Il canto delle gru
Un racconto iniziatico

(Sante Anfiboli)


  Le gru compiono le loro spettacolari migrazioni due volte l'anno, volando in formazione a Y a enorme altezza e lanciando strida squillanti.
Informazione desunta da varie enciclopedie

E anch'io sono giunto dopo aver ricevuto l'iniziazione per i miei meriti, costeggiando nell'oscurità le rive della palude Pelusia.
Eufronio del Chersoneso

Ciò che limita il vero non è il falso ma l'insignificante.
René Thom
 

[Stando ai primi echi che mi sono stati rinviati, questo mio capriccio risulta "inquietante" e "di difficile comprensione". O forse inquietante perché di difficile comprensione. Ho quindi considerato utile premettervi una brevissima nota didascalica, cosa di solito contraria al mio costume.

Nelle mie intenzioni quel che segue - quale che sia il suo valore culturale - è un apologo sulla questione del senso, del non senso e del buon senso. In particolare, esso vuole attirare l'attenzione sull'ultimo di questi tre termini in ragione del fatto che la nostra epoca ha il torto di averlo completamente screditato. Infatti è a causa di ciò - per usare la felicissima frase di Mario Agrifoglio che suggella il quinto numero di Episteme - che oggi "tutti capiscono, o fingono di capire le cose maggiormente astruse, ma poi trovano misterioso, e incomprensibile, che due più due faccia quattro".

Quel che segue è anche una riflessione sull'eterna lite - squisitamente femminile - tra Filologia e Armonia: problema antichissimo di cui non s'intravede alcuna soluzione. Per quanto la filologia sia una disciplina straordinariamente affascinante basta il più infimo dei giochi di parole, dei calembours, per sconvolgerla alla radice. Che lo sappia o no, ciascuno di noi ha Filologia per moglie e Armonia per amante: senza una moglie non si può desiderare un'amante ma senza un'amante non si può valutare appieno una moglie, Si vede bene che non se ne esce.

Il limite della filologia è di presupporre un'umanità senza umorismo, eppure si sa che la gente ha il vizio di scherzare. Dopo di che - come disse Mosca Lamberti per suggellare l'omicidio di Buondelmonte de' Buondelmonti - "cosa fatta, capo ha". E tuttavia chi si limita esclusivamente a scherzare finisce per lasciarci lo zampino: scherzare non è uno scherzo.

A ciò aggiungo che per comprendere un eventuale messaggio cifrato un filologo non serve affatto: ci vuole un crittografo, e in generale costui ignora del tutto la filologia.

Quanto ho osservato tocca anche la scienza che, per certi aspetti nient'affatto secondari, si presenta come una filologia dei fenomeni naturali. Ma anche la natura scherza, d'onde l'espressione "scherzo di natura", e qui s'intravede un limite che troppo spesso vien tenuto in scarsa considerazione. Forse Dio non gioca a dadi, ma è certo che la natura ama follemente l'azzardo. La natura è poetessa, e solo chi è prima poeta che scienziato può veramente conoscerla.

Per richiamare attenzione su questo limite ho dato alla mia narrazione un tono ironico che, se non risparmia gli scienziati e gli specialisti di ogni tipo, risparmia ancor meno me stesso, che scienziato e specialista pure sono. Non irritarsene sarebbe atto di semplice buon senso, se posso permettermi di suggerirlo.

Come diceva il buon Rabelais: "Science sans conscience est la ruine de l'âme." Ma la coscienza della scienza cos'altro è se non la poesia?

Infine, tutte le citazioni e i riferimenti da me fatti nel corso della narrazione sono rigorosamente autentici: la realtà supera la fantasia, così non c'è stato bisogno di inventare alcunché. D'altronde, perché affannarsi ad immaginare unicorni, quando in natura abbiamo qualcosa di così enormemente enigmatico come le api?

Sto forse mentendo?]

SOMMARIO

1. Una premessa etica - 2. Sotto il manto di sant'Anfibalo - 3. Argadistiche per Mesone - 4. Verso il fondo - 5. Verba dimissa - 6. Una conclusione sensata.

1. Una premessa etica.

Certe cose è meglio non saperle, certe domande non farle.

Tra gli sciocchi va di moda pensare che la verità sia una donna bella, sana, ricca e intelligente, la sua conoscenza un bene e la curiosità una virtù. Tuttavia - mi domando - se ciò fosse vero, perché sarebbe sempre stata figurata dietro un velo? Voglio dire, se fosse così bella come affermano concordemente coloro che non l'hanno mai vista, e se conoscerla fosse un bene, non ci sarebbe da guadagnare a mostrarla in tutta la sua esplicita e luminosa nudità? Tutti correrebbero a bearsi della sua visione e non ci sarebbe tanto da faticare in discussioni sterili quanto interminabili. Ma è sempre stata rappresentata come velata, e la mia personale esperienza in merito mi suggerisce che la ragione di ciò sta nella sua ineffabile bruttezza. La ragione del velo è molto semplice: se venisse raffigurata senza, la sua vista sarebbe tale da respingere chiunque.

La verità non è solo brutta, è anche patogena, fa impazzire. Come nelle tossicomanie, si ha poi bisogno di dosi sempre maggiori per trovare la vita sopportabile, e questo ci porta a un aspetto assai poco noto della sua bruttezza, ossia le mutilazioni. Chi l'ha anche solo intravista sbirciando da sotto un angolo del velo, sa che deve aver avuto come minimo uno spaventoso incidente. L'orrore è indescrivibile: tutto quello che se ne può dire è che le mancano dei pezzi, tanto che non si comprende come possa continuare a campare. Non so se mi spiego: non potrà mai darci tutto ciò che ci serve.

Quel che ci serve non sono domande ma risposte, che quanto più sono false tanto più sono apodittiche, quindi non necessitano di altri ricorsi. Ci servono certezze, non verità. E, al massimo, chiose di certezze. Se n'era accorto persino il buon Cartesio, che non era poi così stupido, come dimostra il brano seguente tratto da una sua lettera alla principessa Elisabetta del Palatinato.

La regola principale che ho sempre seguito nei miei studi e che credo mi abbia aiutato di più nell'acquisire conoscenza è di non dedicare mai più di poche ore al giorno ai pensieri che occupano l'immaginazione, e pochissime ore all'anno a quelli che occupano solo l'intelletto: il resto del mio tempo mi sono riposato e ho dato un po' di quiete alla mia mente.

Insomma, che fosse malato di verità non c'è dubbio, tuttavia cercava in ogni modo di contenere il danno, e questo è già molto.

Abbiamo bisogno di certezze, e a questo pensano gli impiegati in istituzioni accademiche, che son pagati apposta per svolgere 'sto lavoro del cavolo. Una delle cose più stupide che si possa fare è mettere in dubbio le loro asserzioni.

Cos'è un quark? È un chiacchiello definito da numeri: strange, beauty, charm, truth, ecc. Punto. Non ci sono dubbi da sollevare, domande da fare, metodologie da verificare: affari loro, con quel che li paghiamo. Chiedere come questi numeri siano ottenuti, impegnarsi in verifiche, significa stracciare la carta colorata della risposta per ritrovare la domanda che i buoni impiegati hanno tanto faticato a nascondere, e con ciò liberare nuovamente il fetore della verità. Tuttavia c'è chi ci si mette e cosa ottiene? Per esempio di sapere che hanno fabbricato una certa equazione, equazione di natura per così dire "puramente fenomenologica", che stabilisce una certa relazione tra carica elettrica, numero barionico e spin isotopico e va bene per robe come pioni e nucleoni. Poi trova che, però, aggeggi come il mesone K e l'iperone L ° non la rispettano. Ora, poiché l'equazione è "puramente fenomenologica", cioè desunta dall'esperienza, all'ingenuo verrebbe da dire: "Beh, forse il campo fenomenico di riferimento era troppo stretto, forse c'è da buttar via l'equazione e cominciare da capo." Ma, grazie a dio, è qui che intervengono i nostri impiegati: prendono la devianza, la trasformano in un numero, all'occorrenza battezzato strange, che si affrettano ad aggiungere all'equazione. E per ogni devianza fanno un numero nuovo e aggiungono, aggiungono, sicché l'equazione non è e non sarà mai sbagliata. Solleva pure questioni su tutto, deridi questa metodologia dubbia: cosa ottieni? Che le fondamenta del tuo universo scricchiolano facendoti rimanere sveglio la notte con gli occhi fissi nel buio e il batticuore, mentre la cosa mutila che sta dietro il velo si agita gemendo.

Al diavolo, ricominciamo da capo! Cos'è un quark? È un chiacchiello definito da numeri. Punto. Numeri fabbricati da gente che paghiamo apposta, stimabilissimi impiegati in istituzioni accademiche, dio li benedica. Punto. Soprattutto niente domande! Dopodiché si va tutti da Alfio per un drink.

Ma non si creda che sia così facile, perché c'è la noia. Di annoiarsi succede, e chi è annoiato è distratto, e la noia e la distrazione sono i genitori della curiosità. Capita anche a gente attenta come me. Io ho una regola: poiché so benissimo come vanno le cose, mi sono imposto una metodologia profilattica, ossia tengo sempre a portata di mano un numero congruo di libronzoli relativi a discipline improbabili: ufo, archeologie non standard, esoterismi vari, storia alternativa, insomma il genere di paccottiglia che scoraggiano dal porsi qualunque domanda. Quando sono in quello stato tuffo il naso lì dentro finché mi passa. E tuttavia anche così a volte mi va male. Ultimamente uno dei miei principali gadget anti-curiosità era la massoneria, rispettabile istituzione tutta piena di storie buffe cui non credono più nemmeno gli stessi massoni. Cosa c'è di più inoffensivo, gnoseologicamente parlando, direte voi? Lo pensavo anch'io, finché non ho sbirciato sotto il manto di sant'Anfibalo.

