La vera natura del "magico Shamìr"
A proposito di un'antichissima tecnologia
per la lavorazione della pietra senza l'uso di strumenti
metallici
(Lia Mangolini)
Storia e leggenda
"Il quinto mese, il sette del mese, corrispondente al diciannovesimo anno di Nabuchadnèsar, re di Babilonia, giunse a Gerusalemme Nabuzardàn, comandante della guardia, subalterno del re di Babilonia" (2 Re 25, 8). La prima volta che casualmente mi imbattei nello Shamìr, si trattava solo di un fuggevole accenno contenuto in un articolo che parlava della Massoneria, e diceva pressappoco quel che segue.
Durante la seconda conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (che la Bibbia chiama "caldei") nel 587 a.C. - con susseguente saccheggio dell'intera città, messa a ferro e fuoco, e deportazione dei suoi abitanti - dal Tempio di Salomone fu portato via tutto quanto c'era ancora di prezioso. Ma quasi ogni arredo e oggetto in oro e in argento era già stato sottratto dieci anni addietro durante il primo episodio di questo genere, quello portato a termine nel 597 a.C. dallo stesso Nabuchadnèsar, o Nabucodonosor (1). La spoliazione compiuta dai caldei - benché definitiva e, questa volta, completa - fu quindi, per forza di cose, più modesta quanto a valore venale, ma non per importanza. Oltre all'asportazione di tutti gli oggetti mobili, furono demoliti e portati via tutti gli accessori in bronzo del Tempio, compresa la grande vasca per la purificazione dei sacerdoti (2) e le due colonne, poste all'esterno ai lati dell'ingresso: modello comune a tutti gli impianti templari di questo periodo e di questo àmbito geografico. Le due colonne, delle quali la Bibbia riporta minuziose descrizioni (3), e alle quali Salomone aveva dato i nomi di "Jachin", quella di destra, e "Boaz", quella di sinistra (cioè, forse, "Stabilità" e "Forza"), erano cave. Fin qui, per quanto attiene la testimonianza "storica" dell'Antico Testamento. La leggenda riportata dalla tradizione midràshica (4), tuttavia, fornisce ulteriori dettagli. Insieme alle colonne fu asportato il loro contenuto: nella loro cavità, infatti, veniva conservato l'intero archivio storico del popolo d'Israele, assieme ai documenti che riportavano la summa di tutto il sapere e tutti i segreti scientifici. Pare poi che in seguito, per vie misteriose, quei documenti siano entrati in possesso della Massoneria, che li deterrebbe tuttora. Fra essi, era custodito il segreto di "qualcosa" che nessuno più sa cosa sia: il "magico Shamìr" (5).
Il mio secondo incontro - anch'esso fortuito - con lo Shamìr avvenne leggendo un altro midràsh e fu molto più illuminante; ma non a sufficienza. Il racconto riporta che, per la costruzione del Tempio (6), Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro (7), il metallo di cui son fatte le armi che portano morte.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr"(8). Dio stesso l'aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote.
Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Ma la storia racconta poi di come Salomone (in modo a dire il vero non troppo onorevole) riuscì a procurarselo. Il dèmone Asmodeo (che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti) fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico (o gallo cedrone, o gallina di brughiera, o aquila di mare, a seconda delle versioni), che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile. In quell'occasione, re Salomone riuscì con l'inganno a sottrarre il magico "tarlo" al gallo selvatico, che se lo era fatto prestare da Rahav per un caso di forza maggiore: il re infatti, proprio per costringere il pennuto a questo espediente estremo, aveva fatta porre sopra il suo nido una piccola cupola di vetro, separandolo così dai suoi piccoli. Volò verso occidente l'uccello disperato, in cerca di Rahav; quando tornò portava nel becco lo Shamìr, con il quale in pochi istanti riuscì a perforare o a disintegrare il vetro, lasciando poi cadere lo Shamìr, che Salomone lestamente raccolse. A lui che stupito chiedeva cosa mai fosse quella misteriosa e portentosa sostanza e da dove venisse, il gallo selvatico rispose che la si poteva trovare lontano, sulle Montagne dei Dormienti, e là lo condusse, dove il re ne fece scorta sufficiente a completare tutte le opere del Tempio che non potevano essere eseguite usando strumenti metallici. Particolare pietoso, si dice anche che il gallo selvatico, per la vergogna di aver perso lo Shamìr, si sia suicidato. Vedremo fra poco quante e quanto strette analogie (luoghi, personaggi, miracolose caratteristiche e modalità degli avvenimenti) questa leggenda mostri con le altre sparse in tutto il mondo. Il racconto dà inoltre una interessante precisazione: lo Shamìr - che, almeno in alcune versioni, a fine lavori venne restituito al suo custode - venne da Salomone riposto e in seguito conservato (era quello l'unico modo di trattarlo correttamente) in un cestino pieno di crusca d'orzo.
Ma che cos'era dunque lo Shamìr?
Particolari tecnici
Quella sopra riportata è solo una delle molte narrazioni relative allo Shamìr: segno che - malgrado l'incertezza dell'identificazione - a suo tempo era "qualcosa" di ben noto e diffuso. Infatti ho trovato più tardi numerosi altri dettagli. Provengono da almeno una quindicina di midrashìm diversi (alcuni dei quali molto antichi) ma sostanzialmente concordi sui punti principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i particolari che ne emergono sono i seguenti.
1) lo Shamìr poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le pietre più dure - un midràsh dice "anche il legno duro come pietra" - diamante compreso (che, in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro; la sua azione non lasciava residui (10);
2) il suo aspetto era quello di un "qualcosa" delle dimensioni di un granello d'orzo, forse di colore verde;
3) non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro?
4) solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso prodotta;
5) non danneggiava la lana né la crusca, e - con qualche problema - si poteva manipolarlo a mani nude (11);
6) non inibiva la crescita delle piante;
7) con l'andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) "scomparve", o meglio "divenne inattivo" (12).
Appare piuttosto evidente che la descrizione di questo "qualcosa" fosse dovuta, in origine, all'esperienza diretta di chi con questo "qualcosa" aveva avuto a che fare, e che l'aveva usato. Ed appare ugualmente evidente - poiché all'epoca della stesura di questi testi, di cosa fosse di preciso lo Shamìr si era ormai persa la memoria - che le straordinarie caratteristiche di questo "oggetto misterioso" non sono riferibili ad alcuna delle più comuni interpretazioni che ne vengono date.
Il dizionario ebraico-italiano, alla voce "SHAMIR", elenca infatti diverse, mirabilmente eclettiche definizioni: 1) diamante (?) (sic); 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro. E questo è tutto.
L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di "niàr shamìr" che in ebraico moderno a tutt'oggi, correntemente, indica la comune "carta vetrata", cioè qualcosa che consuma e corrode.
