifico è abbastanza presto verificabile e oggettivo (avremmo potuto parlare in modo analogo della mela di Newton, che suggerì la legge di gravitazione universale, o dell'ascensore di Einstein, ispiratore del principio di equivalenza della relatività generale), e le equazioni di Hamilton sono ancora lì, materia di studio per ogni allievo d'algebra del globo, per quelle di tipo storico la questione appare alquanto diversa, e la certezza che proviene da siffatte "illuminazioni" rischia di avere spesso una valenza poco più che personale. Se Sciascia era davvero convinto che Majorana aveva deciso di finire i suoi giorni nella pace di un convento, del pari sicuri di avere trovato la soluzione del dilemma della celebre scomparsa sono Erasmo Recami3, con la sua ipotesi della fuga in Argentina, o Bruno Russo4, che propende nettamente per il suicidio, etc..

Mi permetterò di esporre nelle pagine seguenti qualche riserva logica su tutte queste "soluzioni", sperando che gli "Amici di Leonardo Sciascia" mi vorranno perdonare se il primo dubbio che cartesianamente5 avanzerò riguarda proprio la sincerità dell'ipotesi proposta dal loro beniamino: era questi realmente convinto di avere fornito la vera spiegazione del caso? E, comunque, quello da lui illustrato, può ritenersi un esito plausibile della faccenda, coerente con i (pochi) dati che abbiamo a disposizione?

Alla prima domanda si potrebbe rispondere che sì, perché dubitare del contrario?!, ma in effetti ho minori perplessità sulla completa "buona fede" degli altri due autori citati. Invece, per ciò che riguarda Sciascia (un siciliano, bene al corrente quindi di costumi e "situazioni" del luogo), resto con qualche incertezza, poiché non posso dimenticare l'intelligenza acuta, e quindi scomoda, che egli esercitò in altri analoghi contesti, mentre la "soluzione" intimistico-spiritualistica da lui escogitata appare abbastanza incolore, non all'altezza insomma del suo talento investigativo, e di un affare che, a mio modo di intuire, potrebbe avere probabilmente dei risvolti assai più "oscuri" di quanto l'opinione pubblica non sia stata mai indotta a credere (e con queste parole rispondo anche alla seconda domanda). Ma procediamo con ordine...

2 - "Malizia" interpretativa all'opera

Partiamo dall'episodio del concorso che condusse Majorana alla cattedra universitaria, appena pochi mesi prima della sua morte (e già, è bene cominciare a introdurre subito l'avvenimento che farà da cornice alle presenti riflessioni). Sciascia, usando soltanto la propria esperienza, da profondo conoscitore di uomini ed ambienti, ne offre una spiegazione assolutamente realistica e credibile, che val la pena rileggere insieme tutta intera.

"Majorana dimostra invece di poter rientrare quando vuole in quella che Amaldi chiama la vita normale. E ci rientra, crediamo, per un 'normale' ripicco, per un risveglio di quel latente antagonismo nei riguardi di Fermi e dei 'ragazzi di via Panisperna', che non erano più ragazzi, ma professori ordinarî o incaricati - con tutto quel che comporta, sul piano delle strategie e tattiche interne, sul piano del costume, l'esser professori in Italia, il far parte in Italia della vita accademica (ma non soltanto in Italia). E dispiace dover dire che è un po' una mistificazione la versione che da parte accademica si dà del rientro di Ettore Majorana nella 'normalità': che cioè furono Fermi e gli altri amici a convincerlo di partecipare al concorso per la cattedra di Fisica Teorica. In realtà i conti per l'attribuzione delle tre cattedre messe a concorso erano stati fatti sull'assenza e non sulla partecipazione di Majorana; e la decisione di concorrere crediamo sia scattata in Majorana dal gusto di guastare un giuoco preparato a sua insaputa ed a sua esclusione. Candidamente, Laura Fermi rompe quella specie di omertà che si è stabilita sull'episodio e racconta le cose per come effettivamente sono andate. La terna dei vincitori era stata già tranquillamente decisa, come d'uso, prima della espletazione del concorso; e in quest'ordine: Giancarlo Wick primo, Giulio Racah secondo, Giovanni Gentile junior terzo. 'La commissione, di cui faceva parte anche Fermi, si riunì a esaminare i titoli dei candidati. A questo punto un avvenimento imprevisto rese vane le previsioni: Majorana decise improvvisamente di concorrere, senza consultarsi con nessuno. Le conseguenze della sua decisione erano evidenti: egli sarebbe riuscito primo e Giovannino Gentile non sarebbe entrato in terna'. Di fronte a questo pericolo, il filosofo Giovanni Gentile svegliò in sé le energie e gli accorgimenti del buon padre di famiglia dell'agro di Castelvetrano: dal ministro dell'Educazione Nazionale fece ordinare la sospensione del concorso; e fu ripreso dopo la graziosa eliminazione da concorrente di Ettore Majorana, nominato alla cattedra di Fisica Teorica dell'Università di Napoli per 'chiara fama', in base a una vecchia legge del ministro Casati rinvigorita dal fascismo nel 1935. Tutto tornò dunque nell'ordine. E a Majorana toccò di rientrare sul serio nella 'normalità': ché aveva partecipato al concorso soltanto per fare acre scherzo ai colleghi. Tra i quali più tardi, dopo la scomparsa, prese piede la convinzione che fosse fuggito per il panico, il trauma, di dover comunicare, di dover insegnare. Come a dire che ben gli stava." (p. 51; i numeri di pagina sono relativi alla prima edizione del libro).

Naturalmente queste parole (e il complessivo impianto della ricostruzione sciasciana, che faceva riferimento alle scoperte di fisica che sarebbero sfociate di lì a poco nelle applicazioni dell'energia atomica a fini bellici, e alla sopravvenuta estraneità tra Majorana e gli altri "ragazzi di via Panisperna") non fecero piacere ai diretti interessati, e puntualmente Edoardo Amaldi replicò a Sciascia dalle pagine de L'Espresso6. "Fantasioso ed infondato" il ritenere che il fisico siciliano possa aver "previsto specificamente il pericolo delle armi atomiche incombente sull'umanità", in quel tempo non ci pensava nessuno7; ma soprattutto falso supporre che esistesse "una forma di contrapposizione fra Ettore Majorana ed Enrico Fermi8. I rapporti fra i due sono stati sempre più che buoni".

Soffermiamoci su quest'ultima affermazione: proviene da un testimone oculare, ed è in teoria9 degna di essere presa in maggiore considerazione delle deduzioni di chicchessia. Elemento fondante del ragionamento di Sciascia è la constatazione che, dopo la cessata frequentazione da parte di Majorana dell'Istituto di via Panisperna (ma non degli studi di fisica!10), Fermi non andasse mai a trovarlo, segno che "i loro rapporti non erano mai stati amichevoli o non lo erano più" (p. 48 - enfasi del presente autore). Ma senza pretendere di dirimere la questione teorica di quale delle due categorie di indizi sia più rilevante, ed invitando il lettore ad agire nella veste di vero e proprio giudice11, portiamo in scena un'altra testimonianza diretta, di solito ignorata da chi si è occupato finora del "mistero" in parola. Si tratta di quella che viene offerta da Oscar D'Agostino, uno dei primi attori delle ricerche che condussero infine alla bomba atomica12:

"[Majorana] Tornò più volte in via Panisperna per discutere con Fermi su tutte le questioni teoriche che erano state, per così dire, messe sul tappeto dalle stesse scoperte di Fermi e da quelle immediatamente precedenti dei coniugi Joliot-Curie. Un pomeriggio Amaldi ed io arrivammo all'Istituto di Fisica verso le due. Fatti pochi passi cominciammo a percepire grida ed esclamazioni assai vivaci. Riconoscemmo la voce di Fermi e ci stupimmo non poco. Non avevamo mai udito Fermi urlare. La porta dello studio era aperta: Fermi e Majorana, davanti a grosse lavagne piene di numeri e di strani segni più o meno cabalistici, si davano reciprocamente del cretino e dell'asino. La disputa era incominciata verso mezzogiorno. Nel calore della discussione nessuno dei due fisici aveva pensato di andare a pranzo. Fu quella l'ultima volta che vidi Majorana."