Racconto la storia perché vi possa servire. Ricordate: non si sta mai abbastanza all'erta. E diffidate delle imitazioni, potrebbero essere l'originale.

2. Sotto il manto di sant'Anfibalo.

Insomma, durante uno dei miei attacchi periodici di noia distratta, o distrazione annoiata, ho preso in mano un mammozzo, che supponevo del tutto inoffensivo, di un certo Jean Barles, intitolato Storia dello scisma massonico inglese del 1717. Se andate a pagina 66 e leggete, verrete a sapere che nel 1686 fu pubblicata una Natural History of Staffordshire, opera del dottor Robert Plot, passata alla storia come il primo documento antimassonico.

Già lì pensavo oziosamente che, considerato che il dottor Plot (1640-1696), professore di chimica, fu Fellow della Royal Society e anche il primo Conservatore dell'Ashmolean Museum, riesce davvero difficile conciliare il suo reclamato antimassonismo con il fatto che fece parte di un'istituzione allora a prevalenza massonica e addirittura ne diresse un'altra fondata da un massone1. D'altra parte, se è vero che disapprova la Massoneria, è anche vero che la presenta in modo da invogliare ad entrarvi: questo dovrebbe almeno far riflettere sulle sue reali intenzioni.

Nella sua opera infatti - menzionando, ed apparentemente deprecando, la massiccia presenza della massoneria nello Staffordshire - Plot scrive quanto segue.

Qui persone del massimo livello non disdegnano di appartenere a questa Società di Compagni d'Arte ["Compagnonerie" nel testo], non perché ne abbiano bisogno, ma per l'onore e l'antichità vantati in un grande libro di pergamena contenente la storia e le regole dell'Ordine della Muratoria.

Egli prosegue poi esponendo sommmariamente il contenuto di quel libro, secondo cui gli "old charges" sarebbero stati introdotti in Inghilterra da sant'Anfibalo: questo misterioso santo cristiano - francese per alcuni, gallese per altri - avrebbe convertito il nobile cavaliere Albano e questi avrebbe dato ai massoni di allora le regole che gli aveva trasmesso il suo mentore. Nel Manoscritto Cooke il misterioso maestro di Albano è invece chiamato sant'Adhabell o Adahabelle.

Non dite che due nomi del genere non vi avrebbero stuzzicato, anche perché entrambi sono per gli specialisti fonte di grande imbarazzo. Di un sant'Adhabell nessuno ha mai sentito parlare - errore di trascrizione, affermano sussiegosi gli storici - mentre Goffredo di Monmouth attesta un Sant'Anfibalo, protomartire anglosassone, come autore della conversione di Albano. Tuttavia - si affrettano a spiegare i filologi - se questo misterioso prete cristiano è esistito, certamente anche il suo nome è stato malinteso e maltrascritto, perché non è possibile che un essere umano venga battezzato in modo tanto bizzarro. Insomma, l'ignoto cronachista averebbe riferito all'uomo il nome del suo mantello. "Naturalmente! - pensavo intanto io - È noto che a quei tempi i pochi che sapevano leggere e scrivere eran tutti scemi mentre solo gli analfabeti avevano un po' di buon senso. Gesù, tutte le volte che si deve scrivere il nome di 'sto santo c'è qualcuno che sbaglia!" Tuttavia non mi fermai lì perché - avendo la sventura di conoscere un poco la lingua greca - continuavo a ripetermi che il nome di sant'Anfibalo è senza dubbio la trascrizione della parola amfíbolos, equivoco, di doppio senso: come dire che Albano fu convertito da sant'Equivoco, sant'Ambiguo o san Sottinteso. Ancor oggi la parola italiana "anfibolìa" è impiegata in questo senso.

Già cominciavo a scivolare e non me n'ero accorto affatto, come sempre capita. Mi martellava in testa l'idea che l'anonimo cronachista, pace all'anima sua, non fosse affatto scemo ma avesse scritto esattamente quel che voleva scrivere, ossia un'informazione celata dentro un nome. Dopotutto - mi dicevo - qui si tratta di massoneria, quindi di esoterismo, quindi di comunicazioni riservate: cifre, enigmi e inganni! Mi appariva chiaro che l'informazione era: nel terzo secolo venne portata in Inghilterra una certa tradizione riservata, cifrata in lingua greca. Sant'Anfibalo era la chiave stessa della cifra.

Naturalmente, se la mia ipotesi era vera, anche gli altri nomi connessi con questo avrebbero dovuto poter essere compresi in greco. Mi resi così conto che in tale prospettiva Albano, o Albone, allievo di Anfibalo, non era altro che una metatesi di labón, participio aoristo di lambáno, prendo, anche nel senso di imparo, ricevo. Albano, nobile cavaliere, era quindi colui che ha afferrato, ricevuto, che ha imparato, colui al quale è stata trasmessa l'arte di comprendere l'anfibolìa, il parlar coperto, per enigmi, in definitiva la comprensione del linguaggio iniziatico.

Quanto precede mi diede la chiave anche per decifrare quell'altro stranissimo nome di sant'Adhabell o Adahabelle, molto più vicino al primo di quel che si supporrebbe. Infatti, come Anfibalo deriva da amfi-bállo, Adhabell viene da a-dia-bállo, esso infatti vale adiábolos, che non induce in errore. Si capisce allora che sant'Anfibalo e sant'Adhabell esprimono lo stesso concetto: il senso nascosto, esoterico - quello di Anfibalo - è anche quello che non inganna, quello di Adhabell.

Nel racconto di Plot è detto pure che tale tradizione dovette poi entrare in clandestinità, e la massoneria con lei, fino ai tempi di re Atelstano quando - ad opera di suo figlio Eduino - quest'ultima fu riabilitata e ricevette un nuovo codice di leggi. Naturalmente, la riabilitazione non poteva essere attribuita ad Atelstano stesso, in quanto il suo nome vale atélestos, incompiuto, anche nel preciso senso di non iniziato, non ammesso ai misteri - era, insomma, solo un simpatizzante -, mentre Eduino vale édyn prima persona singolare aorista di dyo e significa "Io sono entrato, sono andato sotto, sono morto, mi sono immerso". Tutti sinonimi di chi è stato iniziato.

La mia ipotesi oziosa dava dunque luogo a una lettura stranamente coerente, la quale diceva che nel III secolo una certa tradizione cifrata in lingua greca - imperniata sull'aspetto fonetico - venne riportata in Inghilterra e che, dopo un periodo difficile, nel X secolo tornò in onore per il semplice fatto che uno dei figli di un re vi fu iniziato. Egli non fece quindi altro che fingere di darle nuove regole: in realtà le ridiede pubblicamente quelle che aveva appena ricevuto da essa in segreto.

"Ma guarda 'sti massoni!" pensai. Insomma, mi risultava che le loro buffe storie avrebbero anche potuto contenere ingegnose cifre che attestavano l'effettiva esistenza di una tradizione riservata. Poi mi chiesi: "Ma perché mai, di questa misteriosa e antica conoscenza, in massoneria sembra non esservi traccia?" "Forse nemmeno loro capiscono più le loro stesse tradizioni - risposi - dopo tutto hanno avuto un intero secolo per ringuénonire completamente."

Non che me la menassi più di tanto. Si trattava - forse - di un'inaspettata, piccola conferma delle tesi del misterioso Fulcanelli e del suo allievo Canseliet nonché di quel libraio erudito che fu Pierre Dujols, i quali insistono tutti su una specie di lingua esoterica a base greca, fondata sulla fonetica, che chiamavano appunto cabala fonetica o lingua degli uccelli2. Tuttavia nessuno di loro si era mai riferito particolarmente alla massoneria. Peraltro, che certi esoteristi abbiano usato cifre linguistiche astruse è cosa ben nota. Come tutti conoscevo l'Hypnerotomachia Poliphili, ancor oggi indecifrata, o i Rabish dra Academiglia dor Compa' Zavargna del pittore ed occultista milanese del Cinquecento Giovan Paolo Lomazzo, se possibile ancora più oscuri. Che poi la base delle loro cifre potesse essere greca o altro non mi toccava più di tanto: nel mio frammento di decifrazione se era qualcosa era greca. Punto. C'era però una specie di vago retrogusto che non riuscivo a metter bene a fuoco. Mi pareva che Dujols, nel suo stravagante e sconclusionato La chevalerie amoureuse, avesse accennato a un rapporto tra la massoneria e un'opera di Ateneo, I deipnosofisti, a me sconosciuta. Cercai per un po' il libretto di Dujols ma lì per lì non riuscii a trovarlo, così mi stufai presto e tornai a farmi i cavoli miei, cioè a lavorare per vivere.

Tuttavia questa minuscola brace continuò a covare sotto la cenere finché qualche settimana dopo il destino - che gli sciocchi chiamano caso - non s'intromise nuovamente. Il mio venditore UTET venne proprio ad offrirmi l'edizione, appena realizzata dall'editore Salerno, dei Deipnosofisti di Ateneo. Era una cosa di gran lusso, in quattro volumi e dal costo assolutamente indecoroso. Cosa credete che abbia fatto? Ma l'ho comprata, naturale, il che mi fece tornare in mente tutto l'ambaradan. Avevo già l'acqua alla vita e non sentivo neanche un pelino di umidità.