Qui ci troviamo evidentemente nel campo delle ipotesi. Dirò di più, siamo al livello degli indovinelli da bambini: minerale, animale o vegetale?
Ora, è chiaro che siamo costretti a considerare attendibili i dati forniti. D'altronde, non abbiamo alternative. Quindi, sulla base degli elementi descrittivi a nostra disposizione, e alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, cercherò per prima cosa di escludere le interpretazioni "impossibili", e quindi (anche mettendo in atto i collegamenti cui prima accennavo) di identificare tentativamente il favoloso Shamìr. Ma che cos'era insomma?
Sette spiegazioni e mezza
MINERALE
E' doveroso oltreché pertinente, in questa sede, riportare le origini del termine e le sue successive modificazioni. "Shamìr" viene, pare, dall'antica parola indoeuropea "smer", che indica una "polvere minerale per levigare o segare"; e non si può negare che in effetti la funzione del "nostro" Shamìr sia quella, né che nei due vocaboli sia presente la medesima radice "SMR". In greco quel materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino "smericulum", in francese e in inglese moderni rispettivamente "émeri" ed "emery", in italiano infine "smeriglio".
In ebraico, come abbiamo visto, sono stati invece conservati sia il senso che, insieme, la forma della parola. Tutte queste versioni hanno sostanzialmente lo stesso significato: "smeriglio", per l'appunto. Solo che questa interpretazione non mi procura una particolare soddisfazione, poiché con quel termine si definiva (e si definisce tuttora) un notissimo abrasivo proveniente dall'isola di Naxos nelle Cicladi (che tuttora lo esporta), e ricavato polverizzando una locale varietà granulare compatta di corindone. Da nessuna parte sta scritto che fosse un dono divino gestito da un uccello, circondato da un alone di leggenda, né che avesse abitudini esplosive, o che facesse ammalare la gente, o che avesse l'aspetto di un granello d'orzo, o che si inattivasse dopo un certo tempo. Tutto ciò che questo materiale inerte sa fare è unicamente levigare e lucidare, più o meno come la normale pomice o la polvere di quarzo (c'è una bella differenza con quanto si legge a proposito dello Shamìr!). E a me questo non basta. Per cui, ritenendo valida soltanto - e soltanto in parte - l'affinità dell'uso, sarò costretta ad accantonare questa ipotesi. C'è una sola notazione interessante e curiosa da fare: "smeriglio" viene chiamata anche una specie di uccello predatore molto piccola appartenente alla famiglia dei Falconidi, ed è pure un altro nome con cui viene indicato lo sparviere. Ma vediamo ora cosa dice il dizionario.
"DIAMANTE" (?):
E' il dizionario stesso che, con quel punto interrogativo, manifesta nei riguardi di questa interpretazione la sua perplessità. Infatti (per quanto il termine "Shamìr" compaia diverse volte nei Libri di alcuni Profeti (13) a indicare qualcosa di più duro della roccia e del ferro), è chiaro che, accogliendo tale definizione, ciò che viene considerato, pure qui, è soltanto il possibile effetto, il risultato dell'azione svolta sul materiale lavorato. Anche questo punto di vista, in più, lascia aperti altri problemi, poiché un'incisione eseguita con una punta di diamante produce limatura o polvere, contrariamente a quanto veniva detto dello Shamìr (anzi era proprio questo, per gli autori dei midrashìm, uno dei suoi aspetti più straordinari). L'ipotesi, oltre tutto, diviene ancora più fragile se si considera che in teoria con quel "diamante" dovrebbero essere state tagliate in misura e rifinite le enormi pietre (14) messe in opera nella costruzione del Tempio. In ogni caso, l'impiego per quell'uso del diamante (pietra pure allora assai rara e preziosa, tanto da far parte forse del pettorale del Sommo Sacerdote) sarebbe stato insostenibilmente dispendioso. E, a parte questo, dove avrebbe potuto Salomone procurarsene i quantitativi necessari, visto che non risulta che in Israele né in Egitto o in altri paesi vicini esistano giacimenti diamantiferi? D'altronde, nemmeno tale lettura tiene in alcun conto le altre numerose indicazioni contrarie: né le dimensioni indicate, né il carattere "esplosivo" dello Shamìr, e neppure l'affermazione che col tempo esso divenisse "inattivo". Insomma, a parte l'effettiva "capacità" del diamante di tagliare qualunque pietra, non c'è nessun elemento che concordi. Cosa che, credo, ci autorizza a escludere questa identificazione.
E, poiché stiamo indagando sulla possibile natura minerale dello Shamìr, è in questa sede che devo inserire una ipotesi molto più originale ed interessante di quella dello smeriglio o del diamante, ma che gli antichi esegeti e autori di midrashìm non potevano certo prendere in considerazione, anzi non potevano neppure immaginare.
SOSTANZA RADIOATTIVA:
Sempre a partire dalla stessa (e unica) fonte di Ginzberg, altri ricercatori giungono a conclusioni completamente nuove e diverse che, sostanzialmente, vedono nello Shamìr una qualche - non ben precisata - forma di energia. Un articolo di David Salkeld (15) richiama ed approfondisce quello già citato di Velikovsky (16), il quale a lungo si occupò pure di questi problemi e le cui teorie "eretiche" sollevarono grande scalpore verso gli anni '50. Diversamente dagli esegeti biblici, sostenitori di più tradizionali interpretazioni (a giustificazione dei quali, comunque, è appena il caso di ricordare che non erano di certo scienziati dell'era nucleare), Velikovsky aveva invece preso in esame alcune altre caratteristiche dello Shamìr, da questi solitamente trascurate - immagino, per mancanza di spiegazioni sensate -: "colore verde" (forse), simile a quello di alcuni sali di elementi pesanti; corrosività nei confronti di tutti i minerali e metalli tranne il piombo; "inattivazione" nello spazio di 400 anni o meno. Era perciò giunto a identificare - per quanto non esplicitamente - lo Shamìr con qualche tipo di sostanza radioattiva. Poteva forse trattarsi del radium, o di un suo sale, o di qualche altro isotopo della serie dell'uranio, dell'attinio o del torio: purché avesse una "vita energetica" compatibile con la durata documentata dell'attività dello Shamìr (valutata in circa 900 anni, cioè dall'epoca dell'esodo a quella della distruzione del Primo Tempio; ammesso naturalmente, come ho rilevato alla nota 12, che si trattasse sempre dello stesso Shamìr). Se non è vera, è ben pensata, come diceva un mio vecchio maestro. Perché fin qui il discorso torna, o parrebbe tornare. Ma vedremo più avanti perché invece non sia così.
Salkeld cerca di avvalorare questa tesi con diverse argomentazioni.
