11500 anni fa...
Atlantide nel mito platonico
(Rosario Vieni)
La fama del mitico continente di Atlantide si deve a due dialoghi di Platone: il Timeo e il Crizia. In essi il filosofo greco (Timeo, 24e-25abcd; Crizia, 108e-109a), in maniera agile e succinta prima, più dettagliata poi (nel Crizia) racconta di Atlantide quanto gli è pervenuto dalla tradizione e dalle fonti. La narrazione appare evanescente come può esserlo il fantasma di qualcosa che non è più, ma solo in apparenza; a ben guardare, ci sono degli elementi che in maniera indubbia possono esserci di aiuto per dire qualcosa in più su cotesta vexata quaestio.
Per secoli i commentatori hanno preso per certo che al di là delle Colonne d'Ercole stesse a significare oltre lo stretto di Gibilterra. Noi, dopo aver riletto attentamente Platone, siamo certi che le cose stanno diversamente; e ne chiariremo il perché.
Cominciamo dal Crizia.
Si fa allusione ad un'età di ben 9000 anni anteriore a quella dell'Autore, e questi dice: "…isola di Atlantide, la quale, come dicemmo era a quel tempo più grande della Libia e dell'Africa, mentre adesso, sommersa dai terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre."
E' innanzitutto interessante notare la premessa che fa il filosofo; dice a quel tempo (pote - pote) quasi anticipando un giudizio di visibilità che diviene evidente poi in mentre adesso. Ma non è questo il punto di maggior interesse. V'è infatti quel meizo (meizw) che non significa necessariamente più grande ma semplicemente più potente; ciò anche alla luce di quanto dice nel Timeo quando afferma che quella potenza invadeva tutta l'Europa e l'Asia. D'altra parte il gr. megas - megaV) si deve far risalire alla radice sscr. mag/meg da cui deriva anche machomai macomai che vuol dire "combattere", e questa a sua volta, in maniera agglutinata, ad un men+ago (men + agw)che ci chiarisce, se mai ve ne fosse bisogno, che il combattere è attività tipica ed onorevole dell'uomo. Lo stesso Alessandro fu detto "grande" non per la sua statura, ovviamente, ma per le belle imprese che riuscì a compiere. Per cui va ridimensionata l'immagine di un'isola che a tutti appariva enorme e che ha fatto scaturire, nel tempo, le ipotesi più fantasiose (peraltro, è sufficiente analizzare le dimensioni che dell'isola ci offre lo stesso Platone). V'è poi un dato di un certo interesse: mentre adesso, sommersa dai terremoti, è una melma insormontabile… . Già ai tempi di Platone, quindi, era ancora possibile scorgere tracce di quanto era accaduto e di ciò che restava di quell'isola.
Questo è importante, e la lingua del filosofo rispecchia fedelmente, ricostruisce, testimonia, descrive con esattezza, se non l'esatta ubicazione che noi pigri lettori moderni facciamo dei testi antichi, almeno la sua collocazione nell'alveo del Mediterraneo, di quel grande pantano su cui s'affacciano come rane sì tanti popoli.
Platone dice esattamente: che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto (epi to pan pelagos -epi to pan pelagoV): meglio sarebbe rendere anche il pan (pan) con "in ogni direzione".
Bisogna qui sottolineare intanto che per indicare il mare Platone usa, nei passi su citati, tre termini solo apparentemente simili: uno, generico, thalatta (qalatta); poi pelagos (pelagoV) ad indicare il mare aperto; infine pontos (pontoV) per designare un mare delimitato ed atto al piccolo cabotaggio. E non a caso in primo termine, primigenio, è femminile e indicativo dell'umore materno e uterino; l'ultimo maschile in corrispondenza con l'agire dei naviganti ellenici e non che osarono sfidare le acque e le incognite di nuovi viaggi; il secondo neutro perché è e rappresenta il segno della divinità e del mistero insondabile oltre l'orizzonte visibile. Orbene, nel passo in questione Platone parla di mare aperto, segno che si vuole mettere a confronto il mare interno, ad es. l'Egeo o altri mari interni, da cui era possibile con il piccolo cabotaggio raggiungere ogni isola ed ogni terra vicina con un altro mare, ben più vasto e aperto, senza riferimenti visibili immediati, cui alcuni ingenuamente oggi assegnano il nome di "oceano".
Bisogna subito affermare, a scanso di equivoci, che tale termine " oceano" è tutto nostro, e che sarebbe errato leggere il passato alla luce dei nostri attuali parametri conoscitivi e simbolici.