3. Argadistiche per Mesone.

I deipnosofisti, ossia I sapienti a banchetto, è un'opera del secondo secolo scritta in greco. Noiosa quant'altre mai si occupa dell'argomento meno interessante che esista, la cucina. Insomma, la cucina è bello gustarla ma leggerla…

La mia attenzione venne tuttavia attratta dal fatto che la categoria professionale dei cuochi vi è dipinta in modo sorprendente. Nel IX Libro si dice trattarsi di "una categoria molto pignola sia nella scelta degli argomenti sia nell'uso delle parole". In altri luoghi si assiste al lungo elenco della formazione culturale dei cuochi, stupendosi nel sentire che - prima di apprendere l'arte culinaria propriamente detta - occorre imparare scienze come la pittura, l'astronomia, l'architettura, la geometria, la medicina e financo la strategia. Altrove vengono detti anche "fondatori di città": cuochi costruttori, ma vi rendete conto? Insomma, Ateneo cominciò a sembrarmi completamente fuori. Il classico tipo che quando parla ti fa sentire a disagio, uno che non sai se si è appena fatto una canna o se ti sta pigliando in giro. Ma com'è possibile, pensavo, abbiamo qui un gruppo di eruditi a banchetto, e i cuochi ne sanno più di loro? I cuochi? Che accidenti di mondo è questo?

Nel XIV Libro si presenta appunto uno di questi "cuochi eruditi" e annuncia l'arrivo di uno strano piatto che si chiama myma. I curatori dell'edizione italiana, tremebondi, postillano in nota che "doveva trattarsi di un piatto decisamente insolito nella cucina romana del tempo, se gli stessi convitati non sapevano di che si trattava". Ma vi rendete conto? Il cuoco prosegue poi riportando una tradizione di Sidone secondo la quale Cadmo - il mitico fondatore di Tebe e nonno di Dioniso - era un cuoco - pensa te - servo del re locale, che rapì una suonatrice di flauto di nome Armonia fuggendo con lei dalla servitù. Egli aggiunge poi che nessun cuoco - tranne rarissime eccezioni - è mai stato servo, e che "gli antichi designavano col nome di máison un cuoco che avesse il diritto di cittadinanza, mentre un cuoco straniero lo chiamavano 'cicala'." Vacci a capire qualcosa. L'appellativo máison - continua - viene dal nome di Mesone, che era un attor comico originario di Megara di Sicilia. Egli inventò appunto una maschera detta máison, nell'occasione in cui creò tanto il personaggio del servo quanto quello del cuoco. Dice poi che i cuochi dei tempi più antichi erano anche esperti di tecnica dei sacrifici, ad esempio sovrintendevano alle nozze e alle cerimonie. A questo proposito cita una lettera della madre di Alessandro Magno al figlio in cui gli offre un proprio cuoco di nome Peligna, in quanto conosce bene le regole con le quali si compiono tutte le cerimonie sacrificali della tradizione, sia quelle 'argadistiche' che quelle bacchiche. A proposito delle 'argadistiche' i curatori vengono nuovamente assaliti da un certo bruciorino, in quanto il termine è per loro oscuro. Il tipo ci mette pure a conoscenza del fatto che in Atene gli araldi - famiglia sacerdotale ateniese - svolgevano contemporaneamente la funzione di cuochi e di sacerdoti sacrificatori. Tanta era la rinomanza e la stima di cui godeva l'arte del cuoco che a Roma addirittura i censori - carica importantissima - avevano il compito di abbattere le vittime con la scure. L'ultima informazione rilevante che ci da è che quest'arte "non è adatta ai servi ma nemmeno a liberi qualunque". Insomma, a quei tempi per fare il cuoco bisognava essere almeno Leonardo da Vinci con in più un cavalierato del lavoro.

Che dire di questa storia se non che è ben strana? Presenta improbabili cuochi che devono essere addirittura degli eruditi in svariate discipline scientifiche, che svolgono un ruolo sacerdotale e che devono necessariamente essere uomini liberi; poi pietanze di cui nessuno ha mai sentito parlare; poi ancora cerimonie oscure. Roba da fattoni, direbbe mio figlio. Insomma, è davvero troppo.

Come nel caso precedente, fu una parola in particolare a farmi scattare l'intuizione. Infatti il myma, questo piatto misterioso, gioca troppo evidentemente con mímos, ossia mimo, termine che deriva da miméomai, imito, rappresento, contraffaccio. Insomma, questo cuoco dichiara che parlerà copertamente, per allusioni, solo specialisti privi di qualunque genere di intelligenza possono permettersi di non notarlo. Ma d'altra parte li paghiamo apposta.

Il myma era un secondo sant'Anfibalo: vidi che stavo ritrovando la stessa situazione di prima. Una parola il cui significato era particolarmente chiaro mi si offriva come chiave di una cifra. Ero ormai lanciato verso il precipizio, nessuno e niente sarebbe più riuscito a fermarmi.

Cominciai così a rendermi conto che "cuoco erudito", sofistés mágheiros, poteva ben stare per sofistés magóteros, mago sapiente, essendo magóteros una forma epica di Mágos, termine di derivazione persiana che indica un Mago, come in Persia venivano chiamati certi sacerdoti, astronomi e interpreti di sogni. Da notare che sofistés vale sapiente, dotto, scienziato, ma significa anche maestro d'eloquenza e per estensione ciurmadore, impostore, cavillatore, chiara allusione al parlare enigmatico.

Fatto ciò, il nostro "cuoco" spiega il senso del mito di Cadmo e Armonia3, riportando una tradizione di Sidone, Sidoníon - che intesi come composto da siá, forma di theá, dei, e éidon, so, conosco, quindi come una tradizione di chi conosce (l'effettiva natura de)gli dei - secondo la quale Cadmo - nonno, páppos, ossia báptes, sacerdote di Dioniso, theòs nychios, dio oscuro, ossia diá-nóos, cioè diànoia, il senso, il significato - sarebbe stato un mago che avrebbe "rapito" Armonia in ambiente fenicio. Armonía non era altro che l'accordo dei suoni su cui si basa la cifra fonetica, la quale sfrutta proprio la consonanza tra parole di diverso significato, e per questo vale ermenéia, interpetazione. Il tizio sembrava dunque dire che questa tecnica di comunicazione cifrata fosse in uso tra i Fenici, quindi in ambito mediorientale, e fosse stata poi importata in ambiente greco, segnatamente nella cultura misterica di Samotracia.

Ci dice quindi che un cuoco avente diritto di cittadinanza, un politikòn mágheiron, veniva detto máison mentre uno ektópion, uno straniero, lo si chiamava - chissà perché - 'cicala': tradussi senza esitare che un polytéchnon magóteros, un mago abile in molte arti, veniva chiamato - naturalmente e logicamente - mathón, participio aoristo di mantháno, ossia colui che ha appreso, mentre un éktypon, uno che strepita, che fa solo del cicaleccio (da ktypéo, rumoreggio, risuono, strepito, rimbombo), che dunque non ha "rapito Armonia", lo si chiamava - altrettanto logicamente - 'cicala'.

L'introduzione del termine máison - di cui non sto neanche a sottolineare la prossimità con mason, maçon, massone - sarebbe semplicemente derivata dal nome proprio di Mesone, un attor comico, komoidías ypokrítes, dove si gioca semplicemente sull'altro senso del termine ypokrítes, conservato nel nostro 'ipocrita', cioè simulatore. Ma, ci vien detto: attenzione, costui è di Megara, megaréys - parola che gioca con mágeiron, cuoco - tuttavia non di Nisea, Nisáion, ossia del porto di Megara capoluogo della Megaride, bensì della Megara di Sicilia, Sikelía. Ora, considerando che Nisáion vale ne-idón (lat. nesciens), ignorante, ignaro, inesperto, mentre Sikelía gioca con skoliós, obliquo, tortuoso, sleale, falso, ambiguo, compresi bene quel che mi veniva detto. Questo commediante ipocrita di nome Mesone, cioè Sapiente, era in realtà un cuoco, ma non di quelli veri, che si limitano a cucinare vivande e sono ignoranti, ignari, bensì di quelli che vi si mascherano dietro, quelli falsi, ambigui, ossia non mágheiroi, cuochi, ma magóteroi, maghi.

Costui avrebbe inventato insieme le maschere, cioè le mascherature, sia del cuoco che del servo, therápon, ossia del Therapeutés, del Terapeuta, come erano chiamati i sacerdoti di Iside a Delo. Così, quando nel testo si insisteva sul fatto che un cuoco non può essere un servo, io intesi che le funzioni del Mago e del Terapeuta dovevano essere tenute rigorosamente distinte, ossia che non si dovevano mescolare i grandi e i piccoli misteri. Compresi allora il senso del riferimento a Cadmo che, prima di liberarsi, era stato un servo, dunque un Terapeuta. Infatti in questo contesto Kádmos valeva kadómenos, da kádomai, mi prendo cura. Sembrava dunque che Cadmo fosse passato da Terapeuta a Mago, da myste ad epopte, cioè da un rango iniziatico minore a uno maggiore, proprio "rapendo Armonia", apprendendo le regole della lingua segreta.