E' un dato di fatto che oggi in natura i minerali radioattivi - per quanto forse più abbondanti in passato - sono rarissimi sulla superficie terrestre (3-4 grammi di radium dispersi in 2000 tonnellate di pechblenda), e possiamo supporre che, 3500 anni fa, chi non ne conoscesse le potenzialità ben difficilmente avrebbe investito il suo tempo e le sue energie per procurarseli con l'estrazione mineraria. E c'è inoltre il problema che, anche in questo caso, né in Israele né nei paesi limitrofi sono noti giacimenti di tali minerali. Tuttavia, poteva anche darsi che la miracolosa e inidentificata sostanza fosse stata trovata "concentrata" in superficie, cioè - per così dire - già pronta all'uso, e che, riconosciutene la natura "speciale" e le peculiari proprietà (ma come?), fosse stata conservata e quindi utilizzata nei modi già visti.
Per la supposta esistenza di questo elemento, Salkeld dà due possibili spiegazioni:
1) Precipitato con un bolide meteoritico. A sostegno di questa supposizione, vengono citati diversi elementi.
I midrashìm affermano che lo Shamìr fu creato il sesto giorno: ciò, secondo Salkeld, sembra suggerire (oltre al fatto che forse era noto già in un lontano passato) che, in ogni caso, la sua origine sarebbe da collocarsi al tempo dei catastrofici sconvolgimenti della Creazione. La sua seconda apparizione - questa volta, "pubblica" -, nelle mani di Mosè, risalirebbe ai tempi dell'esodo: pure questo un evento collegato, secondo Velikovsky, ad altri disastri cosmici. E per concludere, anche la performance dello Shamìr che, come sopra detto, si sarebbe verificata durante il regno di Davide, avrebbe un'origine meteoritica. Comunque dopo la sua creazione, essa pure ovviamente "celeste", sia nell'uno che nell'altro caso (dell'uso che Salomone ne fece però non si parla) la presenza dello Shamìr sarebbe in relazione con la caduta di qualche bolide molto anomalo e strano. Ancora più strano, però, appare il fatto che questo tipo di detriti cosmici veramente "speciali" sarebbe caduto soltanto in quelle rare occasioni - sempre sul territorio di Israele - e poi mai più.
In alternativa, Salkeld propone una seconda, non meno immaginosa ipotesi.
2) Creato da scariche elettriche.
Sostiene Velikovsky che nel lontano passato elementi radioattivi, come quelli che oggi otteniamo artificialmente in laboratorio, potrebbero essersi formati "naturalmente" sulla superficie terrestre (a partire da altri elementi), nel corso di eventi eccezionali quali tremende scariche elettriche prodotte da un bombardamento cometario o meteoritico. Salkeld, cautamente, concorda, rammentando una delle geniali (e sconvolgenti per la scienza "ufficiale") previsioni azzeccate di Velikovsky: il quale era convinto che sulla Luna sarebbero stati trovati alti livelli di radioattività, e ne attribuiva la causa alle scariche elettriche interplanetarie di 2700 e 3500 anni fa, verificatesi nel corso delle presunte catastrofi cosmiche da lui teorizzate. Infatti l'esplorazione lunare gli ha dato ragione: che nel cratere Aristarco siano presenti emissioni di radon-222 di almeno quattro volte più alte della media lunare, è appunto per gli accademici un mistero senza spiegazione. Sfortunatamente, né Salkeld né - si pensa - nessun altro è attualmente in grado di calcolare di quale potenza, per "formare" sostanze radioattive da altre, inerti, dovrebbero essere le mostruose scariche elettriche intercorse, in ipotesi, fra la terra ed un altro corpo celeste, nel corso di un "incontro ravvicinato". Dipende, mi sembra, dalla differenza di potenziale fra i due oggetti. E nemmeno siamo al presente in grado di dire se quel fenomeno - non tanto le scariche, quanto le loro conseguenze - si sia effettivamente potuto verificare. Né, tanto meno, quando. O in concomitanza con cosa. Visto che di un simile evento non esiste alcuna memoria storica - e neppure, quanto a questo, leggendaria -, né testimonianza geologica o scientifica d'altro tipo, dovremo accontentarci di supporre che quanto affermato "potrebbe" - chissà quando - essere successo. Ma le prove sono un'altra cosa. Salkeld peraltro non insiste né sull'una né sull'altra teoria, consapevole del fatto che - se mai radioattività c'è stata - al giorno d'oggi non sarebbe ormai più rilevabile: in tutti i casi il normale decadimento avrebbe già da tempo reso qualunque materiale ("caduto" o "formatosi" in un passato così abissalmente lontano) nulla più che un innocuo pezzo di pietra (19).
Si limita a sottolineare, spezzando un'ultima lancia a favore dell'ipotesi nucleare in genere, che - come sembra accertato - in molti siti megalitici in Inghilterra (per la precisione, al centro di preistorici cerchi di "pietre erette") si registrano tuttora significative letture di radioattività - di origine ignota -, ovviamente residua rispetto ai valori presumibili all'epoca della costruzione. Indubbiamente erano luoghi sacri e speciali. Ma - e con Salkeld abbiamo finito - viene naturale chiedersi se questa "sacralità" fosse positiva o negativa. In altre parole (per quanto non sia chiaro come, all'epoca, fosse possibile misurare le radiazioni), se quei cerchi venissero eretti come strutture "off limits", segnali della pericolosità di un luogo cui non conveniva avvicinarsi, o per il motivo opposto (20), facendo salvo in tutti i casi il loro significato magico-astronomico.
Comunque, a puro titolo di curiosità, sarebbe interessante sapere cosa mai possa racchiudere - o racchiudesse - il sottosuolo del sito in cui fu eretto il Tempio: minerali radioattivi? metano? che altro?
A questo proposito è indispensabile un'osservazione.
Salomone era un pozzo di scienza, lo sanno tutti; era di una sapienza e di una saggezza strabilianti; da mezzo mondo tutti i più potenti re della terra venivano a Gerusalemme per consultarlo, per avere lumi. Se lo Shamìr era veramente radioattivo, e quindi gravemente deleterio per la salute, non è pensabile che, conoscendo tali proprietà negative o effetti collaterali indesiderati, fosse così incosciente da portarselo sempre addosso (meglio sorvolare sul fatto che obbligava i suoi dipendenti a maneggiarlo quotidianamente).
A quanto pare, invece, il "magico Shamìr" era qualcosa che si poteva - con molta precauzione, e probabilmente riportandone danni non indifferenti - manipolare ed utilizzare almeno per un certo tempo.
E allora non era radioattivo.
Infine, non concordano con questa sua presunta natura nemmeno altre affermazioni relative allo Shamìr, affermazioni in grado di invalidare anche altre tentate identificazioni: che non danneggiasse i materiali organici (la lana, la crusca), che non inibisse la crescita delle piante, che avesse la dimensione di "un granello di orzo".