Alla stessa maniera, cercando di individuare quale poteva allora essere considerato ponto e quale mare aperto, vedremo di far luce su un altro problema che pare qui basilare: quello relativo alla denominazione di colonne d'Ercole.
Per tornare un momento a quanto abbiamo appena detto, relativamente al termine "oceano", traducendo il Timeo, taluni (qui ci basti ricordare il testo tradotto di Enrico V. Maltese) dicono espressamente procedendo dal di fuori dell'Oceano Atlantico (pelagous- pelagouV)... Ovviamente sbagliano. Ma ci sia concesso, ora, fare un piccolo salto prima di ritornare al nostro immediato problema.
Quando si leggeva, ai miei tempi, l'Odissea di Omero il nostro insegnante ci teneva a sottolineare, lui siculo, che parlando della Trinacria il Poeta volesse alludere ovviamente alla Sicilia. Anche in quel caso, nulla di più errato. O meglio, non si teneva conto della stratificazione onomastica dei poemi omerici; e se ciò era evidentissimo per l'Iliade (anche per altre ragioni strutturali), comunque valeva anche per l'altro dei due poemi: sicché giustamente Luigi Pareti (in Sicilia antica) potè poi chiarire la cosa affermando che per Trinacria doveva intendersi il Chersoneso tracico. Ed aveva ragione, in quanto ai naviganti d'allora questo sì che appariva dal mare come un promontorio a 3 punte, mentre per la Sicilia, e in mancanza di carte nautiche, la cosa sembra assai inverosimile; e poi anche perché le prime stazioni del profugo Odìsseo dovevano cercarsi in quel mare interno, e solo in un secondo momento fuori.
A tal riguardo ci torna utile sottolineare che così come la guerra di Troia documenta, poeticamente, lo scontro frontale e periodico fra due culture e il tentativo di espansione ad est degli Elleni, alla stessa maniera il viaggio, o ritorno, degli Ulissìdi altro non è che la cronaca dell'espansione pre-greca e poi greca degli Elleni, prima verso est e di poi, ed in misura più consistente, verso ovest; non a caso sono state trovate tracce evidenti del loro passaggio in tutti i punti toccati da questo antico e "tormentato" popolo.
Ora, anche per le colonne d'Ercole noi crediamo che sia giunto il momento di cominciare a fare chiarezza. Intanto diamo uno sguardo al livello submarino del Mediterraneo, e cerchiamo con le isobate di tacciarne un profilo abbastanza evidente. Quando ero laureando a Messina, nella mia vecchia tesi sugli Arvali (acquisita poi agli Atti dell'Accademia dei Lincei) mi provai a tracciare una mappa di ciò che presumibilmente c'era fra la Grecia e la Turchia alla fine della glaciazione del Wurmiano. Ciò, allora, sulla scorta del mito di Deucalione e Pirra; ma la cosa fu assai interessante perché ne veniva fuori che tutte quelle che adesso appaiono come isole allora altro non erano che le cime di una enorme isola posta fra le due terre. Mi è oggi di consolazione leggere, nell'ultimo libro di Castellani, che lo studioso addiviene alla medesima conclusione: anch'egli dall'analisi delle isobate, come io allora avevo fatto (cfr. p. 51 - Figg. 1 e 2).
Ora, se si analizzano i fondali del Mediterraneo (nonostante quanto hanno potuto fare le correnti in questo lasso di tempo), si possono scorgere cose d'un certo interesse.
Intanto, a quel tempo e durante l'ultima glaciazione del Wurmiano, il livello del Mediterraneo si abbassò presumibilmente almeno di 100 metri, o forse anche di 200; ciò dovette essere sufficiente a ridisegnare la linea delle coste. In alcune zone ciò non diede eventi di particolare rilevanza, ma in altri modificò le coste e rese più vicine alcune terre. La cosa dovette essere abbastanza rilevante nella parte mediana del nostro mare, tant'è che Sicilia e Calabria (l'attuale Calabria, ovviamente) divennero assai vicine, e così altrettanto avvenne sulla costa meridionale dell'isola.