Venni quindi al nome del 'cuoco' che la Madre di Alessandro offre al figlio: Peligna è polys gnómon, colui che è molto sapiente perché conosce le regole, trópon, da intendere qui nel suo altro senso di tropi, traslati, figure retoriche, tanto delle cerimonie 'argadistiche', argadistiká, che di quelle bacchiche. Le bacchiche erano naturalmente i misteri di Dioniso, ossia di Osiride, ma quelle 'argadistiche' quali potevano mai essere? Visto che la filologia classica non mi aiutava, ricorsi ancora al mio buon senso: argadistiká valeva érga dísticha, ossia le opere in due file, in distico, doppie, vale a dire in due sensi.

A questo punto potei tornare al titolo dell'opera di Ateneo, Deipnosofistón e - considerato che déipnon, banchetto, valeva diplóon, doppio, finto, capzioso, ambiguo - tradurlo adeguatamente come Diplosofistón, i sapienti doppi, dal parlare ambiguo, diplomatico.

Presi allora brevemente in considerazione l'autore de I deipnosofisti, ossia Ateneo: si trattava di un greco egizio proveniente da Naucrati, città situata sul ramo canopico del Nilo, a oriente di Alessandria, che aveva svolto prima di questa il ruolo di centro culturale. È nella regione di Naucrati che il Fedro di Platone colloca il dio Theut, inventore del calcolo, dell'astronomia, del gioco dei dadi e della scrittura. Come per caso, dietro Ateneo vidi profilarsi l'ombra di Ermete. Quando Ateneo venne a Roma entrò a far parte del circolo di un ricco romano appartenente all'ordine equestre - un cavaliere - di nome Larense, ossia l'ospite dei banchetti e simposi messi in scena nei Deipnosofisti. Questo circolo era assai anomalo per gli standard dell'epoca, in quanto si riuniva regolarmente e i suoi partecipanti mostrano indizi di familiarità profonda, di una comune militanza di tavola e cultura. Lo stesso Larense non era il solito ricco romano alla Trimalcione ma un sacerdote e un alto funzionario dell'amministrazione imperiale, e in più un autentico letterato, un bibliofilo perfettamente bilingue, con un sapere critico degno di Socrate in persona, cosicché il rapporto di dipendenza sociale dei suoi ospiti da lui risultava sorprendentemente attenuato: si trattava - come ho detto - di una vera e propria comunità intellettuale che prendeva i suoi pasti in comune, consacrandosi alle lettere e al sapere e condividendo una ricchissima biblioteca. Nonché parlando - a quanto pare - solo di cucina.

A questo punto mi alzai e accesi un Montecristo n. 1: avevo bisogno di calmarmi e riflettere. In mano cos'avevo? Ero partito da una vecchia leggenda massonica che presentava personaggi dai nomi assurdi, la decifrazione dei quali consentiva di intendere che nel terzo secolo una tradizione segreta, caratterizzata da una particolare forma di comunicazione cifrata, era stata portata in Inghilterra e trasmessa ai massoni locali. Avevo poi trovato un bizzarro documento di un secolo prima - il secondo - che sembrava utilizzare la medesima cifra dato che, applicandovela, tutte le sue incongruità scomparivano. Esso sembrava attestare l'esistenza, nella Roma del secondo secolo, di una società di iniziati a grandi misteri, mascherata dietro la categoria professionale dei cuochi, depositaria di una tradizione antica che rinviava alla Persia, all'Egitto e alla Fenicia nonché dotata di usi e costumi sorprendentemente simili a quelli della massoneria moderna, ivi compresa la menzione di tal Mesone. Questa società praticava una forma di comunicazione cifrata, enigmatica, a base greca, caratterizzata dal gioco di parole, dal calembour.

Mi ronzava la testa e sudavo. Pareva che nel circolo di Larense si credesse che da un'antichità tanto remota da essere persino nauseante fosse esistita una specie di società iniziatica che si nascondeva dietro o dentro svariate categorie professionali e che usava un particolare tipo di cifra per comunicare e trasmettere le proprie conoscenze. Una specie di Alien che non sembrava essere mai vissuto se non come parassita di qualcos'altro. Dalla storia di Anfibalo risultava anche che, in ordine di tempo, l'ultima categoria professionale dietro cui si era mascherata fosse quella dei costruttori di edifici. Se è così - mi dicevo - col cavolo che i cosiddetti "accettati" hanno cominciato ad essere ammessi in massoneria solo nel Seicento, questo è un trucchetto che va avanti da molto ma molto più tempo, e mica solo coi massoni.

4. Verso il fondo.

Ma da quanto - mi chiedevo - da quanto? Pensai che dovevo seguire le tracce di quel particolare tipo di trasmissione per gioco fonetico: dopotutto era questo il segno distintivo della società. Naturalmente partii dai Magi, dato che avevo sottomano l'ottimo testo di Walter Burkert Da Omero ai Magi. Ormai non mi divertivo più e speravo che l'autorevole filologo mi smentisse categoricamente facendomi smettere di delirare perché, insomma, se non stavo delirando cosa stavo facendo? Ma purtroppo, verso la fine del libro, caddi sulla frase seguente.

I mágoi sono presentati come maestri della epoidé (canto magico) in connessione col sacrificio già in Erodoto (I, 132, 3).

Naturalmente Erodoto I, 132, 3 - che il diavolo se lo porti - confermava. Come in Ateneo, i Magi erano messi in connessione tanto con le attività sacrificali quanto con il canto magico, con Armonia. Ma in Burkert c'era anche di più. Vi si menzionava il papiro di Derveni, un testo del V secolo a. C. che si occupa principalmente di teogonia Orfica ma che menziona ripetutamente i Magi paragonando i loro riti con quelli dei mysti e sottolineando la superiorità dei primi sui secondi. Insomma, qualcosa di assai vicino a quel che la mia decifrazione di Ateneo aveva messo in luce.

Appare chiaro che i Magi sono introdotti come degli esperti, con un sapere superiore in relazione a pratiche e credenze conosciute in Grecia. […] La presenza dei Magi conferma le ipotesi e trova conferma attraverso la pratica degli iniziati, mystai. La formula "nello stesso senso come i Magi", katà tà autà mágois, indica che sono posti in relazione due sistemi: parlando dei mystai l'autore li mette in relazione con un altro rituale, parallelo ma separato.

Sembrava che la differenza tra i due riti stesse proprio in questa padronanza del canto magico.

L'attività dei Magi descritta nel nostro testo si accorda perfettamente con un testo di Diogene Laerzio già menzionato: "I Magi si occupano del culto degli dei; dei sacrifici e delle preghiere, asserendo di essere gli unici ad aver ascolto presso gli dei", toùs dè mágous perí te therapéias theón diatríbein kài thysías kái eychás, os autoùs mónous akouoménous. Questo è straordinariamente vicino al testo di Derveni: euchài kài thysíai - thysías kài eychás, ma non ne dipende; si spinge un po' oltre, fino ad affermare l'esclusività dei mágoi per l'efficacia dei loro riti, senza menzionare i dettagli rituali. Nondimeno si accorda pienamente col nuovo testo: solo i mágoi sono uditi dagli dei, perché conoscono l'incantesimo per rimuovere gli ostacoli, i demoni malevoli, e così aprono la via, attraverso le thysíai, alle eychài.

L'idea che sta dietro tutto ciò mi sembrava essere la seguente: i Magi pretendevano di essere gli unici a venir ascoltati dagli dei perché pretendevano di essere gli unici a venir compresi da loro: pensavano di parlare la loro stessa lingua. Perbacco!

Burkert rapportava poi le misteriose credenze dei Magi alla filosofia naturalistica presocratica, in particolare a Pitagora e Democrito che, in un famoso passo, descrive "maestri della parola" che, tendendo le mani verso il cielo, "chiamano l'universo con il nome di Zeus". Questa interpretazione naturalistica e fisicalista del sapere dei Magi mi ricordò che c'era qualcos'altro collegato con la Persia e la lingua segreta, esattamente nel fondamentale Le origini dell'alchimia nell'Egitto greco-romano di Jack Lindsay.

Non possiamo sviluppare questi punti, ma dobbiamo ricordare che le tradizioni artigiane dei minatori e dei metallurgi erano esistite per millenni e avevano sviluppato ricche elaborazioni. Termini sumeri, tramandati in seguito dagli Accadi, dagli Assiri e dai Babilonesi, possono spesso essere identificati; e incontriamo diversi minerali oltre a termini indicanti processi come la cottura, l'uso di cenere di lisciva, il lavaggio e la calcinazione, che svolgono una parte importante al tempo debito in alchimia. I testi mostrano, però, che vi fu una specie di linguaggio segreto, che ricorreva a effetti fondati su analogie di suono. Così, una ricetta per fare il vetro risalente al XVII secolo a. C. usa eru, aquila, per eru, rame. A-ba-an (pietra) è scritto ha-bar-an, avendo i segni ha e bar anche il valore di a e ba. Lo zolfo grezzo è chiamato la sponda del fiume.

Partito dal III secolo d. C. ero scivolato addirittura al XVII a. C., praticamente con i piedi a bagno nel diluvio universale e sempre con i segni visibili di questa misteriosa società. Nel XVII a. C. si nascondevano tra i fabbri, nel V a. C. tra i sacrificatori, nel II d. C. tra i cuochi, nel III tra i muratori ma erano sempre loro. Me lo diceva la musicalità della loro lingua segreta, l'incomprensibile canto che li accompagnava costantemente, come un marchio indelebile, attraverso tutte le loro maschere. In origine, la lingua di riferimento non doveva essere greca ma un qualche idioma mediorientale: sembrava che i Greci fossero stati tenuti fuori dalla cricca per un bel po', a fare i semplici Terapeuti finché Cadmo - che pure greco non era - rapì Armonia e la portò in ambito ellenico. Poi, divenuto il greco la lingua comune nel bacino del Mediterraneo, cioè l'inglese dell'epoca, la conoscenza segreta doveva esservi stata tradotta e non soltanto cifrata.