Non ce ne sarebbe ovviamente bisogno, ma sottolineiamo pure, per i "distratti", che, secondo le dichiarazioni di quest'altro testimone oculare, come già detto da tutti solitamente trascurato, Amaldi stesso fu presente all'episodio, e che quella sopra riferita non può essere considerata una naturale comune sfuriata, con successiva rappacificazione, perché dopo di allora D'Agostino non vide mai più Majorana in via Panisperna! (l'accaduto si riferisce alla tarda primavera del 1934, quindi a ben 4 anni prima della scomparsa del povero Ettore).

3 - Altre scomparse

Amaldi dunque rimprovera Sciascia per aver esercitato troppa fantasia, essersi preso delle discutibili eccessive libertà, nella costruzione del suo "giallo", "in una prospettiva che spesso caratterizza più l'autore che la vicenda trattata". Un lavoro da letterato, da artista, il suo, di nessun valore dal punto di vista storico. Muoverò invece qui di seguito all'autore di Racalmuto la critica di aver messo in campo troppo poca fantasia, e che di questa sua deficienza era forse ben consapevole.

E' chiaro che sarà necessario preliminarmente delineare un plausibile scenario alternativo, a quello che in fondo accomunava tanto Amaldi quanto Sciascia. Per usare ancora le parole del primo, il problema sarebbe "di comprendere le ragioni per cui Ettore Majorana abbia deciso di scomparire (e sia scomparso)", prefigurando già così l'unica possibile soluzione del caso della quale sarebbe legittimo discutere13. Ma se Majorana NON avesse optato per una "fuga dal mondo", e il senso di tutto l'accaduto fosse viceversa l'aver quegli SUBÌTO, e non SCELTO, la sua sorte? E una simile eventualità, trattandosi a fortiori di un siciliano che scompare nella sua terra d'origine, non sarebbe dovuta venire in mente proprio a Sciascia, che di altrettanto analoghe luttuose sparizioni ben sapeva, e sulle quali aveva anzi basato diverse sue storie?

Nel primo racconto di Sciascia dedicato alla conquista (o riconquista) della Sicilia da parte della mafia (Il giorno della civetta, 1961) "scompare" un certo Nicolosi, che aveva avuto l'unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato14. Nella successiva storia, affine alla precedente per tema ed ambientazione (A ciascuno il suo, 1966), "scompare" il Prof. Laurana, che si spera possa risaltare fuori un momento o l'altro, "come un gatto che è andato a passare qualche giorno sui tetti", laddove in verità già "giaceva sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d'aria, tra il suo paese e il capoluogo" (enfasi del presente autore).

Fin qui la "fantasia" letteraria - anche se, si sa bene, il confine con verità ispiratrici è assai labile - ma certamente Sciascia non poteva ignorare, nel mentre poneva attenzione alla vicenda Majorana, l'effettiva scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970 in piena Palermo (e a maggior ragione dappoiché lo sventurato aveva scritto, solo qualche anno prima, un'inchiesta in tre puntate proprio sulla storia del fisico catanese15).

Tre "persone", tra realtà e immaginazione, che non si rintracciano più, in circostanze dietro le quali si profila minacciosa l'ombra della mafia, e non il desiderio di rifarsi una vita altrove, o dedicarsi pacificamente alla meditazione spirituale e alla preghiera: parlando sotto il profilo delle pure ipotesi logiche, si può davvero scartare a priori tale "pista" nel caso di cui ci stiamo occupando, e confinarla nel novero delle ricostruzioni "fantasiose", che andrebbero "tralasciate per ovvi motivi"16?

Non è questo breve articolo naturalmente la sede adatta per discutere i pro e i contro di un'ipotesi di soluzione conforme a siffatte premesse17, ma la si può comunque cercare di riassumere così. Majorana potrebbe essere scomparso perché, nei preparativi del conflitto mondiale che appariva sempre più ineluttabile, le applicazioni di alcune recenti scoperte scientifiche sembravano poter assumere presto un importante rilievo, tanto che la corsa all'accaparramento dei principali esperti di talune questioni era già cominciata18. Il timore che lo scienziato siciliano potesse restare in un certo campo, anziché nell'altro, può aver fatto precipitare una tragica decisione, alla cui esecuzione la famigerata organizzazione criminale, evidentemente già allora collusa con i servizi segreti americani, si sarebbe prestata. La tesi della fuga, o del suicidio, sarebbero state volutamente accreditate (in qualche modo facilitate dagli ultimi inconsulti tentativi di Majorana stesso di sottrarsi ai presumibili rischi che correva, o a eventuali pressioni indesiderate), per non attirare l'attenzione del governo fascista su un ambiente che desiderava al tempo su di sé molte più ombre che non luci19.

Se ne trarrebbe che gli "ovvi motivi" di cui sopra, piuttosto che nella manifesta infondatezza di considerazioni dietrologiche (una "parola magica" che, una volta pronunciata, sembra oggi mettere a posto ogni coscienza), consisterebbero allora soprattutto:

i - nella scarsa volontà di tutti (compresa la stessa famiglia Majorana, naturalmente ad eventi bellici conclusi) di chiarire la posizione dello scienziato in ordine al suo possibile schieramento dalla parte dei "cattivi", e non da quella dei "buoni"20;

ii - nell'ovvio desiderio di non approfondire i particolari della vicenda da parte di coloro che vi furono personalmente (e forse drammaticamente) coinvolti, in modo più o meno diretto;

iii - nell'intento politico di non riproporre, attraverso la discussione di un caso tutto sommato "marginale", la questione dei rapporti della mafia con il fascismo, a seguito della nota campagna del prefetto Mori, e la successiva collaborazione di questa dalla parte degli alleati (o dei futuri alleati) contro il governo persecutore21;

iv - il rifiuto di dibattere il precedente punto consente altresì di non indagare in determinate direzioni - "pericolose" per chi le segue, come il povero De Mauro sperimentò di persona - le possibili ulteriori connessioni tra mafia ed interessi americani in Italia, caso Mattei docet22.

E' il complesso di tali motivazioni che potrebbe forse spiegare come mai una particolare ipotesi investigativa sia rimasta sempre sciaguratamente assente dal campo, quasi un tabù ideologico impedisse addirittura di pensarla (e se ciò può essere scusabile per quanto si riferisce alle indagini del 1938, lo diventa assai meno per chi dovrebbe avere a suo favore almeno il senno di poi). Perché anche solo pronunciare nel presente contesto la terribile parola: "omicidio" - sebbene è probabile che si sia trattato di un "delitto di stato" - rimanderebbe alla ricerca del possibile "omicida", e dei suoi mandanti, ma guai a cominciare a gettare sia pure ragionevoli dubbi sugli intimi, tutti assolutamente al di sopra di ogni sospetto, proprio come nelle migliori storie di Sciascia, per l'appunto, che la sapeva assai lunga in proposito...