Alla luce di quanto sopra esposto, mi sembra perciò inevitabile escludere anche l'identificazione "nucleare": con un certo disappunto, devo dire, poiché sembrava molto promettente, ed era sicuramente affascinante. D'altronde, i giochi sono aperti. Solo qualche tempo fa, un eminente studioso mi ha espresso molto seriamente la sua convinzione che il misterioso Shamìr altro non fosse che una specie di laser primitivo, in cui la luce coerente sarebbe stata prodotta (ma da quale fonte, non lo ha detto) facendola passare per un forellino, ottenuto dallo stampo (se di una certa dimensione) di un capello di un adulto, oppure da quello del capello di un bambino (se serviva un foro ancora più piccolo…) (21).
E ora, possiamo tornare alle interpretazioni "tradizionali".
ANIMALE
"VERME":
Per la verità il midràsh che ne parla, nella raccolta di Ginzberg, dice che "la salamandra e lo Shamìr sono i più mirabili tra i rettili"; ma diversi altri racconti, e anche il dizionario, lo definiscono senza incertezze come "verme". Non mi è chiaro il motivo della forte propensione che un buon numero di autorevoli rabbini ed esegeti biblici ha manifestato - e forse manifesta tuttora - ad accogliere questa versione. In ogni caso, trasformare in "rettile" il "verme", o in alternativa il "tarlo" (o altro insetto), sembra proprio l'interpretazione di una interpretazione.
(Il termine "insetto", fra l'altro, deriverebbe dall'erronea traduzione del latino "insectator", cioè "tagliatore"). A me pare invece che tale significato possa essere utile solo ad indicare - come nel caso del diamante e dello smeriglio - l'azione meccanica ed un effetto consimile che tali animali potrebbero avere prodotto, ma di sicuro non sugli stessi materiali. A voler essere generosi, tuttavia, è comprensibile anche questa identificazione, alla luce del fatto che quando questi testi vennero messi per iscritto, nessuno già più sapeva per certo in che cosa consistesse né come operasse lo Shamìr. Ho letto anche una cavillosa (ed anche un po' pretenziosa) ipotesi, secondo la quale il "verme" potrebbe essere assimilabile ad un "serpente", animale mitico di cui le tradizioni religiose e cosmiche traboccano, ma onestamente non mi sembra che possa essere presa in considerazione. E poi, che razza di verme era? Uno che dopo quattrocento anni "diventava inattivo"? Non mi stupisce. Era "esplosivo"? Era come un grano d'orzo? Non impediva la crescita delle piante? Lo si poteva manipolare? A difesa di questa teoria (che, peraltro, si basa principalmente sul fatto che si dovesse trattare comunque di un essere vivente), si può dire solamente che, per tradizione, tutta la storia letteraria dell'antico Vicino Oriente - compresa ovviamente quella ebraica - manifesta un forte interesse per il ruolo, spesso simbolico, svolto da molti animali nella vita degli uomini, soprattutto in senso didattico, moralistico e sapienziale. In fin dei conti, né Esopo, né Fedro, né La Fontaine hanno inventato niente di nuovo. Così, nessuno dei lettori cui erano destinate queste favole e queste leggende si sarebbe stupito di trovare perfino le creature più umili - come potrebbe essere appunto il verme - che parlano con Dio, interagiscono con gli esseri umani, svolgono compiti vari.
Nel caso in esame, si diceva che quel singolare animaletto sarebbe strisciato dentro o sul pezzo da lavorare riuscendo a intaccarlo o a fenderlo con un taglio perfetto. Si diceva pure che un suo semplice tocco potesse scindere la pietra, che si apriva "come le pagine di un libro". Certo che il supporre che il "verme" avrebbe volonterosamente tagliato le pietre del Santuario (per compiacere Salomone, naturalmente) denota una grande fiducia nella pazienza e nell'abilità di chi lo doveva addestrare: come riuscivano a convincerlo o a costringerlo a collaborare? Per non parlare dei tempi di lavorazione. E non voglio nemmeno pensare a come dovesse sentirsi il gallo selvatico, mentre volava trasportandolo nel becco.
Insomma, oltre all'ovvia constatazione che il verme è "capace" di scavare (mele, di solito), non abbiamo nessun altro elemento che concordi. A riscattare, almeno in parte, la dignità del povero verme, c'è però una notazione bizzarra e anche un po' inquietante: si diceva che il suo sguardo facesse morire, così come quello di Medusa faceva impietrire. Ma, a parte il fatto che mi sembra piuttosto problematico riuscire a capire se il verme ti sta fissando o meno, francamente non so che cosa pensarne.
E' stato anche proposto che non propriamente di un "verme" si trattasse, ma di sue ipotetiche e particolari secrezioni corrosive. E questo potrebbe anche avere un senso, volendo sorvolare sulla proclamata natura di "essere vivente" dello Shamìr oltre che sull'indubbia difficoltà di procurarsi - forse strizzando gli sventurati anellidi - adeguati quantitativi di quella prodigiosa sostanza, a condizione però di mettere su un allevamento. Chi prende in considerazione una soluzione del genere non dovrebbe tuttavia dimenticare che il re Salomone (al quale l'anello fatato consentiva di parlare con tutti gli animali del buon Dio, con i quali aveva un ottimo rapporto) mai e poi mai avrebbe fatto una cosa simile. E' vero che già con il povero gallo selvatico non si era comportato troppo bene, ma strizzare i vermi, insomma...
Anche con il verme, comunque, abbiamo chiuso.
VEGETALE
"FINOCCHIO":
Per quanto riguarda questa modesta pianta mangereccia, non saprei davvero che proprietà possa avere nel campo che ci interessa, e mi spiace dover ammettere che non mi viene in mente niente. Ma, pur riconoscendo di non aver fatto approfondite ricerche sull'argomento, oserei dire che - probabilmente - il fatto che porti lo stesso nome sia sostanzialmente una coincidenza, e che l'umile finocchio non abbia proprio niente da spartire con il "magico Shamìr". Quindi, con rincrescimento, manderò anche il finocchio dove sono finite tutte le altre proposte.
Così, per risolvere il mistero di cosa potesse essere lo Shamìr, una volta eliminate tutte le interpretazioni a parer mio impossibili, esaurite tutte le altre eventuali identificazioni connesse ai regni minerale, animale e vegetale, non ci resta ormai più che il "paliuro". Ma chi, o per meglio dire "cosa" era costui?
"PALIURO" (Paliurus) - botanica:
Va sotto questo nome una pianta della famiglia delle Ramnacee, che ne comprende sei specie, cinque delle quali però (presenti in Cina e Giappone) non si trovano nei nostri climi. Quello che a noi interessa, poiché cresce in Africa e nell'Europa mediterranea, è il Paliurus spina-Christi, detto anche Paliurus aculeatus Lamarck, o più popolarmente "marruca", che è il nostro biancospino.