In qualche modo, tutto quanto era confermato anche da quel visionario geniale di Robert Graves nel suo La dea bianca.

La mia tesi è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell'Europa settentrionale fosse una lingua magica …

E non solo, perché anche Giorgio de Santillana e la sua collaboratrice Herta von Dechend, nel loro Il mulino di Amleto, si erano occupati di qualcosa del genere, ossia di un'antichissima scienza cifrata nei miti, una scienza che "fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che non riusciamo bene a immaginare".

Quelle che ci appaiono condizioni "primitive" sono, con pochissime eccezioni, solo ciò che è rimasto di antiche civiltà altamente sviluppate; quello che sembrava essere uno stadio di superstizione universale e costante da cui si sarebbe sviluppato il pensiero, non è altro che il comune denominatore nel quale versano le civiltà in decadenza.

E ancora.

Il lettore moderno rispetta come "scientifiche" soltanto le formule di approssimazione lunghe una pagina e cose simili. Non gli vien fatto di pensare che in passato una conoscenza altrettanto importante potesse venir espressa nella lingua di tutti i giorni. È una possibilità che nemmeno sospetta, anche se le realizzazioni delle civiltà antiche - basti pensare alle piramidi o alla metallurgia - dovrebbero esser motivo probante per concludere che dietro le quinte lavorava gente seria e intelligente, che non poteva servirsi di una terminologia tecnica.

Ma non era finita qui, perché a questa misteriosa e antichissima scienza era associata, anche per lui, una strana lingua.

Era una lingua che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece sui numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria… È di antichità che incute timore.

In fin dei conti, una robetta che faceva rizzare i capelli anche al grande professore del M.I.T., non solo a me. E tuttavia, se de Santillana avesse saputo quel che sapevo io, e cioè che questa conoscenza era sopravvissuta fin quasi ai nostri giorni, avrebbe pure smesso di dormire, ci potete scommettere.

Il Montecristo era ormai finito, e con lui le povere risorse della mia biblioteca. Ma sospettavo che, per poter davvero proseguire la mia ricerca, non mi sarebbe servito niente di meno che quella di Alessandria, tanto si trattava di faccende remote. Tuttavia, tre cose continuavano a disturbarmi: una perché non la sapevo, l'altra perché non la capivo, l'altra ancora perché la temevo. Quella che non sapevo era naturalmente il contenuto di questa conoscenza così riservata. Quella che non capivo, e che mi dava una punta di nausea, era questo nascondersi ostinato per oltre tremila anni, questo non voler assolutamente esistere in modo ufficiale. Quella che temevo era che la cricca non fosse affatto estinta. Solo l'idea mi sconvolgeva: come pensare che Adamo in persona stia passeggiando su e giù nel giardinetto di fronte. Cominciavo a vedere con occhio diverso e nient'affatto benevolo l'Hypnerotomachia Poliphili, i Rabish di Lomazzo, le opere di Fulcanelli, e tutti i maledetti luoghi dove poteva sembrarmi che Armonia suonasse il suo flauto. Tuttavia ciascuno di costoro pareva essere essenzialmente un isolato, sicché cominciai a dirmi che forse, lustro dopo lustro, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio anche una cosa incredibilmente vitale come l'antica società aveva finito per sfilacciarsi irreparabilmente, non lasciando dietro di sé che qualche sperduto superstite.

Per quanto riguardava la massoneria in particolare, ossia l'ultima delle società parassitate di cui fossi a conoscenza, sapevo che in essa si parlava della "parola perduta" e che le sue parole sacre e di passo erano ebraiche. Due cose che mi facevano ritenere assai probabile che sant'Anfibalo non abitasse più lì: tra il X secolo - data dell'ultima attestazione di sopravvivenza dell'antica tradizione in massoneria - e il XVIII la strada è lunga. Probabilmente era morto, anzi, speravo davvero che fosse morto.

Ebbi qui un'ottima occasione per lasciar perdere ma la sprecai miseramente. Ero così sicuro della mia supposizione che cercai di verificarla. Così capitai sul volumetto di Arturo Reghini Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi e il massimo mistero massonico, maledetto lui!

5. Verba dimissa.

Il Reghini passa per essere un crastone nel campo degli studi massonici ed esoterici in generale e così mi misi a leggerlo con estrema attenzione, ma già a pagina 4 cominciai a capire che qualcosa non stava andando per il verso giusto.

L'analisi delle cerimonie e delle leggende rituali dei varii gradi mostra all'evidenza l'ispirazione dai Misteri pagani, gli Eleusini e gli Isiaci in specie…

Insomma, ritrovavo il dato fondamentale della mia costruzione all'inizio della prefazione, ci pensate? Tuttavia mi dissi: "Beh, peggio di così non può andare, armati di santa pazienza e prosegui, vedrai che prima o poi verrà fuori l'ebraico." Invece, a pagina 10, venne fuori ben di peggio.

Secondo quanto affermano autorevoli scrittori dell'Ordine le parole dell'Ordine (parte almeno) una volta non erano ebraiche. Il Ragon dice che verso la fine del XVIII secolo si credette bene a scopo templare di giudaizzare tutte le parole dell'Ordine. L'affermazione è categorica quantunque non si veda la necessità di questo ingiudeamento per collegare la massoneria coll'Ordine dei cavalieri del Tempio e quantunque certe parole, come Jakin, Bohaz e simili, non possano essere, pel loro carattere essenzialmente ebraico, versione da altra lingua in ebraico. Sappiamo però con sicurezza che nel 1760 oltre alle parole ebraiche, si trovavano anche alcune parole greche; ce lo dice un autorevole scrittore massonico, il barone Tschoudy, che scriveva nel 1766. Ed un altro autore, il Bernard, nella sua Secret Discipline dice: "per un singolare lapsus linguae, i moderni hanno sostituito Tubalcain nel 3° grado per Tymboxein, da seppellirsi". Questo Tymboxein è evidentemente la parola greca tymbochéin o meglio tymbochoéin che significa effettivamente alzare un tumulo. Anche l'Hutchinson, nel suo Spirit of Masonry, la cui prima edizione porta la sanzione dei Grandi Ufficiali della Gran Loggia, eletti nel 1774, riporta nella lingua greca non soltanto il distico [sic] tymbochoéo = struo tumulum, pronunciato nell'avanzare al grado di maestro, ma anche la parola di passo del secondo grado, e la parola stessa di Acacia, che sarebbe semplicemente l'akakía, l'innocenza. Non sembra dunque avventato il supporre che la giudaizzazione a scopo templare affermata dal Ragon, sia consistita in una versione dal greco in ebraico.

Capito? Per quanto facessi, non riuscivo più a uscire dalla trappola in cui mi ero cacciato da solo. I miei vecchi Anfibalo & Co. erano prosperi e all'opera ancora alla fine del Settecento quando, probabilmente perché il vero significato greco delle parole stava diventando trasparente, decisero di camuffarle con l'ebraico, secondo la loro inveterata usanza. Naturalmente, nemmeno io capivo il significato del riferimento di Ragon ai Templari, ma non era questo che mi preoccupava al momento. Quel che mi preoccupava era che i segni di sopravvivenza dell'antica società si stavano avvicinando un po' troppo al tempo in cui vivo io: non mi piace dividere il mio cortile spazio-temporale con certa gente, gente che si tramanda segreti da migliaia di anni e non vuol saperne di avere una carta d'indentità e una partita I.V.A.!

Devo dire che, nel frangente, mi dimostrai molto meno intelligente di Reghini il quale, smentendo elegantemente se stesso, evita di cacciare il naso dove non dovrebbe e prosegue con l'ebraico come se quanto ha scritto un attimo prima non contasse nulla.

Comunque non è certamente il caso di estendere l'affermazione del Ragon alle tre parole sacre: Jakin, Bohaz, e Mach Benach. Jakin e Bohaz sono i nomi perfettamente ebraici delle due colonne situate secondo la Bibbia all'entrata del Tempio di Salomone; e sono già ricordate in scritti massonici della prima metà del XVIII secolo, p. e. l'opuscolo citato precedentemente dice che "in loggia si trovano due pilastri Jachin e Boaz che rappresentano la forza e la stabilità della Chiesa di tutte le età; e così pure le riporta l'antico scritto del Pritchard ed il libro che ha per titolo: Jachin and Boaz or an authentic key to the door of freemasonry.

Visto come si fa ad aggirare l'ostacolo? Ma io, a differenza sua, avevo sulla groppa quel popo' di roba che ho già detto e presi seriamente l'affermazione di Ragon sull'ebraicizzazione di tutte le parole dell'Ordine.

Innanzitutto, notai che in origine le parole massoniche non dovevano mai essere scritte, ma solo ed esclusivamente pronunciate, e questo si accordava perfettamente con la preminenza dell'aspetto fonico nella lingua segreta. Secondariamente mi balzò agli occhi che le parole sacre dei primi due gradi sono collegate tra loro, essendo anche i nomi delle due colonne all'ingresso del tempio. È importante sottolineare a questo proposito che, in Masonry dissected del Pritchard (1788), Boaz e Jachin sono la domanda e la risposta del primo grado: collegate, dunque, anche nel discorso. Naturalmente, non misi affatto in dubbio che avessero un perfetto significato ebraico, la loro ebraicizzazione avrebbe richiesto esattamente questo. Mi occupai piuttosto di vedere se potessero averne uno greco altrettanto perfetto, o anche di più.