4 - Conclusioni

Per proseguire nella metafora di tipo giudiziario, dopo l'accusa, un po' di "difesa". Si potrebbe per esempio sostenere che il lavoro di Sciascia non dovrebbe essere inquadrato nella categoria della "cronaca", o del resoconto storico, come abbiamo finora fatto, ma in quella del mero espediente letterario. Ovvero, una semplice finzione, la vicenda terrena di Majorana offrendosi opportuna a simbolizzare - secondo la personale prospettiva ideologica dell'autore, e la "soluzione" da questi prescelta - la figura dello scienziato pentito, il quale, presago degli orrori che sarebbero usciti dal vaso di Pandora incautamente aperto dai suoi colleghi, compie una scelta spirituale, e si ritira dalle brame del mondo23. Anche la tesi del suicidio si sarebbe prestata altrettanto bene, del resto, per un siffatto utilizzo della vicenda in chiave allegorico-morale, né è mancato infatti chi (soprattutto in occasioni di tipo popolare-divulgativo) ha proposto a tale scopo questa "spiegazione", indicando negli scrupoli dello scienziato, più sensibile degli altri apprendisti stregoni manipolatori della materia, il principale movente per l'eventuale atto estremo24.

Sinceramente, ritengo che la detta linea di difesa sia decisamente debole, e che, affrontando gli avvenimenti in parola, il nostro autore avesse l'intenzione di restare sul versante della realtà, e non su quello dell'immaginazione. E allora, quali conclusioni trarre in definitiva? Se fosse vera, anche solo in qualcuna delle sue linee generali, la ricostruzione sopra accennata, Sciascia non avrebbe saputo (o voluto) "intuire" nulla di ciò che potrebbe essere veramente accaduto25? (escludendo naturalmente l'eventualità che abbia compiuto opera di volontario "depistaggio").

C'è un'altra possibile più convincente difesa, che passa attraverso un tentativo di autentica comprensione del "metodo" dello scrittore, della sua personalità, e l'unico modo per individuarli è, al solito, quello di far parlare egli stesso.

"Ho impiegato addirittura un anno ... per far più corto questo racconto ... Ma il risultato cui questo mio lavoro di cavare [corsivo nel testo] voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze [corsivi del presente autore!] di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio ... Non mi sento eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e, più che le leggi, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a cavare ... Può darsi che il racconto ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque, che non l'ho scritto con quella piena libertà di cui uno scrittore (e mi dico scrittore soltanto per il fatto che mi trovo a scrivere) dovrebbe sempre godere [ancora una volta, il corsivo è aggiunto]. Inutile dire che non c'è nel racconto personaggio o fatto che abbia rispondenza, se non fortuita, con persone esistenti e fatti accaduti".

Queste parole, quasi una straordinaria "confessione", sono contenute in una nota finale apposta a Il giorno della civetta, e si può dire che esse non richiedano ulteriori commenti, ad illustrazione dell'ipotesi interpretativa cui abbiamo accennato. Del resto, se quella del capitano Bellodi era dichiaratamente un'opera di fantasia, quanto più allora certe cautele, certa profonda amarezza e disistima per l'ambiente in cui si trovava a vivere, debbono avere condizionato la "libertà" dello scrittore nel trattare un caso fin troppo concreto? E, ancora, se questi ricevette critiche per aver solo osato pensare a un concorso pilotato (e quando mai nell'ambiente universitario?!), e a possibili "rancori" all'interno di un gruppo di scienziati-professori (in Italia siamo sempre tutti "amici", o almeno così bisogna dire, e scrivere, nonostante ogni evidenza contraria - anche se, per fortuna, non necessariamente "amici degli amici"), figurarsi se avrebbe potuto lasciarsi andare ad esprimere alcuni dubbi, oppure ad accennare soltanto, così per puro esercizio di logica e libertà, a piste che andrebbero (avrebbero dovuto essere sin dall'inizio) perseguite con maggiore rigore, e soprattutto totale assenza di pregiudizi. L'infondatezza di certe supposizioni potrebbe essere provata solamente dopo indagini davvero degne di questo nome, e non per via di anatemi (pur sempre efficaci, specialmente sugli "uomini di cultura" che, da sempre bramosi di servire il potere del momento per ricavarne benefici, evitano di contrastarlo, o di fungere pubblicamente da sua "coscienza critica" - il pessimismo civile di Sciascia, con ciò che ne consegue in ordine all'inutilità dell'agire, riguarderebbe una tipologia diversa di intellettuale26).

Potremmo interrompere qui la nostra analisi, ma desiderio di completezza, e forse di "provocazione", ci spinge a chiederci se, una persona intelligente come Sciascia, non abbia lasciato forse, confuse nella sua opera complessiva, delle "tracce" del suo reale pensiero. E allora non resisto a dire che la mia fantasia maliziosa avverte una sorta di parallelismo tra la fine di Majorana e quella del povero professor Laurana (eh sì, professori entrambi, legati inoltre dalla funzione, oltre che dall'assonanza botanica dei cognomi), che capisce troppo e scompare, di quell'improvvisato detective della cui ingenua onestà e curiosità non ci si poteva "fidare" (addirittura: "cretino", è l'ultimo appellativo che si usa per lui nel libro), ma che al contrario si fida di chi, malgrado fosse abbastanza sconosciuto, gli offre un passaggio in auto per tornare a casa. Quasi che Sciascia avesse voluto dire che, a cercar bene, il corpo di Majorana - come quello dell'altro sfortunato De Mauro27, e di chissà quanti altri - avrebbe potuto essere ritrovato poco distante da Palermo (quante volte non sarebbe meglio appunto, in simili casi, scavare vicino, che non cercare lontano?!), in una zolfara, o in un chiarchiaro, piuttosto che all'ombra del silenzioso chiostro di un convento, o addirittura in un'altra parte del mondo, alla stregua di un banchiere fuggito con i risparmi dei suoi clienti...

Un'ipotesi troppo "scottante" questa per poter essere sia pure solo sussurrata ancora oggi? Bene, aspettiamo allora che più acqua passi sotto i ponti, ma cominciamo ad alimentare di nascosto, nell'ombra delle nostre menti, un piccolo dubbio, anche se sono persuaso che, proprio come nel "caso Laurana", soltanto quel "cretino" (e tale pure è forse il sottoscritto!) non aveva piena consapevolezza di fatti che viceversa tutti conoscevano assai bene...
 
 


Note


 






1 - La pubblicazione in volume era stata preceduta da 7 articoli apparsi su La Stampa tra il 31 agosto e il 7 settembre 1975, presentati come un "giallo filosofico". C'è perfetta corrispondenza tra questi e il successivo libro (che era peraltro annunciato con un titolo diverso: E possibilmente anche dopo), a parte l'aggiunta di numerose note a pie' di pagina, che non appaiono nel quotidiano.

2 - Morris Kline, Storia del pensiero matematico, Ed. Einaudi, Torino, 1991, vol. II, p. 908.

3 - Erasmo Recami, Il caso Majorana, Ed. Mondadori, Milano, 1987. In quest'opera, assolutamente fondamentale per chiunque voglia conoscere ogni elemento documentario sulla vicenda, sono riportate tutte le lettere dello scienziato scomparso, alcuni brani delle quali nel seguito citeremo senza ulteriore esplicita indicazione.

4 - Bruno Russo, Ettore Majorana - un giorno di marzo, Ed. Flaccovio, Palermo, 1997.

5 - Il primo dei principi della filosofia di Cartesio recita appunto: "Che per esaminare la verità si deve, una volta nella vita, porre tutto in dubbio, quanto è possibile".

6 - 5 ottobre 1975. Amaldi replicava alla serie di articoli apparsi sul quotidiano torinese (vedi nota 1). Nel sottotitolo del pezzo in oggetto compaiono le parole: "Secondo Leonardo Sciascia il fisico Majorana 'non morì suicida nel 1936 [sic], ma si rifugiò in un convento'. Perché? 'Per orrore dell'atomica e rancore verso i suoi colleghi'. Ma Edoardo Amaldi, che fu suo amico e collega di Fermi, sostiene che non è vero...". L'espressione "Per orrore dell'atomica etc.", pur riportata tra virgolette, non sembra comparire in effetti nel lavoro di Sciascia, il quale, anziché "rancore", si limita ad utilizzare termini quali: antagonismo, diffidenza, estraneità, ripicco, puntiglio.