Ora del collo dell'imbuto, per dir così, assai più stretto fra Scilla e Cariddi abbiamo testimonianza anche nei poemi omerici: i due mostri riescono ad ingoiare i compagni di Ulisse e a distruggerne le navi per via del moto di flusso e riflusso dei due mari (Jonio e Tirreno), il cui livello doveva essere, anche, necessariamente diverso. La cosa accadeva anche per altra ragione, ed è giusto che qui venga sottolineata. Per quel che sappiamo, l'isola si allontana dall'Italia ad un ritmo di ca. 4 cm. l'anno. Se a quanto sopra dicevamo si aggiunge anche quest'elemento (ed è facile moltiplicare 4 per 3 millenni all'incirca: si ottiene una cifra di 120 metri), allora le cose cominciano ad apparire diversamente. Si potrebbe obiettare che 120 metri in fondo son poca cosa; ma noi abbiamo tenuto intanto conto dell'attuale moto di scorrimento della zolla, e non è da escludere che in passato tale moto fosse più veloce; ma, comunque, anche quei 120 metri aggiunti al decrescere del livello delle acque sarà stato assai incisivo e significativo. Lo Stretto, allora, era assai più "stretto" e pericoloso per i naviganti. Da qui il mito di Scilla e Cariddi.
Ora, per tornare al nostro assunto, nella parte meridionale dell'isola un abbassamento del livello marino potrebbe aver portato alla luce un vasto bassofondo tale da unire la Sicilia a Malta e l'avvicinamento della linea di costa fin quasi alla Tunisia, lasciando appena uno spazio di appena una ventina di chilometri o poco più. Che i fondali, là, siano più bassi e sabbiosi lo dimostra l'osservazione diretta. Ancora oggi, nonostante l'azione e l'erosione delle correnti, a chi si avvicina all'aeroporto di Tunisi diviene visibile dall'alto una vasta zona di secche e di fondali bassissimi che caratterizzano tale antica piattaforma continentale. Ma su ciò ritorneremo più avanti.
Continuiamo ad analizzare il testo platonico.
Quindi, procedendo dal di fuori del 'pelago' atlantico Atlantide invadeva tutta l'Europa e l'Asia.
Allora infatti quel mare era navigabile (segno, questo, che ai tempi di Platone - o di chi gli ha raccontato la vicenda- non lo era più), e davanti a quella imboccatura…Eccola finalmente! Proprio davanti a quella imboccatura (le presunte colonne d'Ercole) c'era l'isola di Atlantide. E da quella era possibile raggiungere le altre isole…e dalle isole a tutto il continente opposto che si trovava intorno a quel vero mare (peri ton alithenon ekeinon ponton - p e r i ton aliqhnon ekeinon ponton).
Ecco la prima segnalazione distintiva. Si tratta di un mare interno, ma per la profondità e la pericolosità appare al filosofo, ed alle genti del tempo, come una mare vero e proprio. E qui si trovava Atlantide. E' la prima indicazione sufficientemente circostanziata.
Ma davanti a quella imboccatura significa "al di qua" o "al di là" di tale imboccatura?
L'unica possibilità che abbiamo, alla luce delle indicazioni del filosofo, è che le colonne d'Ercole altro non erano che lo stretto braccio di mare fra la costa sud-orientale della Sicilia e quella della Tunisia. Una ventina appena di km; o forse meno.
Spiridon Marinatos amava credere che Atlantide fosse Santorini. Ma ciò non è testimoniato da Platone, in quanto questi ci dice più avanti che i re dell'isola governavano le regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all'Egitto, e l'Europa sino alla Tirrenia; segno che tale stretto doveva trovarsi a ridosso della Libia, nella sua parte centrale; e poi sarebbe stato oltremodo strano che a combattere le genti dell'Ellade fossero popoli che stavano in un territorio a ridosso dell'Ellade.
Questo è il passo più significativo di tutta la descrizione. Ma ci ritorneremo.
Infatti - continua - tutto quanto è compreso nei limiti dell'imboccatura di cui ho parlato appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata. Anche questo particolare è degno di nota: non si tratta di un semplice 'passo', uno stretto, o, come vorrebbero tutti, dell'odierno Stretto di Gibilterra, in quanto all'interno di esso appare come un porto (limen - limhn) caratterizzato da una stretta entrata. Poi continua: quell'altro mare, invece, puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi veramente e giustamente chiamarla continente.
Qui già comincia ad apparire l'effettiva localizzazione, se non di Atlantide, almeno dello stretto in questione e delle terre che lo circondano. L'allusione è chiara: ci si riferisce alla zona, indicata dalla cartina 2, che sta fra la Sicilia e la Tunisia. Abbiamo uno stretto, ed abbiamo un porto naturale; quindi un mare che, se pure interno, è vero mare ed una terra che interamente lo circonda e che si può definire continente. Anzi, le Colonne d'Ercole non sono il punto più vicino fra Sicilia e Tunisia bensì uno stretto budello che doveva esserci all'altezza dell'isola di Malta e che racchiudeva, assieme all'altro, quel porto naturale di cui parla il filosofo.
Ma questi non si ferma qui.