Ora, la parola sacra del primo grado, ossia Boaz (Bohaz, Booz), vale bóasa, forma dorica dell'indicativo aoristo di boáo, grido, invoco; dunque: "Io invoco…", mentre quella del secondo, Jachin (Jakin), vale Iákchon, accusativo di Iákchos, Iacco, Bacco, Dioniso, nome che era anche contemporaneamente il grido d'invocazione al dio; dunque: "…Iacco". Esse formavano dunque una frase perfettamente coerente: "Invoco Iacco", la quale testimoniava esplicitamente di un'eredità dionisiaca nei rituali massonici4. E, a proposito di colonne, ricordai pure che non solo nel tempio di Salomone, ma anche nel santuario cabirico di Samotracia, sacro a Cibele, l'ingresso è fiancheggiato da due colonne, queste ultime in forma di statue di divinità itifalliche (cioè con il sesso in erezione), con le braccia tese verso l'alto, che dovevano impedire l'ingresso ai non iniziati. Lo scrittore cristiano Ippolito, nel suo Refutatio omnium haeresiarum, dice che queste erano rappresentazioni dell'uomo primordiale e del rinato Pneumatico, l'uomo spirituale della stessa natura dell'uomo primigenio. Dioniso era collegato ai misteri di Samotracia in quanto i Coribanti erano stati i suoi custodi. Mi tornò in mente il testo di Ateneo con la sua menzione, in uno stesso contesto, di Cadmo - fondatore dei misteri di Samotracia - e delle cerimonie di Dioniso. Ricordai infine che lo storico Diodoro Siculo parla di una lingua molto antica, usata come lingua sacra e di culto proprio dagli abitanti dell'isola di Samotracia.

Per la parola di passo del secondo grado pensavo di poter contare sul Reghini, visto che in questo caso sembrava assecondare l'etimo greco, ma mi sbagliavo gravemente. Egli cominciava riportando l'opinione di Hutchinson.

L'applicazione, dice egli [Hutchinson], che vien fatta tra i massoni della parola Sibboleth, è come una testimonianza del mantenimento inviolato del loro voto, e della loro fede incorrotta colla fratellanza. E per rendere i loro lavori e le loro frasi più oscure ed astruse, essi le hanno scelte in modo che, per l'accettazione nella scrittura od altrimenti possano imbarazzare (puzzle) l'ignorante con una doppia implicazione. Così Sibboleth, se noi avessimo adottato i misteri eleusini, corrisponderebbe come ad una confessione della nostra professione, implicando essa spighe di grano; ma essa ha la sua etimologia o derivazione dai seguenti composti nella lingua greca, come è adottata dai massoni, cioè Sibo, Colo, e Lithos, lapis, così Sibolithon, Sibbolithon, Colo lapidem, implica che essi serbano e tengono inviolate le loro obbligazioni, come il Juramentum per Jovem lapidem, il giuramento più obbligante presso i pagani.

Spirito davvero contorto questo Hutchinson: stava di sicuro cercando di dirmi qualcosa tra le righe, dato che insisteva tutto il tempo sul tenere i patti e le obbligazioni, cosa che non c'entrava nulla col colo lapidem con cui traduceva la parola di passo.

Infatti, Scibboleth non ha nulla a che vedere con Sibbolithon in quanto è perfettamente omofono a symbolé, patto, convenzione, che è proprio ciò che cerca di dirci Hutchinson. Reghini, dal canto suo, faceva un ragionamento del tutto inconsistente. Poiché Scibboleth in ebraico vale "spiga", allora la parola greca originaria doveva essere il termine per spiga: stáchys. In definitiva il gran crastone degli studi massonici non sapeva proprio niente, ignorando del tutto la lingua segreta. Non aveva nemmeno capito che l'ebraicizzazione doveva servire proprio a mascherare il senso della corrispondente espressione greca, non a divulgarlo! Insomma, che utilità ci sarebbe stata nel tradurre semplicemente parole da una lingua all'altra? Ma poi - mi dissi - cosa c'entrerebbe un simbolo di morte e rinascita col secondo grado? Semmai col terzo!

A me invece le cose cominciavano a sembrar chiare: l'apprendista non ha parole di passo perché non ha ancora cominciato a capire la convenzione (symbolé) ermeneutica che è il segreto della parola perduta. Intuii che la famosa parola perduta massonica non era null'altro che il significato esatto della lingua criptica usata dagli iniziati.

Così il "dirozzare la pietra grezza" - compito precipuo dell'apprendista - mi pareva giocare sul suono del termine inglese stone - non bisogna scordarsi la lingua originale in cui i termini erano espressi - che rinvia al verbo greco sténo, gemo, sospiro, mi lamento, e all'aggettivo stenós, stretto, angusto, tenue, insignificante, meschino, scarso. Così l'apprendista deve dirozzare la scarsità, l'angustia, di cui soffre e che fa sì che egli si lamenti e invochi (bóasa), tuttavia senza sapere bene chi. Per contro il compagno sa a chi rivolgersi (Iákchon) perché è colui che ha inteso la convenzione (symbolé). Il suo compito è affinare lo strumento principale della conoscenza: i cinque sensi. Qui il gioco è sul termine "senso", perché ci sono sensi fisici e sensi linguistici: ai quattro di Dante - letterale, allegorico, morale ed anagogico - la massoneria sembrava aggiungerne un quinto. Strano. Andai a vedere a quale dei sensi fisici veniva assegnato il quinto posto: era il gusto. Capite? Il gusto! In effetti gente priva di gusto non potrà mai padroneggiare la musicalità della lingua segreta. Altro che esercitare i sensi fisici, qui si parlava invece di affinare la competenza semantica!

Passai così al terzo grado, soffermandomi innanzitutto sul nome del personaggio leggendario che l'iniziando deve impersonare per essere raised to master, elevato a maestro. Hiram Abiff valeva éran, terza persona singolare aorista di áiro, qui nel senso intransitivo, mi innalzo; dunque: "Egli s'innalza…", e bafé, dativo di bafé, bagno, immersione, tintura, tempra, forza; dunque: "…per mezzo del bagno". Anche nell'altra versione di Hiram Abi, esso sostituiva semplicemente alla parola bafé la parola ébe, vigore della giovinezza, valendo in questo caso: "Egli s'innalza al vigore": Ebe era la dea greca della giovinezza eterna. Mi ricordai di Eduino, édyn, "Mi sono immerso", come dire Hiram Abiff.

Mi sembrava del tutto trasparente e sensato, ma per sicurezza diedi una controllatina al mai abbastanza lodato Grande lessico del nuovo testamento edito da Paideia, il quale mi confermò che bagni sacrali si ritrovano un po' in tutti i culti misterici, da quelli eleusini a quelli bacchici, nella religione egizia, nel culto di Iside fuori dall'Egitto, nei misteri di Mitra, nei giochi Apollinari e nelle feste Pelusie.

In tutti i casi esse illustrano il fatto che nella religione antica, anche oltre l'ambito delle nostre conoscenze dirette, si faceva grande ricorso, particolarmente nell'oriente, a lustrazioni, con impiego di acqua. […] Quanto alla Babilonia, alla Persia, all'India, cerimonie sacrali nell'acqua sono testimoniate ripetute volte già in un'epoca molto antica. Accanto al Gange, l'Eufrate ebbe una importanza religiosa che è paragonabile a quella del Giordano per gli Ebrei e i cristiani.

La stessa opera aggiungeva qualcosa di molto interessante sul significato che pareva fosse attribuito all'operazione.

In questo caso si tratta di un'elevazione della vita, di immortalità. Non è un caso che questo collegamento concettuale appaia proprio nella mistica ermetica, dunque in Egitto, una delle due terre del mondo antico in cui scorrevano grandi fiumi. Come nell'altra terra, Babilonia, l'acqua vale come mezzo principale per gli esorcismi, come acqua di vita, così in Egitto si può distinguere una forma (forse più antica) dell'abluzione dei re e dei morti, in cui, come mostrano i geroglifici annessi oppure quelli usati per rappresentare le gocce d'acqua si mira a una revivescenza. In queste manifestazioni non si fa mai una distinzione netta tra il fluido vitale scomparso, e perciò da sostituirsi, del morto, l'acqua miracolosa del Nilo e lo sperma divino. Anche il morto Osiride viene asperso e dalla sua salma escono arbusti. Il dio si identifica col Nilo e il morto (rettamente trattato) col dio. Il concetto della reviviscenza si dissolve nel concetto, diffuso in tutti i popoli, della rinascita. Ma questo concetto spesso ha come presupposto l'idea di una morte, il più delle volte soltanto accennata simbolicamente. […] Da ciò appare come possibile che anche battesimi misterici siano stati intesi come morte volontaria e divinizzazione. Tuttavia sarebbe avventato generalizzare questa conclusione. In Apuleio la vera iniziazione compiuta nel tempio, che rappresenta la morte e la divinizzazione cultuale, è preceduta da un doppio lavacro, compiuto in terme pubbliche, e che soltanto nella seconda parte è sacrale. Perciò per il "battesimo" traspare il concetto della purificazione. Ma nella misura in cui la somiglianza del riti non favorisce una confluenza dei due concetti, non esiste un collegamento molto stretto fra purificazione e reviviscenza. Ambedue i concetti, della purificazione e della reviviscenza, se si trascurano accenni del tutto insignificanti, non vengono intesi in senso morale, ma semplicemente in senso rituale e magico.