7 - C'è assai da dubitare di questa affermazione, e in effetti una sua smentita è essenziale per lo scenario alternativo che qui si proporrà. Si veda allora al riguardo quanto viene riportato nello studio del presente autore, La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?, Ed. Andromeda, Bologna, 1999, pp. 57 e segg.. Amaldi entra in particolari scientifici in effetti sconosciuti all'epoca di Majorana, necessari però per la costruzione della bomba, ma ovviamente la convinzione che qualcosa possa essere conseguito percorrendo una certa strada è cosa ben diversa dalla conoscenza completa di tutti i dettagli e le difficoltà dell'operazione, che si è rivelata certamente più complessa di quanto l'immaginazione delle persone coinvolte nella vicenda, negli anni dal '34 al '38, poteva ragionevolmente prevedere. Nell'analizzare i problemi teorici e sperimentali che bisognava ancora superare, Amaldi ci rivela comunque un particolare significativo, e cioè che Majorana era molto interessato a fare previsioni "per vedere quale dei due gruppi di potenze che entro qualche anno si sarebbero con ogni probabilità affrontati, aveva maggiori probabilità di prevalere"! Come dire che almeno la consapevolezza dell'imminente conflitto era ben presente tra i fisici di via Panisperna.

8 - Amaldi si affanna anche a sottolineare come i prevedibili vincitori del concorso "secondo giustizia" fossero tutti assolutamente meritevoli, ma il giudizio di Majorana su almeno uno di questi non è propriamente positivo. Citiamo da una lettera al sincero amico Giovanni Gentile jr.: "Ho visto il lavoro di Racah, ma solo nelle bozze. Nella seconda parte vi è qualcosa di reale: cioè l'effettiva applicazione alla teoria b e le critiche che mi rivolge. La prima parte non è originale e anche come matematica è traballante: Racah non sa, o non crede, che gli spinori hanno due valori e ne trascura le conseguenze. Cose che succedono sempre quando si impara da altri (Pauli) piuttosto che da se stessi". Si tratta di uno scritto del 21.11.37, dei tempi cioè del famoso concorso, a proposito della quanto meno anomala e rara conduzione del quale, Majorana ebbe a dire: "Ho riso alquanto per le stranezze procedurali del mio concorso, delle quali non avevo alcun sospetto"; "se al prossimo conclave mi fanno papa per meriti eccezionali accetto senz'altro" (da lettere allo zio Quirino Majorana, noto fisico, oppositore della teoria della relatività di Einstein, 16.11.37, e a Gentile, 21.11.37). Né del resto si può fare a meno di sentire acre ironia in queste altre parole, sempre indirizzate a Gentile (e qui siamo al 12.3.1933, l'anno che segnò l'inizio del definitivo distacco dai colleghi romani): "Ho avuto da Roma una copia della grande opera di Fermi e Segrè che apparirà presto fra le memorie dell'Accademia. A questa dovrà seguire un'altra grande opera di Fermi e Amaldi sui calcoli statistici". Sarebbe interessante naturalmente discutere se esistessero anche altre e più importanti ragioni di contrapposizione all'interno del gruppo di via Panisperna, e quale ne fosse l'origine profonda, ma sono tutti argomenti sui quali si preferisce sempre sorvolare...

9 - Ci sarebbe da interrogarsi se ciò sia proprio vero. Una testimonianza, che può essere sempre interessata, vale davvero più di una sensata deduzione? Per trovare una risposta a questo interrogativo restando all'interno dell'universo sciasciano, citiamo da Il giorno della civetta (opera su cui presto ritorneremo): "- Lasciate che tutto arrivi al giudice istruttore: e intanto preparate per Diego un alibi di quelli che, a tentare di morderli, ci si rimettono i denti... - E che vuol dire? - Vuol dire che Diego, il giorno che Colasberna è stato ammazzato, alla stessa ora, stava mille miglia lontano dal luogo del delitto, e in compagnia di degnissime persone, mai censurate dalla legge, galantuomini della cui parola nessun giudice ha il diritto di dubitare...".

10 - Questo è un altro importante particolare sul quale giustamente insiste Sciascia, accennando per esempio alla corrispondenza scientifica tra Ettore e lo zio Quirino, già citato. Delle ultime eventuali ricerche di Majorana lo stesso Amaldi ammette: "Nessuno di noi riuscì però mai a sapere se facesse ancora della ricerca in fisica teorica; penso di sì, ma non ne ho alcuna prova" (l'affermazione è riportata da Sciascia, alla p. 48), pure: "[Majorana] Lavorava molto, per un numero di ore del tutto eccezionale" (ibidem), alla fine forse anche per "tenersi a quel livello di 'chiara fama' per cui era stato chiamato alla cattedra ... Non poteva ormai non stare alla pari di un Fermi" (p. 53). A tale proposito, un importante elemento da non sottovalutare, nella sua incongruità rispetto a versioni "buoniste" della vicenda, è il caso degli appunti scomparsi dello scienziato. Questi aveva consegnato infatti a una studentessa, proprio il giorno della sua ultima lezione a Napoli (sede dove Majorana era da poco venuto ad insegnare, in seguito al famoso concorso), certe carte, dalla ragazza date poi al fidanzato, assistente presso l'Istituto di Fisica della città partenopea, il quale le fece finire successivamente nelle mani del Prof. Carrelli, direttore del detto Istituto. Da allora di questi fogli si perde ogni notizia, avendoli Carrelli, a quel che pare, definitivamente perduti (perché non consegnati subito ai familiari dello scomparso?!). Si tratta di storia risaputa, che il libro di B. Russo, citato nella nota 4, riferisce invero molto bene (Cap. VI), aggiungendo anzi, rispetto ad altre fonti, un interessante dettaglio, ancora frutto di una testimonianza diretta: e cioè che lo stesso Carrelli aveva cercato di ottenere dagli studenti le annotazioni prese durante le lezioni del neo-professore!

11 - Sia pure soltanto di un ideale tribunale della storia, che non ha la responsabilità di stabilire colpe, e comminare pene, ma unicamente di pervenire ad interpretazioni credibili di eventi passati, possibilmente diverse e in alternativa - comunque, si potrebbe scommettere che funzionerebbe sempre meglio di tanti, troppi, dei nostri tribunali veri.

12 - I ricordi di D'Agostino (che era il chimico del gruppo di via Panisperna, sempre rimasto piuttosto in disparte nelle numerose "storie" ad esso dedicate) furono pubblicati in più puntate nel 1958 sul Candido, il "settimanale d'attualità e politica fondato da Giovannino Guareschi nel 1945" (si tratta qui in particolare del N. 24 del 15 giugno). Questa fonte, che appare diretta e sincera (in quanto evidentemente disinteressata), oltre che di prima mano, è ignorata dagli altri lavori sul caso Majorana che conosco, e che qui ho citato, ma forse, più che per volontà di non prendere in considerazione indizi che porterebbero su strade "rischiose", perché il Candido era un settimanale di destra, in un momento in cui la "cultura" italiana era principalmente di sinistra.

13 - Non è questo del resto l'unico punto nel quale Amaldi tende cripticamente ad orientare le ipotesi sulla scomparsa di Majorana solo in certe direzioni: "Quest'estate ... 'La Stampa' di Torino pubblicò un manipolo di 'rivelazioni' sulla scomparsa di Majorana ... [che] non giovavano a risolvere il 'mistero' Majorana, (se cioè si fosse veramente suicidato o se invece, tentato il suicidio, si fosse rinchiuso in un convento senza più dar notizie)" (tertium non datur?!).