Viene descritto come un arbusto (ma può raggiungere anche i sei metri di altezza) molto ramoso e spinoso dal legno duro e resistente, con foglie alterne ovate, dotate di due stipole spinose disuguali. Porta fiori piccoli raccolti in cime, e frutti (drupe) con margine alato largo fino a tre centimetri. Il nome "spina di Cristo" deriva dalla credenza che dei suoi rami fosse fatta la "corona" con la quale Gesù fu proclamato "re dei Giudei". E' citato da Teocrito, Strabone, Euripide e Teofrasto, il quale nel IV° libro dell'"Historia plantarum" ne dà una descrizione un po' diversa; ma in sostanza, almeno apparentemente, è una pianta che non ha proprio niente di misterioso né tanto meno di portentoso. Sembrerebbe, purtroppo, che siamo arrivati a un punto morto. Ma, attenzione! Perché il profeta Isaia (a differenza di Geremia, Ezechiele e Zaccaria - citati alla nota 13 - i quali quando si riferiscono allo Shamìr intendono sempre qualcosa di "più duro del diamante"), tutte le volte che nomina quello stesso Shamìr, ne parla come di "spini e pruni" o di "rovi e pruni"? E' chiaro che per Isaia non si trattava di un minerale né tanto meno di un animale, ma di una pungentissima pianta, che di sicuro non era il finocchio, ma che - forse - poteva essere più o meno propriamente indicata con il nome - tradotto - di Paliurus. E allora - poiché non ci sono alternative - continuiamo su questa strada, per quanto cosparsa ed irta appunto di spine e triboli, e tentiamo di scoprire se ci sono altri elementi che stiano ad indicare che lo Shamìr fosse davvero un rappresentante (per ora in incognito) del regno vegetale. La nostra ricerca ci porterà, questa volta, fuori dai confini d'Israele, in luoghi anche molto lontani, impensati. Avrete parecchie sorprese.
Lo Shamìr e i suoi parenti
Oltre agli animali fantastici, dei quali le antiche tradizioni abbondano, tutti i miti parlano spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, purtroppo di difficile identificazione perché citate con nomi diversi e descritte in modo ambiguo. Il motivo è semplice: a differenza dagli animali favolosi, che compaiono sulla scena autonomamente, dotati come sono di esistenza e volontà proprie, le piante "prodigiose" si possono cercare, raccogliere ed utilizzare per gli scopi ai quali si crede siano adatte, e chiunque lo può fare. Tutta l'antica farmacopea è basata su questo. Ma è ovvio che, se l'"iniziato" intende conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali "filtri" o "pozioni" (d'amore, di morte, di forza o d'immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Troviamo quindi una quantità di vegetali capaci di prestazioni eccezionali in ogni campo, ma sfortunatamente non riconoscibili, o per via di informazioni scarse e/o fuorvianti, o perché realmente ormai estinti e introvabili. Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che "ha spine come il rovo, come la rosa", trovata da Gilgamesh in fondo all'Abzu (ma in seguito perduta), e che avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l'altrettanto enigmatica "pianta del parto" o "della nascita", che avrebbe consentito ad Etana (secondo la "Lista reale Sumerica", tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per cogliere la quale - primo essere umano nella storia - quel sovrano volò fino in cielo sulle ali dell'aquila. Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose (22). E vedremo poi che con impressionante frequenza ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch'esso di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell'Iraq e nell'Iran occidentale, le tradizioni dell'antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la vita e rende invulnerabili. Nei miti iraniani quell'elisir viene chiamato col termine avestico di "haoma" ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia delle Gnetacee, l'Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000 anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?). L'"haoma", che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene custodito, in questa versione, dall'uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli.
Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l'Ambrosia o Amrita, nettare inebriante o "soma" (in sanscrito; corrisponde all'"haoma") importantissimo nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei "asura" e li rende immortali. Pure in questo caso, il "soma" è tratto da una pianta - generalmente identificata con una liana rampicante della famiglia delle Asclepiadacee - che cresce su di un albero, vicino al Monte Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E' probabile che alla base di questo mito ci sia una antica origine comune con l'"albero della vita" della Genesi, che avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi.
Come si vede, l'àmbito geografico di diffusione di questa leggenda (o meglio corpus di leggende, che vede protagonista di un qualche "portento" un pennuto cui è affidata la custodia di una pianta prodigiosa) è assai vasto, spaziando dalle rive del Mediterraneo (attraverso l'Asia Minore, l'Anatolia e la Mesopotamia, fino alla valle dell'Indo) a quelle dell'Oceano Indiano. E non solo, poiché la ritroviamo perfino nelle lontane Americhe. Quanto poi alla sua antichità, si perde nella notte dei tempi.
Ma ciò di cui più in particolare volevo parlarvi sono i "parenti" dello Shamìr, anch'essi sparpagliati un po' in ogni dove; e non solo nel Vecchio Mondo, giungendo fino al Giappone, bensì - inaspettatamente - pure nel Nuovo, in Perù, Guatemala, Messico, Bolivia, per non citare che gli esempi che ho potuto vedere con i miei occhi. E ora la cosa si fa ben più interessante, e dobbiamo dire che siamo molto fortunati, perché infatti abbiamo il vantaggio di poter disporre non solo dei documenti scritti che riportano favole e leggende, ma di antichissimi manufatti realizzati con tecniche riconducibili soltanto alle affermate proprietà dello Shamìr. Tutti li conoscete.
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica, inumana.
Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone, poiché metalli adatti non ce n'erano. Ma andiamo con ordine.
Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu "esposto" dal padre ed allevato - guarda caso - dal "nobile avvoltoio" Simurgh, il quale in questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino anestesista. Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua sposa "splendevano" per la presenza di un'"essenza divina", chiamata "farr" o "khvarnah" ("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell'investitura celeste, un re non poteva regnare. Sull'altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un "murale" che rappresenta l'eruzione - avvenuta nel 6200 a.C. - su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all'improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l'ossidiana, che nella "scala delle durezze" di Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell'epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime. Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano "camini delle fate", poiché le credono opera degli "angeli caduti" e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri. Scavati come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del "Paese fra i due fiumi", seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d'uso ma più che altro di opere d'arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l'impiego.
Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni - figure e scritte - delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto (23): iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?
E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato"; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l'elenco delle gemme del pettorale di Aronne cita, è vero, anche il "diamante", ma la cosa è fortemente improbabile per vari motivi: benché ritenuta anch'essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l'avrebbe fatto per un lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca soddisfazione all'occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato. E comunque, stiamo parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l'oggetto da lavorare era di grandi o magari grandissime dimensioni.