Insomma, era chiaro che Hiram Abi o Abiff era l'iniziato che si eleva al vigore giovanile o che s'innalza per mezzo del bagno rigenerante: entrambe espressioni che - come abbiamo visto, si riferiscono al medesimo contesto. E compresi il valore simbolico delle due colonne itifalliche di Samotracia e del "rinato Pneumatico" di Ippolito: il genitale maschile è qualcosa che si alza, che si muove verso l'alto. A questo proposito c'era qualcosa nel libronzo di un tal Giovanni Feo, intitolato Prima degli Etruschi.

Nel culto di Cibele, Ermes itifallico era uno "spanditore di anime". Le anime, essenze spirituali, erano equiparate a farfalle e falene. In una pittura vascolare attica a figure nere è chiaramente espresso il senso di tale simbolismo: si vede un personaggio barbuto e itifallico che emette il seme, raffigurato come gocce che si tramutano in una farfalla. E, forse, non si tratta solo di una simbologia poetica. Hermes essenzialmente è un generatore e portatore di qualcosa di luminoso, un illuminatore… Così lo definisce Kerényi. Nella relazione tra sperma e farfalla è proprio quel qualcosa di luminoso recato dal dio a svelare il senso recondito del simbolismo. Le farfalle, e in particolare le falene, sono magneticamente attirate dalla luce, che per loro rappresenta un completo veicolo di moto e vitalità. Secondo molti naturalisti per le farfalle la luce è una sorta di nutrimento essenziale e primario. Tale relazione non è sfuggita agli antichi Greci, acuti osservatori dei fenomeni naturali. L'analogia ermetica tra sperma e farfalla rivela il principio ultimo e creatore del quale Hermes è segreto patrono: la luce.

Tuttavia la mia decifrazione mi ripropose sorprendentemente la questione, evocata da Ragon e che io avevo del tutto trascurato, del rapporto tra massoneria e templarismo. Infatti la parola Bafomet vale bafén mathón, colui che ha conosciuto il bagno, presentando così un significato strettamente analogo al precedente. Dalla mia lettura la strana affermazione di Ragon risultava persino rafforzata, in quanto se ne deduceva che l'introduzione della leggenda di Hiram Abiff in massoneria indicava un'immissione, o una manifestazione in essa della tradizione templare. Hiram Abiff era pure il Bafomet massonico. Ma, buon dio, Templari nel XVIII secolo? No, vabbe' - mi dissi - almeno di questo non mi voglio occupare! Nel caos in cui stavo, ci mancavano pure i Poveri cavalieri di Cristo e del tempio di Salomone!

Passai quindi alla parola sacra del terzo grado. Il Reghini ne dava due, usate alternativamente a seconda dei riti, Mak-Benak (Mac-Benak, Mac-Benah, Mac-Bena, Mac-B'nah) e Moabon (Mahhabon, Mahabone), affermando che la seconda doveva essere una deformazione della prima. Sbuffai per l'irritazione perché questa faccenda della deformazione m'inseguiva fin da sant'Adhabell, sembrava che i massoni fossero tutti sordastri e dislessici. Avevo ormai capito il trucchetto. Tutte le volte che gli esegeti ufficiali non riuscivano a spiegare una parola se la cavavano dicendo che beh, era una deformazione, e la trasformavano in un'altra che credevano invece di comprendere. Ma io volevo giocare onestamente, fino alla fine.

Mak-Benak per me era costituita da tre parole greche: máches, genitivo di máche, battaglia, lotta anche di parole, schermaglia; boés, genitivo di boé, grido, parola, suono, musica, canto; e ánax, signore. Il termine valeva dunque: "Signore della battaglia del suono (della parola)". Naturalmente, poiché significati diversi confliggono nella forma fonica delle espressioni linguistiche, soprattutto se si camuffano parole di una lingua dentro altre parole di un'altra lingua, divenire maestro doveva pur implicare il dominio di tale tecnica espressiva. Rendersi "signore della battaglia del suono" non significava quindi nient'altro che "rapire Armonia".

Moabon, dal canto suo, non m'apparve affatto una deformazione del precedente ma come costituito da due parole greche: myón, participio indicativo di myéo, insegno, inizio; e ancora boén, accusativo di boé, il cui senso ho già dato. Il termine valeva dunque: "Colui che insegna il (inizia al) suono (della parola)". È sorprendente notare come entrambe le frasi presentino una singolare sovrapposizione di senso. Anche se non derivano una dall'altra, Mak-Benak e Moabon significano più o meno la stessa cosa: il maestro è signore della battaglia del suono, del bisticcio fonetico, della lingua criptica iniziatica che ora possiede perfettamente e che può insegnare. Tra l'altro, queste lievi differenze attestavano un uso vivo della lingua greca e non una semplice trasmissione pedestre e ignara fatta da sordastri dislessici. Dietro questi giochi c'erano degli autentici poeti del concetto, veri signori della battaglia del suono. Cosa volete che vi dica? Ero semplicemente ammirato.

Il Reghini mi dava due versioni, a seconda dei riti, anche della parola di passo del terzo grado: Tubalkain e Giblin (Giblim). Naturalmente il Tymboxein sponsorizzato dal Bernard, dall'Hutchinson, e al loro seguito da lui stesso, c'entrava come i cavoli a merenda. Che senso ha in un contesto esplicito di resurrezione e rigenerazione avere una parola di passo che recita: "io preparo il mio sepolcro, faccio la mia tomba nelle polluzioni della terra, sono sotto l'ombra della morte"? Per non parlare di Giblin che Reghini, facendo sempre lo stesso errore logico di ritradurre semplicemente in greco parole ebraiche, fa derivare da télos, fine. Ma che fine, che fine, se tutto il grado parla di un nuovo inizio!

Tubalkain era per me costituito da tre parole greche: theoú, genitivo di theós, dio; boulén, accusativo di boulé, volontà; ed écho, ho, possiedo, conosco. Il termine valeva dunque: "Conosco il volere divino". Come non ripensare al brano di Diogene Laerzio sulla pretesa dei Magi di essere gli unici a venir ascoltati dagli dei perché, in qualche modo, parlavano la stessa loro lingua? Mi pareva pacifico che colui che si è elevato per mezzo del bagno rigenerante - o al vigore giovanile - e che si è reso signore della battaglia del suono, conosca anche l'esatto volere degli dei, visto che pretende di parlarci vis-à-vis.

Giblin stava invece chiaramente per Kybélen, accusativo di Kybéle, Cibele. Quest'ultima parola, chiaramente fuori contesto, attestava comunque un'influenza dei misteri di Cibele nella massoneria. D'altra parte ero informato della stretta connessione - filologicamente accertata - tra i misteri di Samotracia, quelli di Cibele e quelli di Dioniso, e pure del fatto che Cibele e Demetra erano considerate grandi protettrici del culto di quest'ultimo. Compresi la collocazione originaria della parola Giblin rifacendomi al rituale contenuto in The Grand mystery of free-masons discovered wherein are the several Questions put to them at their meetings and Installations, London, printed from T. Payne, 1724, nel quale si legge: "D. Datemi la parola di Gerusalemme. R. Giblin. D. Datemi la parola universale. R. Boaz. D. Qual è la parola giusta od il punto giusto di un massone? R. Adieu." Soprattutto nell'ultima risposta che prescrive, questo rituale sfiora il ridicolo. Sfido chiunque a trovare un corrispondente ebraico per la parola "Adieu", che è invece evidentemente francese. Il Reghini, nella menzione che ne fa, afferma che esso non contiene parole sacre o di passo ma un altro genere di parole: di Gerusalemme, ecc. Tuttavia - osservai io - Gerusalemme sta per ierós lémma, parola sacra - quindi la parola sacra c'era e come, malgrado Reghini -, che Giblin sta per Kybélen, accusativo di Kybéle, Cibele, che Boaz sta per bóasa, invoco, e che infine il ridicolo Adieu sta per óida, io so. A questo punto tutto il dialogo diventa comprensibile, in particolare chi risponde dichiara: "Cibele invoco. Io so." Ciò appare come del tutto analogo allo scambio rituale del primo e secondo grado, là si trattava di Dioniso, qui di Cibele.

Che dirvi se non che al termine della mia fatica ero sconvolto. Il ventilatore girava pigro come sempre, ma il marcio c'era ormai finito dentro e mi stava grandinando addosso. Sì - urlava la mia mente scatenata - sì! E Salomone è stato scelto perché il suo nome vale teloúmenos, participio passato della forma passiva di teléo, uno dei cui significati è "io inizio ai misteri"; teloúmenos è dunque l'iniziato, come nell'espressione tipica teloúmenos megáloisi télesi, iniziato a grandi misteri, sì! E Ivah, nel quarto grado del rito scozzese, è eyói, semplicemente il grido entusiastico dei seguaci di Dioniso, evoè, altro che forma contratta di Iavé! Sì e poi sì! TRISMEGISTO E STRAMALEDETTO ! Avevo la bufera nel cervello, qualcosa nell'ordine fondamentale del funzionamento dei miei neuroni si era irrimediabilmente guastato.