14 - In questo caso, però, il cadavere dello sventurato viene successivamente rinvenuto in un chiarchiaro, ovvero "una zona pietrosa, un insieme di grotte, di buchi, di anfratti".

15 - L'Ora, Palermo, ottobre 1965.

16 - Utilizziamo qui espressioni contenute nel libro di Bruno Russo citato nella nota 4, p. 85. Questo lavoro, di dimensioni modeste come il suo contenuto generale, propende per l'ipotesi del suicidio, senza prendere minimamente in considerazione gli argomenti con i quali proprio Sciascia confutò brillantemente tale possibilità: "Esaurimento nervoso, dicono concordemente i testimoni (e lo dissero anche i medici di famiglia); e alcuni sarebbero costretti a parlare di follia, se non disponessero di questo delicato, 'moderno' eufemismo. Ma l'esaurimento nervoso o la follia non sono porte aperte da cui si entra e si esce quando si vuole.", p. 50; "altro elemento da tener presente contro la tesi del suicidio, Ettore Majorana portò con sé passaporto e denaro", p. 64. Ulteriori considerazioni contro questa soluzione sono contenute nello studio del presente autore, già citato nella nota 7.

17 - Rimandiamo allo studio indicato nella nota 7 il lettore interessato all'esame di questo tipo di ipotesi, oppure all'assai poco noto, dal momento che è pur esso ignorato dai lavori di maggiore diffusione dedicati alla vicenda: Salvo Bella, Rivelazioni sulla scomparsa di uno scienziato: Ettore Majorana, Ed. Italia Letteraria, Milano, 1975. Tale studio individua correttamente l'esistenza di una "macchinazione politica internazionale" (p. 142) dietro la sparizione dello scienziato, e il ruolo della mafia quale intermediario: "Grande rappresentante occulto degli americani era a quell'epoca il capomafia don Calò Vizzini, che nel 1943 ne organizzò lo sbarco in Sicilia", ma sembra poi "perdersi" nelle conclusioni, visto che Majorana sarebbe stato soltanto premurosamente aiutato a cambiare ... identità, e a nascondersi nelle vesti di un sacerdote. Del resto, anche questo autore appare vittima di un antifascismo di maniera, visto che ci tiene a sottolineare che Majorana "era antifascista e ogni capodanno scommetteva con gli amici che il regime sarebbe entro i dodici mesi caduto" (p. 156). Ma se Majorana fosse stato davvero antifascista, come gli altri fisici che lasciarono l'Italia per andare a costruire la bomba atomica negli Stati Uniti, sarebbe partito con loro, e se non avesse davvero voluto impegnarsi concretamente nell'impresa, lo avrebbero lasciato in pace a portare avanti le sue ricerche "astratte" in qualche istituto scientifico prestigioso. Sulla questione vedi la successiva nota 20.

18 - Anche se talune ipotesi resteranno probabilmente sempre confinate nel rango di illazioni, un fatto è sicuro, e consiste nella quasi sincrona fuga della maggior parte del gruppo dei fisici romani centro di questa storia nei mesi successivi alla scomparsa di Majorana, così come è certo che la gran parte di queste persone si troveranno poi in posizioni di rilievo nel famoso "progetto Manhattan". Pontecorvo era già all'estero dal 1936, e passò a lavorare negli Stati Uniti nel 1940 (da dove poi, nel 1950, operò il noto radicale cambiamento di campo, fuggendo con tutta la famiglia al di là della "cortina di ferro", a seguito di alcuni misteriosi episodi di spionaggio, i cui più autentici retroscena aspettano ancora di essere chiariti). Emilio Segrè si recò negli Stati Uniti già nel mese di luglio del 1938. Fermi lo raggiunse poco dopo, nel mese di dicembre dello stesso anno, assumendo il conferimento del premio Nobel a Stoccolma come pretesto per allontanarsi dall'Italia, dove non farà mai più se non saltuario ritorno (morirà a Chicago, nel 1954; a proposito di fascismo e di anti-fascismo nel gruppo dei fisici romani, Sciascia sottolinea opportunamente che fece scandalo al tempo la circostanza che, nel momento del ricevimento del Nobel, non effettuasse il prescritto saluto romano - p. 14). Amaldi andò oltreoceano nel luglio del 1939, e il giorno della dichiarazione ufficiale dello stato di guerra tra le potenze alleate e la Germania (3 settembre 1939) fu raggiunto dalla notizia che la Questura di Roma aveva impedito che la sua famiglia potesse seguirlo in America, sicché fu costretto a rientrare in Italia nel mese di ottobre, prima che il nostro paese entrasse a sua volta nel conflitto (10 giugno 1940). Il caso di Rasetti, assistente di Fermi, e l'unico dei protagonisti tuttora viventi di questa storia, fu del tutto diverso, e degno di particolare attenzione. Questi abbandonò definitivamente l'Italia nell'estate del 1939, ma la sua meta fu il Canada, dove lasciò, in maniera definitiva, gli studi di fisica, dedicandosi da allora in poi a quelli di scienze naturali (geologia e paleontologia), rifiutando sostanzialmente ogni contatto con gli ex-amici. Perché? Anche le possibili connotazioni psicologiche di tale peculiare comportamento potrebbero avere grande importanza sullo sfondo dello scenario alternativo qui proposto. Naturalmente, non furono soltanto i fisici romani a essere coinvolti in questa sorta di grandioso esodo scientifico; l'evento assunse dimensioni nazionali e internazionali. Tra gli altri fisici ebrei italiani inclusi nel progetto Manhattan, Bruno Rossi lasciò anch'egli l'Italia nel 1938, raggiungendo gli Stati Uniti dopo aver fatto tappa a Copenaghen; e come lui emigrarono, poco dopo, Giulio Racah (uno dei vincitori del "concorso" di cui al secondo paragrafo), che si recò però nell'attuale Israele, e il cugino Ugo Fano (che, già laureato, aveva studiato a Roma con Fermi). Per quel che riguarda ciò che accadde al di fuori dei nostri confini, a prescindere da Albert Einstein, che aveva già detto addio alla Germania per gli Stati Uniti nel 1933 (dove divenne professore presso l'oggi celeberrimo Istituto di Studi Avanzati di Princeton, allora appena istituito), e da Johann von Neumann, che si trovava negli USA dal 1930, lasciarono o avevano da poco lasciato l'Europa in quegli anni, per raggiungere i fisici americani Julius Robert Oppenheimer (il cosiddetto padre della bomba atomica) e Isidor Rabi (premio Nobel 1944), entrambi di origine ebraica: Niels Bohr, Max Born, Edward Teller (il futuro ideatore della bomba H), James Chadwick (lo scopritore del neutrone), Eugene Wigner (premio Nobel 1963), Leo Szilard, Hans Bethe, Klaus Fuchs (che fu poi accusato, nel 1949, di avere fatto la spia al servizio dei sovietici sin dal 1942; arrestato, a differenza di Pontecorvo - riuscito a fuggire prima, evitando simili accuse e conseguente reclusione - Fuchs poté riparare anche lui in URSS soltanto dopo uno scambio di prigionieri), Rudolf Peierls (leader del progetto atomico inglese, e "maestro" di Fuchs), George Placzek, Samuel Goudsmit, Otto Frisch, etc. (citando un po' alla rinfusa); tutti futuri membri, seppure a diverso titolo, dell'esclusivo club atomico. Si può aggiungere che numerosi di questi scienziati avevano trascorso qualche tempo presso l'Istituto di Fisica di Roma, nel momento di massimo splendore della "scuola" di Fermi.