In quest'isola di Atlantide… dinastia regale che dominava tutta l'isola e molte altre isole e parti del continente: inoltre governavano le regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all'Egitto, e l'Europa sino alla Tirrenia… (pros de toutois eti ton entos tede Libues men erchon mechri pros Aigupton, tes de Europes mechri Turrenias - proV de toutoiV eti twn entoV thde LibueV
men hrcon mecri proV Aigupton, thV de EurwphV mecri TurrhniaV).
Ne vien fuori che, dal punto di vista fisico di un greco che vive nel cuore dell'Ellade, esiste uno stretto oltre il quale c'è Atlantide e che questa dominava…le regioni della Libia che sono al di qua di tale stretto; quindi l'antica Libia, ovvero l'Africa del nord, si estendeva al di là e al di qua di tale stretto. Infatti appare ovvio che, se si intendono le colonne d'Ercole per l'attuale Gibilterra, dire le regioni della Libia che sono al di qua etc…sarebbe stato tautologico, eccessivo, sovrabbondante, inutile e superfluo; perché si trovano effettivamente al di qua di Gibilterra; né si può affermare che Platone intendesse alludere a quella parte dell'odierno Marocco che sta oltre Gibilterra, in quanto la descrizione è ben delimitata geograficamente: …al di qua dello stretto fino all'Egitto. Ed allora è come se avesse detto: "nella parte centrale sino all'Egitto". Del resto, se Atlantide era così potente come giustamente dice il filosofo e visto che stava oltre le colonne d'Ercole, come mai avrebbe dovuto estendere la sua dominazione solo al di qua e non anche "al di là"?
Gli è che egli vuol mettere in evidenza i quadranti su cui tale dominio si estendeva: dalla Tunisia all'Egitto, e dalla fenicia Europa sino alla Tirrenia; e cioè che Atlantide aveva la propria sfera d'influenza sull'attuale Maghre'b orientale (ovviamente per dominare i traffici commerciali che proprio là erano fiorentissimi) e poi sulla parte più ad est del Mediterraneo, e poi su su fino alle zone dell'Asia Minore che non erano state ancora colonizzate dagli Elleni. Questi erano allora relegati a nord di Creta, nell'Egeo, e da qui fino all'Ellesponto.
Ma ritorniamo al Crizia.
Qui (108e) si legge: …erano 9000 anni da quando, come si racconta, scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne d'Ercole e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra bisogna ora descriverla compiutamente.
Va sottolineato, qui, il tutti quelli che abitano al di qua (tois entos pasin - toiV entoV pasin) del testo. Qui l'Autore intanto vuol mettere in evidenza come ci fosse stata un'enorme coalizione di tutti i popoli del Mediterraneo orientale, massime gli Elleni, per contrastare coloro che, guidati dagli Atlantidi, volevano conquistare anche quella parte del mondo allora "visibile".
In quanto ai popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne d'Ercole è assurdo pensare, credere, ipotizzare che Platone volesse alludere… a chi?, agli Amerindi forse? Perché non si limita a dire "gli Atlantidi", ma tutti i popoli etc. etc.; ed allora tale coalizione contro gli Elleni, guidata dagli abitanti di Atlantide, doveva forse essere formata da "Americani", Cubani, abitanti di Vattelapesca e così via? Certo che no!, e la cosa mi pare fin troppo evidente per spenderci altro tempo.
La descrizione dell'isola la troviamo poi più avanti (113c sqq.). Vi si legge che la parte centrale dell'isola di Atlantide, là dov'era la città del maggiore dei 10 re, intanto aveva un diametro di appena 5 stadi, ovvero di poco meno di 1000 mt (essendo la stadio att. di 177,60 mt); che attorno a questa città si fecero correre 5 cinte difensive, tre d'acqua e due di terraferma; che oltre tale cintura v'era una pianura che si estendeva sui due lati per 3000 stadi e per 2000 dall'ultima cinta fino al mare; che vi era abbondanza di fauna, e fra i tanti animali pure l'elefante.
V'è poi un altro riferimento geografico: la parte più importante guardava verso il mare (aperto), mentre sull'altro lato essa guardava verso la regione Gadirica.
Qui bisogna procedere con maggiore attenzione. I più intendono, per avvalorare l'ipotesi Colonne d'Ercole = Gibilterra, "nei pressi di Cadice". Il fatto è che Platone dice molto semplicemente il fratello (scil. di Atlante) gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l'estremità dell'isola verso le colonne d'Ercole, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica (epi to tes Gadeirikes nun choras - epi to thV GadeirikhV nun cwraV) dal nome di quella località, in greco era Eumelo (Eumelon - Eumhlon), mentre nella lingua del luogo Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la denominazione a questa regione.