L'ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati) (24). Abbiamo, però, un piccolo problema.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, al tempo di cui si parla non solamente non esisteva ancora niente di paragonabile a "un ottimo acciaio", ma il ferro stesso (per quanto riguarda attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell'epoca disponibili, per quel che troviamo scritto e per quanto l'archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame, argento, oro, piombo, stagno, o - nella migliore delle ipotesi - rame martellato e leghe di bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste. Ergo, a questo interrogativo tecnico non c'è risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote, dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all'epoca di Sargon il Grande di Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi.
Ma qui la datazione d'inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato. Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio nell'antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. "Civiltà della pietra", la chiamano anche infatti.
Dai siti di "Naqada" dell'oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 3500-3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo in quest'ultimo sito) di stupendo vasellame - integro o in pezzi - di svariatissimo disegno, e innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico. Non solo i più trattabili alabastro, ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce (25). Ora, secondo voi, gli egiziani amavano soffrire e rendersi la vita difficile? Non avrebbero potuto scegliersi, per fare le loro opere d'arte, qualche altro sasso meno ostico? O forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare - per loro, allora - quanto sembrano a noi oggi? In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra, un sistema diciamo così di pretrattamento che si avvaleva di un principio corrosivo, chimico, più che della forza bruta o dell'insistenza? (a me, per la verità, il discorso che "ma avevano tanto tempo a disposizione" è sempre sembrato una grossa sciocchezza). La cosa, date le loro profonde e vastissime conoscenze in ogni campo dell'alchimia, non dovrebbe stupire e non è nemmeno impossibile, come cercherò di dimostrarvi.
La tradizione, in effetti, afferma che i "sapienti" egiziani avevano messa a punto (a meno che non l'avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale "mistura vegetale" in grado di disgregare superficialmente qualunque - sia pur durissima - roccia o pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di "solvente", si sarebbe ricompattata rendendo all'oggetto l'aspetto e la consistenza originari.
Ad appoggiare questa tesi potrebbe esserci più di una prova. Guardate, ad esempio, la precisione di ogni amorevole dettaglio delle sculture a tutto tondo in granito o in basalto, e ditemi se non sembra anche a voi che quei minuziosi particolari siano stati modellati con la stecca piuttosto che scavati a colpi di scalpello. Lo stesso si può dire per la tecnica con la quale nei rilievi di Saqqara il fondo è stato mantenuto perfettamente piano (il che, lasciatelo dire a me, è una delle cose più difficili da fare), dove l'asportazione di tutto il materiale superfluo pare ottenuta livellando o spianando una sostanza cedevole anziché scheggiando con la sgorbia la dura pietra. Parlo però in prevalenza delle opere più antiche, e comunque di quelle più accurate, e presumibilmente più costose. Infatti io penso che più tardi quell'arte andò perduta, o perché l'applicazione di quel metodo era divenuta eccessivamente onerosa, o per la cessata disponibilità di quella materia prima, o per un qualche altro motivo. Tanto è vero che - come si può vedere - mentre agli inizi i simboli geroglifici aggettavano sui pannelli, in seguito verranno più semplicemente scavati nel loro spessore. E che molti dei rilievi successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi (26). Ma c'è dell'altro.
Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i blocchi che la compongono non sono legati con malta. E' stato trovato però, fra un corso e l'altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali. Era forse quel misterioso "solvente" che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante? Possiamo escluderlo?
Se fosse vero ciò che vi suggerisco, si potrebbe anche fare l'interessante osservazione che, in tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che - con l'aiuto della reazione chimica - avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi semplicemente appoggiati l'uno sull'altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici - il cui peso arriva forse a 200 tonnellate - della struttura interna, per la quale rimando agli studi di Pincherle) (27). Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si pensi l'estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo saputo dare spiegazioni davvero esaurienti.
Certo che quell'arte - come anche quella di movimentare e sovrapporre massi di peso ed ingombro immani -andò perduta, o venne comunque abbandonata quella tecnica. E come si spiegherebbe se no il fatto che, dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi piramidi in pietra, tutto quel che di "piramidale" ci rimane delle epoche più tarde sono soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di argilla. Ma torniamo a noi, perché vorrei parlarvi ancora un momento di un solo ultimo esempio di ciò che, a parer mio, può essere stato realizzato unicamente con "qualcosa" che sembra essere fratello gemello del mio Shamìr. Abbiamo già parlato (nota 25) del cosiddetto "sarcofago" posto nella cosiddetta "camera del re" nel cuore della Grande Piramide (cosiddetta "di Cheope", o Khufu) sulla piana di Giza, perciò del suo aspetto sapete già ogni cosa. Il problema che a me interessa però è solamente quello della realizzazione tecnica di questo oggetto. Per la precisione, della realizzazione del suo interno, poiché di quel sarcofago, o vasca, o cassa che sia (e può aver contenuto, per quel che ne sappiamo, qualunque cosa: oggetti o spoglie mortali), ciò che è più incomprensibile è il come sia stato svuotato. A meno di non accogliere l'ipotesi di Flinders Petrie, il quale in questo caso suggerisce l'utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani (manuali, s'intende), per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una velocità assolutamente impossibile da raggiungere con i mezzi (noti) dell'epoca, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate. Lascio a voi giudicare.
Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che "carote" della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del "sarcofago"), che sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn (28): all'indagine microscopica questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano - o sega tubolare - che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per ogni giro. Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale energia? Dunn è convinto che la risposta si trovi nell'uso di sconosciuti (e perduti) strumenti a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza: ma non vorrei prender posizione a questo proposito, poiché non ho difficoltà ad ammettere la mia ignoranza su tali argomenti.
Quello che invece mi ha colpito di più è un dettaglio degli esami condotti da Dunn, dal quale risulta che l'antico trapano a mano tagliò il quarzo che costituisce il granito più velocemente del feldspato, più tenero, che ne è un'altra componente. E vedrete fra poco che, ai fini dell'individuazione di questo "gemello" dello Shamìr, questo è il particolare più importante. Da tutto quanto sopra detto risulta chiara la convinzione sia di Flinders Petrie che di Dunn che siano stati usati particolari macchinari, ma di ciò non ci sono prove. Io penso invece che non di velocità e pressione si trattasse, né di ultrasuoni: il trapano avanzava veloce perché la pietra non opponeva resistenza; e mi pare più che evidente, in ogni caso, che quel tipo di lavorazioni in generale venisse effettuato trattando la pietra secondo le modalità della plastica anziché secondo quelle della scultura propriamente detta. Ci troviamo di fronte, a quanto pare, a un bell'esempio di applicazione del "rasoio di Occam": ma io credo che la soluzione più semplice - e quindi la più probabile - sia proprio quella che vi propongo.