19 - A dire il vero, nel corso delle mie personali "indagini", mi è pure venuta all'orecchio, in via riservata, una nuova "possibile verità", della stessa "tipologia" però di quella qui illustrata, anche se ad essa in qualche senso "antipodale". Majorana sarebbe fuggito volontariamente in Germania (lasciando credere di essersi tolto la vita), allo scopo di collaborare con alcuni scienziati del III Reich addetti al progetto della fantomatica "bomba atomica" tedesca, che aveva avuto modo di conoscere e stimare durante il suo soggiorno in Germania nel 1933; successivamente, alla conclusione delle ostilità, avrebbe trovato rifugio in Sud America, assieme ad altri gerarchi nazisti. L'ipotesi così sintetizzata, alla quale mi piace riferirmi come all'ipotesi Klingsor (ricollegandola al romanzo di Jorge Volpi, In cerca di Klingsor, Mondadori, 2000, dove peraltro non si nomina mai Majorana), ha diversi "meriti": per esempio è capace di spiegare talune voci di avvistamento dello scienziato in quella parte del mondo (a cui si dà molto credito, come si è ricordato, nel libro di Recami - ma, appunto, la vera fuga dall'Europa sarebbe avvenuta nel '45, e non nel '38!), oppure le chiacchiere relative a un suo ritiro, per ovvie ragioni del tutto occultato, in qualche convento italiano, a seguito di un ritorno nel nostro paese un numero imprecisato di anni dopo i drammatici eventi della guerra (vedi per esempio Sharo Gambino, L'atomica e il chiostro, Jaca Book, 2001). La famiglia - o almeno parte di essa, e da un certo punto in poi - sarebbe stata al corrente dei fatti, ma per comprensibili motivi avrebbe preferito continuare ad accreditare l'ipotesi del suicidio, tenuto conto che il collaborazionismo sarebbe stato ritenuto peccato ben peggiore da addebitare al congiunto. Si tratta di una ricostruzione logicamente decente (e coerente, al pari del resto di quella che ho deciso finora di privilegiare, con uno dei "dettagli" più inquietanti di tutto questo mistero, cioè la testimonianza, ingiustamente sottovalutata, della signora Fiorenza Tebalducci - cfr. lo studio citato nella nota 7, pp. 75 e segg.), se non fosse per due grosse obiezioni alle quali non riesco a trovare adeguata risposta. Perché tale specifico episodio sarebbe passato completamente sotto silenzio, quando numerosi particolari, riguardanti il ruolo di altri scienziati collaboratori dei nazionalsocialisti, sono stati divulgati? (vedi per esempio Operation Epsilon: The Farm Hall Transcripts, Inst. of Phys. Publ., Bristol, 1993, attualmente distribuito dalla Univ. of California Press). Perché soltanto alla memoria di Majorana sarebbe stato riservato un trattamento di favore, specialmente da parte di persone che - come Emilio Segrè, tanto per citare uno dei "ragazzi di via Panisperna" - non lo "amavano" di certo? Inoltre, se Majorana intendeva davvero fuggire in Germania simulando un suicidio, quale sarebbe il senso delle note "complicazioni": una prima lettera annunciante il suo proposito, poi una seconda in cui lo rinnegava, un viaggio a Palermo apparentemente inutile, il ritorno a Napoli, seppure realmente avvenuto, etc.?! Comunque sia, si è ahimé costretti a riconoscere che la completezza logica è il grande assente da tutte queste indagini, sia da quelle poliziesche veramente effettuate al tempo, che definire mediocri è un eufemismo [Sciascia, nel suo solito modo brillantemente pungente, così si esprime sul tema: "la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull'impegno, l'efficienza e l'acume di essa polizia [...] più o meno secondo i tempi, più o meno secondo i paesi ... E senz'altro riconosciamo di essere anche noi ingiusti nei riguardi della polizia italiana, del modo - che ci appare svogliato e senza acutezza - in cui la polizia italiana condusse le indagini per la scomparsa di Ettore Majorana. Non le condusse affatto, anzi: lasciò che le conducessero i familiari, limitandosi ... a 'collaborare' (e ad un certo punto, è facile immaginarlo, a fingere di collaborare).", p. 10], sia da quelle successive "letterarie", che è difficile non qualificare "deboli", e "conformiste"...

20 - Abbiamo già cominciato ad accennare alla spinosa questione delle eventuali "simpatie fasciste" di Ettore Majorana, altro elemento che curiosamente lo accomuna a Mauro De Mauro, che fu, con grave imbarazzo dei suoi successivi numerosi estimatori "democratici", combattente della R.S.I., e devoto del comandante della X MAS Junio Valerio Borghese (tanto da battezzare una propria figlia con il nome di Junia). Nel tentativo di "dimostrare" l'antifascismo di Majorana si affannano un po' tutti, dal Bella già citato (vedi nota 17), al Recami, al Russo, etc. (fino al punto che qualcuna delle ipotesi davvero più fantasiose contempla un intervento dei nostri servizi segreti contro Majorana: come è possibile però concepire questi intervenire contro il fisico siciliano, dubbiosi della sua "lealtà", e inattivi invece nei confronti dei ben più sospettabili di "collusione con il nemico" Fermi, o Segrè, tanto da consentirne addirittura qualche mese dopo i fatti che stiamo esaminando la partenza dall'Italia?!), ma non Sciascia, che anzi scrive molto onestamente: "Siamo nel 1933. E in Italia gli antifascisti è possibile incontrarli soltanto in carcere. Quattro anni prima c'era stata la 'conciliazione' tra Stato e Chiesa: i cattolici avevano sciolto le loro riserve nei riguardi del fascismo, i vescovi benedivano i gagliardetti e proclamavano Mussolini 'uomo della Provvidenza'. L'anno prima anche Pirandello aveva montato la guardia alla mostra del decennale della 'rivoluzione fascista'. Marconi presiedeva la reale Accademia d'Italia voluta da Mussolini. Fermi, accademico, era Sua Eccellenza Fermi. D'Annunzio ... continuava a mandare a Mussolini fraterni messaggi ... Del primato italiano negli armamenti, nel giuoco del calcio e nella fisica, nessuno dubitava. Tutto il mondo ammirava le imprese dell'aviazione italiana. Critici accademici e militanti esaltavano la prosa di Mussolini. Ad ogni discorso di Mussolini, piazza Venezia rombava di un consenso che trovava eco nei palazzi e nei tugurî ... E dovremmo proprio a Ettore Majorana, disimpegnato dalla politica al limite di quanto allora si poteva essere disimpegnati, distante, chiuso nei suoi pensieri, chiedere una netta ripulsa del fascismo, un duro giudizio sul nascente nazismo?" (pp. 42-43). A me sembra che basti, a risolvere la vexata quaestio, citare un passo di una delle prime lettere di Majorana scritte alla madre da Napoli (23.2.38): "Ho una stanza discreta; oggi me ne daranno una migliore su via Depretis, da cui potrò vedere fra tre mesi il passaggio di Hitler", ma naturalmente il problema è affrontato con maggiore ampiezza nello studio già citato nella nota 7.

21 - Su questo argomento lasciamo parlare ancora Sciascia, attraverso uno dei suoi più indimenticabili personaggi: "Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni ... Per il contadino, per il piccolo proprietario, per il pastore, per lo zolfataro, la dittatura parlava questo linguaggio di libertà. 'E questa è forse la ragione per cui in Sicilia ... ci sono tanti fascisti...'" (da Il giorno della civetta). Mi piace integrare queste considerazioni con un'ammissione di uno dei tanti pentiti (o, meglio, "collaboratori della giustizia") di oggi: "Cosa Nostra era stata debellata da Mussolini" (deposizione di Antonino Calderone, Verbale della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, N. 11, 1992, XI Legislatura, Presidenza Luciano Violante).