6. Una conclusione sensata.

Una banale ricerchina cominciata per caso aveva liquefatto il mio mondo: più niente era quel che sembrava. Essa aveva ucciso in me quanto di più sacro e innocente, di più fondamentale c'è per un essere umano: la fiducia cieca che ha nella propria lingua naturale. Nella nostra vita, nella nostra terra, tra la nostra gente siamo usi a parlare, ma ancor più siamo usi a comprendere ed essere compresi. È per noi ovvio avvicinarci a un perfetto sconosciuto e dirgli: "Scusi…", assaporando in anticipo la certezza assoluta che egli si girerà sollecito rispondendo: "Prego?" E "scusi" e "prego" voglion dire esattamente "scusi" e "prego". Oppure, viaggiando in uno scompartimento ferroviario, esercitare il nostro voyeurismo auricolare sulla conversazione privata di due compagni di viaggio, sicuri di capirla, o di carpirla, esattamente. Quasi mai ci rendiamo conto dell'importanza di ciò, del fatto che fonda tutta la nostra esistenza: la certezza della koiné.

Io me ne rendevo conto ora, giusto un secondo dopo averla persa. In che lingua parlava davvero la gente? Cioè, non tutta, ma come distinguere quella gente dall'altra? A mia insaputa, mentre vivevo e scambiavo parole con gli altri, credendo di capire e venir capito, ogni tanto c'era chi mi parlava attraverso, chi mi parlava sopra, chi mi parlava di lato dicendo cose che credevo di capire e non capivo, alle quali rispondevo cose che a loro volta venivano intese in tutt'altro modo. Fui travolto dal senso di un'ingiustizia cosmica, irrimediabile. Man mano che la temperatura febbrile della mia mente saliva mi figuravo di chiedere il quotidiano all'edicolante sotto casa e di vedergli piegare la testa di lato come fanno gli uccelli, mentre strideva: "Katadye, affonda!", o addirittura di accostarmi a mia moglie chiedendole: "Mi ami?" per sentirmi rispondere: "Miméomai, sto fingendo." La mia mente non aveva più terra solida sotto i piedi, era travolta da un vento infernale fatto di fischi, strida, suoni insinuanti e del tutto incomprensibili.

Quella notte mi sbronzai, lo ammetto, ma solo allo scopo di dormire. Mi svegliai pesto, con la lingua ruvida, gli occhi gonfi, un cerchio alla testa e il ricordo vividissimo di un sogno. C'era acqua, solo acqua dovunque ma non molto profonda perché in mezzo stava ritta una gru, con l'unica zampa visibile appena sommersa. Immobile e di profilo, mi fissava con il suo occhio rotondo. Poi l'occhio mi catturò e si fece sempre più grande. Mentre cominciavo a scivolarci dentro, la gru scosse la testa come per scagliarmi via e, mentre ritornavo al mio posto, si trasformò in una donna bellissima. Quando mi vide i suoi occhi ebbero un lampo, tese le mani e cominciò a gridare. Ma dalla sua bocca non usciva alcun suono, o lei era muta, o io ero sordo. Il suo sguardo implorava, le vene del suo collo si gonfiavano nello sforzo, così mi mossi verso di lei e sprofondai.

Decisi di aver bisogno di una pausa e nel week-end partii per la casa in collina, portando con me solo gli appunti. Così finii per ritrovarmi seduto davanti al vecchio camino scoppiettante, con le mani che cincischiavano i fogli arricciati dal calore.

Cos'ho in mano, mi chiesi. Qualcosa che viene dal fondo dei tempi - risposi - da qualche luogo orientale, qualcosa che canta e canta e si nasconde. Che quando il suo rifugio diviene inadatto migra, sempre cantando, poi torna a nascondersi. Che significa questo, domandai. Che ho i Cibelíti5, i Cábali6, i Cabálii7, i Cálibi8, i Cábiri dell'antichità, i cabalieri e i ghibellini del medioevo, i cabalisti del rinascimento, ma soprattutto ho finalmente i Pelásgi, i pelárgi9, i gheráni, i gherái10, gli antichi, le gru! Ho preso le gru per la lingua, non basta?

Sii sincero - mi dissi - cos'hai in mano? Niente - risposi - perché non resta più niente. Qualche allusione, tre righe di papiro e i sogni di un poeta.

Così i miei appunti finirono alle fiamme che, divorandoli, guizzarono in modo strano, come se un uccello di fuoco si lanciasse verso l'alto. Ma fu solo l'impressione di un istante, si sa che le fiamme non si mettono in posa.

Poi, naturalmente, piansi, ma il fuoco asciugava le mie lacrime prima che la bocca potesse gustarle. Piansi per me, i miei appunti, piansi per i Cábali, i Cábiri e i cabalieri, per i Pelásgi e i gherái, piansi per tutta la memoria del mondo distrutta ma viva - incomprensibilmente - nei sogni. Piansi per la poesia sempre negletta e per la povera gru, immobile a fissarmi nel basso e immenso mare primordiale. Avevo fatto tutto quello che potevo, andai stancamente a dormire.

Volete sapere se sognai? Sì, sognai. Sognai di stare in piedi su una collina guardando in alto, mentre sopra di me passava un volo di gru. La loro formazione a Y si stagliava gloriosa nell'azzurro del mattino e le gru cantavano, cantavano volando attraverso il tempo. Ma io non vedevo affatto una Y bensì un immenso gamma greco in scrittura corsiva, per forma identico alla Y ma per suono invece alla G11

La mattina mi svegliai sereno. Sapevo perfettamente la conclusione della vicenda, che ripassai a memoria. Sant'Anfibalo era un errore di trascrizione. I deipnosofisti era un libro di cucina. Le parole della massoneria erano rigorosamente ebraiche. Ma soprattutto la gente diceva quel che capivo e capiva quel che dicevo. Ero felice di aver liberato le gru bruciando tutto: nessuno doveva saperne nulla.

Ma come - chiederete - e questo scritto, allora? Boh, per quanto mi riguarda state leggendo un apocrifo.

Parola da interpretare come vi ho insegnato, s'intende.
 


Note


 


1 Ashmole fu iniziato alla massoneria nel 1646.

2 Naturalmente, in questo contesto la parola "cabala" non viene dall'ebraico kabbalah, tradizione, bensì dal greco kobaléia, buffoneria, bindoleria, marioleria, imbroglio, derivante da kóbalos, parola frigia che significa folletto o genio malefico; bindolo, furbesco, ciarlatano, mariuolo, astuto. La cabala fonetica è dunque la kobaléia fonetiké, l'imbroglio fonetico. Così, la lingua "degli uccelli", in greco orníthon , è la lingua arréton, la lingua "delle cose segrete, che non si devono divulgare".

3 Come è noto questo eroe era figlio dell'egizio Agenore che, emigrato nella terra di Canaan, sposò Telfassa. In effetti pare che il nome di Cadmo derivi dall'ebraico qedem, oriente. In ogni caso egli è l'erede di due tradizioni. Di lui si sa che fu pure l'istitutore dei Misteri di Samotracia. In effetti Kádmos, vale Kadmílos, uno dei Cábiri. Cosa non secondaria, in Grecia era tradizionalmente indicato come colui che vi importò i caratteri della scrittura, originariamente fenici.

4 "A Cnosso compare il nome i-wa-ko, la cui lettura in greco potrebbe essere Iakos, Iachos ma anche Iakchos; a Cnosso e a Pilo più spesso si trova i-wa-ka. A questa forma è forse da collegare un nome di Sirio: Iakar, parola che in greco suona del tutto straniera. Per i due nomi - Iakar e Iakchos - si può far riferimento a una storia egizia. Iachen o Iachim era il nome di un uomo saggio e pio che viveva in Egitto, si dice sotto il re Senyes. Può anche darsi che quest'uomo sia stato una figura divina. Di lui si raccontava che mitigasse per mezzo del fuoco la forza ardente di Sirio nel periodo del suo sorgere mattutino, e che in tal modo estinguesse le epidemie che scoppiavano in quel medesimo periodo. Quando morì fu eretto per lui un santuario sepolcrale e i sacerdoti, dopo aver compiuto debiti sacrifici, prendevano dal suo altare il fuoco per compiere la stessa operazione. Sembra che si trattasse di un rituale magico consistente nel portare in giro il fuoco per contrastare il fuoco esiziale della stella." (Kerenyi K., Dioniso, Adelphi, p. 91)

5 Seguaci del culto di Cibele.

6 Popolo libico, stanziato nella parte interna della regione di Euesperides, nella zona dell'oracolo di Ammone.

7 Popolo asiatico, stanziato in Lidia.

8 Popolo stanziato tra la costa del mar Nero e il monte Ararat, famoso per la lavorazione del ferro. È interessante studiare sui documenti i rapporti tra tutti i popoli che ho menzionato.

9 I Greci svilupparono un naturale e particolarissimo gusto per le parole, i giochi di parole, i doppi sensi, le allegorie e i simbolismi. Un curioso esempio è dato dalla parola "Pelasgi", che può essere tradotta in "popoli del mare", da "pélagos", che vuol dire "mare", ma anche "gru", da "pelargós".

10 Graeci significa "coloro che venerano la Vegliarda", presumibilmente la dea della Terra di Dodona che ha nome Graia. Le Graie, secondo lo scoliaste di Eschilo, avevano forma di cigni, probabile errore per "gru" - il cui nome, oltra a "pelargós", è anche "ghéranos" - dovuto all'erronea interpretazione di una figura sacra, poiché cigni e gru sono uccelli sacri e volano in formazione a Y.

11 Per quelli che preferiscono pensare che le gru volano in formazione a V, o a triangolo, e non a Y, segnalo serenamente che la gamma maiuscola presenta proprio questa forma angolare. Dal suono della G sembra proprio non si possa fuggire… La lettera G è particolarmente venerata in massoneria.
 


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[L'autore, che preferisce mantenere riservatezza sulla propria persona, pubblica su questo stesso numero di Episteme un commento concernente la "simbolica templare"]