Ma non pensiate - già ve lo avevo anticipato - che quel particolare procedimento fosse prerogativa ed esclusivo monopolio delle culture del Vecchio Mondo quale noi lo conosciamo. Tutt'altro. Dallo Yucatan a Tula, dall'Ecuador al Titicaca, molte culture precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell'argilla. Piuttosto che di oggetti di dimensioni contenute - ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi, aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette "pietre di Ica", fanno parte dello stesso mistero - si tratta qui però prevalentemente (sto parlando, nella fattispecie, degli impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con blocchi di granito che - a mio avviso - sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque altro metodo. E non voglio qui entrare nel merito di come diavolo facessero ad estrarre, trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune centinaia di tonnellate (problema posto ugualmente dalle consimili strutture egizie, siriane ed altre), limitandomi ad arrendermi di fronte all'evidenza che - in qualche modo - ci riuscivano: l'ipotesi meno sballata che mi viene in mente è forse proprio quella, già citata, dell'uso - anche qui - di frequenze ultrasoniche, ma l'argomento esula sia dal tema che stiamo trattando che, come ho detto in precedenza, dalle mie competenze. Per cui lascerò che se ne occupi qualcuno più autorevole di me.
Ma sovrapporre e incastrare a secco l'uno con l'altro quei massi incredibili è altrettanto arduo da comprendere. La mente si smarrisce nell'osservare i macigni ciclopici, con un numero terrificante di angoli (fino a quaranta) della più varia apertura, che compongono le stupende, perfette mura di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, di Cuzco, di Machu Picchu, collimando in maniera così perfetta che, come si sa, nelle commessure non c'è spazio "nemmeno per un foglio di carta". Un lavoro del genere in teoria richiederebbe infinite misurazioni, tentativi, prove: cosa impensabile considerandone il peso e il fatto che furono messi in opera senza l'uso di animali da lavoro, né di ruote per argani (29). Sembrano invece, quelle pietre (la cui forma non squadrata è la migliore dimostrazione della grande padronanza delle tecniche antisismiche usate), fuse insieme da una qualche forza misteriosa, schiacciate e compattate dal loro stesso peso l'una contro e sull'altra a mo'di enormi cuscini fino a riempire ogni spazio e interstizio fra loro, come se invece che dure rocce fossero ammassi di morbida mota. O trattate, appunto, con una sostanza corrosiva che ne "condizionò" le superfici di contatto, se non la struttura stessa. Impressione che deriva pure dalla loro faccia esterna, sempre come leggermente "gonfia", arrotondata, liscia come se fosse stata rifinita semplicemente raschiando via tutte le asperità insieme al materiale in eccesso. D'altronde, questa non è affatto una mia fantasia. In parallelo con i miti e le leggende di àmbito eurasiatico e mediterraneo sopra riportati, anche qui viene fatto riferimento a una non meglio identificata sostanza in grado di ammorbidire la pietra e renderla lavorabile. Ma non sono le sole tradizioni popolari a parlarne, bensì anche autori nostri contemporanei. L'esploratore Percy Fawcett, ad esempio, in un passo di "Operazione Fawcett" dice infatti che gli inca, ereditando le fortezze e le città edificate dalla razza che li aveva preceduti, le restaurarono servendosi delle medesime tecniche costruttive (e cioè di quel "solvente"). E racconta poi un episodio in cui un esperto minerario statunitense, che lavorava nelle Ande del Perù centrale a 4.500 metri di altezza, trovò in una tomba preincaica una giara di terracotta ancora piena di liquido. Quel liquido, versato incidentalmente su di una roccia, dopo circa dieci minuti ne era stato assorbito, "e la roccia era diventata molle come cemento bagnato, come se la pietra si fosse sciolta a guisa di cera sotto l'effetto del caldo". L'archeologa Mirella Rostaing, dal canto suo, ne "I misteri dei mondi" riporta una conversazione da lei avuta con uno sciamano nei pressi del lago Titicaca a proposito di un tipico cespuglio locale detto "ghacre ". La pianta, che somigliava ad un "rampicante orizzontale" e che manipolata diveniva molliccia e appiccicosa, aveva corroso come un acido buona parte degli stivali dell'archeologa, che ci aveva camminato in mezzo (e la stessa cosa viene riferita a proposito degli speroni di un caballero che ne aveva attraversato un prato). Nelle parole del vecchio sciamano, il suo uso era ancestrale, precedente addirittura agli abitatori preincaici, poiché "i grandi architetti delle costruzioni ciclopiche usavano quella pappetta per la congiunzione delle grossissime muraglie difensive andine".
Ma non è tutto, perché con mia grande sorpresa anche qui ho ritrovato nei miti locali il concetto di un uccello associato ad una pianta capace di intaccare la pietra. In questa parte del mondo quel volatile (chiamato in alcune versioni "pichin-goto", che proprio non so cosa sia, in altre identificato con un'improbabile "golondrina ", che sarebbe la comune rondine) si servirebbe delle proprietà di un vegetale non meglio precisato, infilandone i semi nelle fessure delle pareti rocciose a grande altezza allo scopo di utilizzare in seguito la cavità creatasi (una volta che quei semi corrosivi, o le radici, abbiano compiuto il loro lavoro di sgretolare il minerale) per costruirvi il nido (30). O, in alternativa, per nutrirsi della pianta stessa che lì avrebbe attecchito: cosa che, almeno nel caso dell'insettivora golondrina, sarebbe per lo meno strana. Non più strana comunque della strettissima analogia, anzi parentela, con la leggenda del gallo selvatico e dello Shamìr riportata all'inizio. Io, quando sento storie come queste, drizzo subito le orecchie e comincio a guardarmi attorno. Ed è per l'appunto guardandomi attorno là, sul posto, che ho visto qualcosa che mi ha dato da pensare. Se state, con l'abitato di Machu Picchu alle spalle, proprio sull'orlo del precipizio in fondo al quale, a picco oltre cinquecento metri più sotto, scorre luccicando l'esiguo corso del fiume Uru (Uru Bamba - cioè "pampa" - vuol dire "pianura", o "valle", dell'Uru), subito al di là di quell'angusta voragine vedrete di fronte a voi innalzarsi sulla destra una altissima parete di roccia. Liscia come il vetro, perfettamente verticale e tutta quanta cosparsa di piante pioniere tenacemente abbarbicate negli interstizi della pietra. E viene naturale allora chiedersi (dato che avete ancora negli occhi quel miracolo di precisione che sono le mura granitiche della cosiddetta Tomba Reale, e il morbido modellato dell'Inti Huatana: nota 31) se non siano proprio quelle piante a produrre il succo corrosivo che potrebbe avere levigato a quel modo la parete rocciosa e "addomesticato" le pietre da opera, e che specie esse rappresentino. A me, da quella distanza, sono sembrate bromeliacee, che da quelle parti sono diffusissime e crescono su muri, alberi, montagne; ma purtroppo non sono riuscita ad avere maggiori informazioni e ad andare più in là di così. Ragion per cui rimango, per ora, con i miei interrogativi.