22 - La probabile connessione della scomparsa di Mauro De Mauro con le sue indagini relative all'assassinio di Enrico Mattei (avvenuto nel 1962, ma ufficialmente negato per ben 33 anni, visto che la "versione di Stato" ha sempre parlato di un incidente casuale; solo una perizia del 1995 ha finalmente rinvenuto "tracce di esplosivo nei resti dell'aereo e dei corpi") è brillantemente illustrata in: Luciano Mirone, Gli insabbiati - Storie di giornalisti uccisi dalla Mafia e sepolti dall'Indifferenza, Ed. Castelvecchi, Roma, 1999. In questo lavoro si riprende anche la questione dei rapporti tra mafia e governo degli Stati Uniti: "Vito Guarrasi, potentissimo ed enigmatico avvocato palermitano, è colui che dal dopoguerra è considerato la vera eminenza grigia nell'isola, l'anello di congiunzione dei poteri occulti fra la Sicilia e gli Stati Uniti"; "Esperto di finanza, schivo, colto, Vito Guarrasi ha sempre comandato da dietro le quinte ... l'8 settembre del '43, ad appena ventinove anni, è aiutante di campo del generale Castellano al momento della firma dell'armistizio di Cassibile, un atto segreto che fa da premessa allo sbarco dell'esercito anglo-americano in Sicilia. Guarrasi è una delle pochissime persone ammesse a partecipare allo storico avvenimento"; "Dice l'ex-senatore Carmine Mancuso: 'Il patto scellerato fra politica, massoneria e mafia avviene nel momento in cui gli alleati sbarcano in Sicilia: l'artefice di questo legame è il colonnello Charles Poletti'." [secondo le ipotesi avanzate nel presente articolo, il "patto" cui si fa cenno potrebbe risalire in verità anche a qualche anno prima, senza dimenticare peraltro che sia mafia che massoneria avevano motivi di risentimento diretto nei confronti del fascismo - mi sembra di fare cosa utile al lettore, interessato alla questione dell'esistenza di un eventuale "fronte interno" occulto in azione durante la guerra, citando il libro di Piero Baroni, Una patria venduta - Come tradimenti e congiure hanno portato alla disfatta dell'8 Settembre, Ed. Settimo Sigillo, Roma, 1999]; "Michele Pantaleone afferma: 'Guarrasi è determinante per l'occupazione della Sicilia ... dove la situazione era più tranquilla e la mafia si era messa a disposizione per dare il suo apporto logistico. Molti boss vennero nominati sindaci. Calogero Vizzini e Genco Russo divennero rispettivamente primi cittadini di Villalba e di Mussomeli ... Io sono convinto che fu Guarrasi ad indicare agli americani il nome di don Calò come una delle persone in grado di agevolare lo sbarco alleato'."; "Il magistrato Aldo Rizzo, ex-componente della commissione parlamentare sulla P2, aggiunge: 'Io escludo nella maniera più categorica che i delitti eccellenti palermitani abbiano soltanto una matrice mafiosa, cioè credo che la mafia sia stata soltanto il braccio armato di un disegno molto più complesso e molto più vasto. Il caso De Mauro bisogna inquadrarlo in una dimensione nazionale ed internazionale'." (pp. 66-68, e 77). Il presidente dell'ENI, che non può essere ovviamente considerato sospetto di alcun servilismo nei confronti delle "compagnie petrolifere americane e inglesi che dal 1928 detengono il monopolio mondiale sulla produzione e distribuzione del petrolio" (p. 62), era fautore di una strategia "terzomondista", che sosteneva la necessaria neutralità dell'Italia nella contrapposizione (a voler dubitare di tutto, quanto autentica?!) tra i due "blocchi" USA ed URSS, e si schierava, in tema di politiche energetiche, a favore di paesi quali Marocco, Libia, Sudan, etc..

23 - Tanto per dire, qualcosa del tipo I fisici, di Friedrich Dürrenmatt (1961), che però non ebbe bisogno di riferirsi a persone realmente vissute per esprimere le angosce di una generazione ossessionata dal timore di un possibile conflitto nucleare, e della probabile conseguente estinzione della specie umana.

24 - Citiamo alcuni eloquenti titoli di vari articoli scritti sul caso in discussione: "Rivive il dramma del primo suicidio atomico" (Sorrisi e Canzoni TV, 17.10.1971); "L'atomica a Mussolini? Meglio sparire" (Tempo Illustrato, 28.11.1971); "Il giovane fisico siciliano che morì per non vedere l'atomica" (Gente, 6.5.1972); "Si uccise per non vedere esplodere la sua bomba atomica" (Oggi, 6.5.1972) [queste informazioni bibliografiche vengono riprese da Leandro Castellani, Dossier Majorana, Ed. Fabbri, Milano, 1974].

25 - Poiché intendiamo procedere senza riguardi pregiudiziali nei confronti di alcuno, c'è da dire che questa possibilità non è del tutto destituita di fondamento, visto il modo con cui Sciascia tratta una informativa anonima del 1938, che ci sembra viceversa assai degna di attenzione: "Sempre a proposito di movimenti contro gli interessi italiani si prospetta in qualche ambiente, che la scomparsa del Majorana, uomo di grandissimo valore nel campo fisico e specialmente radio, l'unico che poteva seguitare gli studi di Marconi, nell'interesse della difesa nazionale, sia vittima di qualche oscuro complotto, per levarlo dalla circolazione". Sciascia si limita a commentarla dicendo che: "Questa breve comunicazione eloquentemente dice della estrazione e livello della generalità dei 'confidenti'. Gli 'ambienti' in cui allora poteva nascere il sospetto che nella scomparsa di Majorana ci fosse un intrigo spionistico 'contro gli interessi italiani', altri non potevano essere che quelli della burocrazia infima, dei portieri (categoria alla quale molto probabilmente l'anonimo 'confidente' apparteneva), dei bottegai; non certo quelli dei fisici, dei diplomatici, delle alte gerarchie militari o ministeriali. Ed è facile pensare che il sospetto sia nato dopo che La Domenica del Corriere pubblicò l'annuncio della scomparsa: e tra i lettori di quel settimanale" (p. 8). E ancora, altrove (p. 61): "Su questa strada si può anche arrivare all'amenità della mafia che si dedicasse alla tratta dei fisici come a quella delle bianche".

26 - Tra tante esperienze dolorose, si può ricordare la nota polemica con Renato Guttuso (1979).

27 - Per parlare ancora di informazioni anonime che, nonostante il generale disprezzo con cui vengono accolte, vanno talora assai vicino alla verità, nel Giornale di Sicilia del 4 novembre 1970 è riportata la notizia di una "lettera dattiloscritta anonima, spedita da Palermo alla sede centrale dell'agenzia ANSA", a Roma, da parte di una persona che si firma "Uno che sa e che ha paura", nella quale si dice testualmente: "Prego informare tutti i giornali d'Italia che il giornalista Mauro De Mauro (foggiano) è morto ed il suo corpo si trova a pochissimi km. da Trapani. Ritengo opportuno far sapere questa notizia alla opinione pubblica. Badate che dico la verità, e ve lo giuro sull'onor mio e su Dio. Non posso darvi il mio cognome, ho paura della mia [sic]: se non ritenete opportuno di diffondere codesta notizia è affar vostro, io me ne lavo le mani".
 
 

Ringraziamenti - Desidero esprimere la più viva gratitudine alle Ed. Castelvecchi; alla Biblioteca Comunale di San Giustino (Pg), nelle persone dei responsabili Gustavo Perugini e Giovanna Pucci; a Francesco Izzo, dell'Associazione "Amici di Leonardo Sciascia"; Roberto Lanfaloni; Marco Negri; Consolato (Tito) Pellegrino; Francesca Salvati; che mi hanno tutti, a vario titolo e modo, cortesemente aiutato durante la stesura del presente articolo.
 