Non dice, difatti, presso e neppure nelle vicinanze; dice solamente verso; il che significa solo che era rivolta verso quella regione che, per qualche motivo, doveva essere assai nota; ma ciò prescinde dalla nozione di vicinanza, ovviamente.
Interessante il nome greco di Gadiro che è, come s'è visto, Eumelon. Esso (cfr. melas, mhlaV ma in Hom. - H104 - melopa, mhlopa "couleur de coing"(1)) ci indica come gli Elleni avevano denominato il fratello di Atlante; inoltre se si analizza l'etimo del nome che apparentemente non è greco, come dice Platone, e cioè Gadiro (Gadeiron - Gadeiron ), e quindi quello della regione Gadirica, ci si accorge che esso ci richiama pure ad un etimo greco: abbiamo difatti un ga (ga - terra) e un deiras / deire (deiraV / deirh - sscr. drsat) (collo, roccia, giogo, catena, collana).
La prima voce è chiaramente dorica, e questo la dice lunga sull'antichità del termine (altrove abbiamo dimostrato come la prima discesa dei Dori debba collocarsi intorno al 16° sec. a.C.)(2); la seconda ci richiama alla probabile conformazione del territorio governato da tale Gadiro: "Una striscia di terra" o "una collana di isole". Potrebbe essere, questa, una valida ipotesi, anche al fine di localizzare il punto esatto di Atlantide. Non di certo Cadice.
Ci sarebbe poi, in analogia col nome gr. Eumelo, la possibilità che Gadiro volesse anche significare "dal dorso colore della terra". Non è la prima volta, difatti, che l'etimo di un termine sia doppio, ambivalente; che racchiuda in sé, cioè, tutta la strana magia della parola.
Insomma, tutto concorda a designare la zona da noi indicata come l'unica possibile per identificarvi il sito dell'antica Atlantide. Che poi la fantasia degli uomini e degli scrittori abbia fatto di tale terra un luogo arcano dello spirito e il rifugio ultimo dei sogni, ebbene questa è altra cosa che esula ovviamente dalla ricerca e dall'analisi del testo.
A noi basta quanto lo stesso Platone ci dice. E non è poco.
(Figura 1)
(Figura 2)
Bibliografia
:Platone, Timeo e Crizia, a cura di Enrico V. Maltese, Newton C. ed., Roma, 1997.
Fra le fonti antiche: Omero, Esiodo, Euripide, Teopompo, Diodoro Siculo, Plutarco, Strabone, Plinio, Dionigi di Mitilene, Pomponio Mela, Marcello, Arnobio, Macrobio, Eliano.
A. Arecchi, Atlantide. Un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo, Ed. liutprand, Pavia, 2001.
P. Benoit, Atlantide, 1919.
V. Castellani, Quando il mare sommerse l'Europa, 1999.
G. D'Amato, Platone e l'Atlantide, 1990.
R. Ellis, Atlantide, Ed.Tea, Milano, 1998.
J.V. Luce, La fine di Atlantide, 1976.
B. Martinis, Atlantide: mito o realtà, 1989.
O.T. Much, I segreti di Atlantide, 1979.
G. Perrone, Atlantide, leggenda e testimonianze, 1928.
R. Pinotti, I continenti perduti, Mondadori, Oscar Saggi, 1995.
Note
:(1) P. Chantraine, La formation des noms en grec ancien (p. 258).
(2) R. Vieni, La lingua dei Micenei, Cz, 1990.
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Rosario Vieni è nato a Messina nel 1942, vive attualmente a Pistoia. Ha insegnato per 39 anni nei Licei, e nel 92-93 è stato ricercatore all'Università di Siena (su comando). Traduttore dei Lirici greci e di Virgilio, ha pubblicato col CNR un saggio sulla Lingua dei Micenei (90) in cui propone una nuova lettura dei testi in Lineare B e di un libello sul Disco di Festo. Ha partecipato al II Congresso Internazionale di Micenologia (91) come delegato del Presidente del CNR, e nel 98 è stato chiamato a partecipare al III Congresso Internazionale di dialettologia neoellenica, dove ha presieduto alla fase finale dei lavori (Chalimnos/Rodi) (cfr. Atti dell'Università di Atene, 2000). E' stato citato da Harald Haarmann in un testo apparso a Berlino e a New York, e al suo lavoro si fa riferimento sulla rivista dell'Università di Madison nel Wisconsin (del Dipartimento diretto da E.Bennett).
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