 


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Postilla - Ritengo opportune (istruttive) alcune parole di chiarimento su una non proprio piacevole vicenda che è all'origine del precedente lavoro. Come il lettore avrà notato, esso è idealmente rivolto agli "Amici di Leonardo Sciascia", e in effetti fu terminato nell'estate dell'anno 2000 (la versione qui presentata è sostanzialmente immutata rispetto a quella, salvo un'estensione della Nota 19, relativamente all'ipotesi Klingsor), a seguito di un esplicito invito a redigere un articolo su Sciascia e Majorana rivoltomi da parte di un esponente di detta Associazione. Una sorta di aggiornamento, di messa a punto, delle considerazioni contenute nel libro sulla scomparsa dello scienziato siciliano che avevo scritto nel 1999, che potesse anche essere l'occasione per suscitare un eventuale dibattito per esempio con il Prof. Recami, sostenitore di tutt'altro parere, etc.. Esso "avrebbe potuto" essere inserito abbastanza sollecitamente (si parlava del successivo autunno) su una loro pubblicazione (non so/sapevo bene quale), e quindi elaborai con rapidità il pezzo che mi si richiedeva. Il conseguente dispendio di tempo e di energie fu compensato dal fatto che ritenni, senza falsa modestia, il risultato finale alquanto soddisfacente (nel senso di conforme alle intenzioni).

Dopo averlo spedito però al committente, per diverso tempo non ne seppi nulla, e allora qualche mese dopo chiesi sommessamente delle notizie in merito, ricevendo la risposta che sarebbe stato sottoposto, secondo una procedura del resto usuale a certi livelli, al giudizio di referee, e che entro la fine dell'anno mi sarebbe stato comunicato il responso. Passarono numerose settimane in assoluto silenzio, e tornai a chiedere, in primavera, delle nuove informazioni. Come probabile conseguenza della mia insistenza, finalmente ricevetti la seguente sintetica comunicazione:

"Subject: quaderni leonardo sciascia

Date: Tue, 15 May 2001 19:49:12 +0200

Egregio prof. Bartocci,

Le scrivo a nome del comitato di redazione dei "Quaderni Leonardo Sciascia", i cui lavori coordino da qualche mese. Già da tempo [...] mi inoltrò il Suo testo dedicato alla Scomparsa di Majorana e mi scuso per l'imperdonabile ritardo con il quale Le rispondo. Come Lei saprà, ogni testo sottoposto alla rivista viene vagliato da diverse persone per avere una pluralità di pareri, e questo lavoro di smistamento, per mia colpa esclusiva, è avvenuto in tempi lentissimi; solo adesso stiamo riuscendo a venire a capo della faccenda, potendo disporre di tutti i risultati dei "pareri incrociati". Mi spiace comunicarLe che il Suo testo non è stato ritenuto - nella versione che Lei ci inoltrò - convincente ai fini della pubblicazione. Naturalmente, rimaniamo a Sua disposizione qualora Lei, eventualmente ritornando sulla sua ricerca con un "supplemento d'indagine" e con diverse argomentazioni, volesse ancora sottoporci i frutti del Suo lavoro.

Scusandomi ancora per il ritardo, La prego di gradire i miei più cordiali saluti

[...] [la comunicazione era firmata]"

Replicai al tempo con il seguente messaggio, che "ovviamente" non ebbe alcun riscontro:

" Caro [...],

ringrazio comunque per l'attenzione, e la comunicazione della vostra decisione che mi consente di proporre la pubblicazione dell'articolo in altre sedi [...] Per "migliorare" eventualmente l'articolo (problemi di contenuto? di forma? incompletezze? veri e propri errori relativi a dati di fatto?), mi sarebbero state utili vostre esplicite osservazioni..."

Ho detto "ovviamente" non alla leggera, perché, come si sarà ben capito, sono viceversa persuaso che lo scritto in parola sia degno di attenzione, almeno superiore alle usuali comuni, ritrite, scontate considerazioni sulla questione (comprese quelle di chi mi indirizzò il precedente mail, autore di un breve commento al libro di Sciascia dedicato a Majorana), e che le motivazioni del detto rifiuto siano da ricercarsi altrove (ciò che sempre accade con contributi "scomodi" - si veda per esempio il caso integralmente documentato in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/LINCPOL.htm), piuttosto che nel fatto che le argomentazioni addotte a favore della mia ipotesi generale siano "non convincenti"*. Non ho mai sostenuto del resto di aver descritto una "verità", tanto meno definitiva, ma che le congetture avanzate sono del tutto "naturali", e che e' bene cominciare a prenderle in seria considerazione. Un investigatore che le escludesse "per principio" (non si debbono mai imbarazzare con sconvenienti domande persone "al di sopra di ogni sospetto"!), assomiglierebbe molto ai due sfortunati rappresentanti della legge immaginati dalla fervida fantasia di Andrea Camilleri nel delizioso La scomparsa di Patò (Mondadori, 2000), i quali furono appunto chiamati dal destino (e dai loro superiori, adamantini "servitori della Verità" - loc. cit., p. 228) a dover indagare sulla scomparsa dell'inappuntabile ragioniere (che "scomparve, o venne fatto scomparire" - loc. cit., p. 49), con esiti che non riveliamo per non togliere sorpresa, e divertimento, ai lettori. Mi piace soltanto citare a conclusione della presente postilla un commento inviatomi da una delle persone che a suo tempo ricevettero il preprint:

- "La morale del libro mi sembra chiara. Non cercate la verità sui rapporti ufficiali. Quelli se mai escludono, categoricamente, il vero e, in questo modo per me Camilleri dice (come lei ormai fa da tempo): Per certe questioni (tipo scomparse inspiegate), se volete aumentare le probabilità di incontrare la verità, dovete andare a cercarla non nella direzione in cui spingono i rapporti ufficiali, ma nelle direzioni da cui quei rapporti allontanano",

assieme ad un'altra frase tratta dall'opera in parola (p. 147):

- "Troppe sono state, sono e saranno le scomparse misteriose in Sicilia",

soltanto i cauti studiosi del "caso Majorana" non sono al corrente dei probabili retroscena di molte di esse, o rifiutano "analogie"!
 
 

* Amor di verità, e di completezza, vuole che accenni anche alla possibilità che, alle radici del comportamento quanto meno discutibile dianzi lamentato (sia pure soltanto sotto il profilo di una corretta procedura editoriale: tempo impiegato nel disbrigo della "pratica", accuratezza del giudizio dei referee, disponibilità al dialogo con un potenziale contributore, ... ), possa esserci stata una "suscettibilità ferita" (difficile peraltro da comprendere per chi scrive), a causa di indiscrezioni apparse sulla stampa successivamente ad aperte, franche risposte date dallo scrivente a giornalisti che lo avevano intervistato - per mera casualità proprio nel corso della menzionata estate - sulla misteriosa vicenda in generale (a taluni di essi fu pure inviato un preprint dell'articolo incriminato). Ecco quanto comparve per esempio sul quotidiano La Stampa di Torino (30 agosto 2000, p. 13): "A riaprire il capitolo dell'oscura scomparsa di Majorana è il professor Umberto Bartocci, docente [...], autore del saggio "La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?" pubblicato [...] e di un articolo per il periodico "A futura memoria" dell'Associazione "Amici di Sciascia". Si tratta dei due studi più ampi e riassuntivi su tutte le ipotesi circolate sul caso." [enfasi del presente autore - il riferimento a quella in particolare tra le pubblicazioni dell'Associazione è in effetti errato, visto che le dimensioni dell'articolo non ne avrebbero consentito comunque l'inclusione nella citata rivista...]

(UB, dicembre 2001)
 
 


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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]

bartocci@dipmat.unipg.it