E per finire, vi segnalerò che il muro di cinta del palazzo imperiale di Tokio riprodotto in un'antica stampa giapponese, come altre muraglie ancora più antiche, è costruito esattamente con la stessa coesione e le stesse tecniche applicate in Perù. E questo non può certo essere casuale, o almeno non può esserlo per me (32) che credo fermamente all'esistenza di contatti e di una vasta diffusione culturale tra i continenti in tempi ben più che soltanto "preistorici". In conclusione, spero di avere sufficientemente dimostrato lo stretto rapporto fra quella "sostanza" e qualche specie botanica, in ogni cultura; in nessuna delle quali, mai, si parla di qualche genere di strumento, di diamanti o di vermi o d'altro. Tutte le indicazioni e le testimonianze - sia letterarie che archeologiche - raccolte in diverse parti del mondo mi hanno confermato al di là di ogni dubbio nell'idea che il mio Shamìr (o come altro venisse chiamato localmente nei diversi paesi) fosse "qualcosa" di vegetale. Ma cosa?
Considerazioni aggiuntive
Dunque si direbbe proprio che non poche fra le più grandi - e tuttora per molti versi enigmatiche - civiltà del passato, e noi con loro, siano debitrici alla grande tribù dei parenti ed affini dello Shamìr della possibilità di lavorare facilmente, impiegando un principio chimico, pietre di ogni qualità: opportunità in assenza della quale, io credo, mai avrebbero potuto essere create - in tempi in cui il ferro era ancora del tutto sconosciuto - tante e tanto splendide opere d'arte. E quanto di più mi piace, concettualmente, l'ipotesi di questo tipo di approccio gentile, soft, alla materia nella quale si manifesterà la creazione artistica, in confronto alla consueta immagine della pietra aggredita, spezzata, brutalizzata da un traumatico, violento, polveroso e fragoroso martellamento! E' qualcosa che cambierebbe perfino, se fosse come io penso, la nostra comprensione dell'idea stessa che quegli antichi e sconosciuti artisti dovevano avere del loro lavoro.
Non a caso ho detto "parenti ed affini" dello Shamìr. Perché le umili e misconosciute pianticelle cui ciò si deve non appartenevano sicuramente ad un'unica specie, famiglia o genere, originarie come erano di àmbiti climatici e fitogeografici assai diversi (benché stiamo parlando di famiglie comuni e diffuse in molti continenti). Sono però convinta che identico fosse il principio applicato, ancorché utilizzando piante, o parti di piante, differenti: una materia fortemente corrosiva, contenuta in certe piante colonizzatrici, specie pioniere (e non può essere altrimenti), della quale parleremo fra poco. Potrei citare, ad esempio, una nota del testo di Ginzberg nella quale si dice che "l'Euforbia, cui le fonti non ebraiche del Medioevo attribuiscono lo stesso potere dello Shamìr, è ricordata anch'essa nei testi ebraici…., ma non va identificata con esso….infatti lo Shamìr fu dato all'uomo solo durante la costruzione del Tempio, mentre l'Euforbia rimase reperibile anche in seguito" (e qui si cade nel dottrinario) (33). C'è oltre tutto la possibilità, o piuttosto la probabilità, che la versione più veritiera sia quella egizia, ossia che la sostanza caustica di cui si tratta fosse in effetti una "mistura vegetale" ricavata da piante diverse, dove però una era dominante. Ma purtroppo, in questa direzione, il buio è totale.
Quanto al mio Shamìr, una volta superati la delusione e il disappunto di dover purtroppo constatare che l'unica indicazione fornita è fuorviante, cioè che non è possibile identificarlo con il Paliurus - botanicamente inteso - poiché del nostro familiare biancospino, a quanto mi risulta, non è nota nessuna particolare proprietà corrosiva, tutto quel che pensavo di poter fare era tentare di trovargli una collocazione più ampia nel regno vegetale: ovverosia cercare qualche altra specie, simile al biancospino almeno in alcune caratteristiche morfologiche che potrebbero aver tratto in inganno i classificatori (ma vedremo poi che ero partita col piede sbagliato). E in realtà ne ho trovate non poche. C'è da precisare infatti che oltre al Paliurus esiste una grande varietà di altre piante pioniere spinose della famiglia delle Ramnacee, come il Paliurus, o delle Rosacee (entrambe presenti anche nel continente americano) o altre, presenti in abbondanza sul territorio di interesse biblico. Tali ad esempio sono:
In teoria, considerandone solamente l'aspetto, sul quale le informazioni in nostro possesso sono oltre tutto così confuse e avare, ciascuna di queste specie (o anche qualche altra) potrebbe essere quella che vado cercando. A tutte queste piante, compreso lo Shamìr, nelle versioni attuali delle Scritture si fa riferimento con indicazioni banalmente generiche quali "spini", o "pruni", o "rovi". Ma, se sono state individuate - come abbiamo visto - con nome e cognome all'interno di un preciso ordine sistematico, significa (se non vado errata) che pure nel testo originale compaiono con un nome proprio: naturalmente quello usato in quei luoghi e a quell'epoca. Infatti non è pensabile che botanici o traduttori abbiano arbitrariamente affibbiato nomi scientifici a queste cosiddette piante "bibliche" (che sono cioè citate nella Bibbia) sulla scorta solo di quegli "spini", "pruni" o "rovi". Tuttavia un abbaglio è pur sempre possibile, tanto più nei confronti di una specie forse già estinta da tempo. In altre parole pare che i profeti che chiamarono "Shamìr" vari cespugli in realtà lo Shamìr non l'avessero visto mai. Ma con chi dovrei prendermela per quelle errate attribuzioni e traduzioni, dopo qualcosa come un paio di millenni?
Ora, può darsi benissimo che tutti gli altri arbusti e suffrutici spinosi siano stati correttamente riconosciuti, ma io sarei pronta a scommettere che così non è stato nel caso del "magico" Shamìr: il quale, per dirla tutta, penso infatti sia stato abusivamente identificato con l'innocente Paliurus in base ad una somiglianza superficiale o per un errore di interpretazione (a meno di supporre, volendo fare un po' di dietrologia, che la sua vera natura sia stata volutamente occultata). E' lo stesso errore che avevo fatto io, cercando analogie apparenti piuttosto che indizi sul comportamento, e prendendo in considerazione soltanto le affinità esteriori invece delle caratteristiche vegetazionali e delle "specializzazioni" chimiche. Ma rimedierò subito, anche se in un certo senso siamo tornati al punto di partenza. Avremo se non altro stabilito che lo Shamìr - va bene - non era il biancospino, ma era di certo una pianta cespugliosa, forse aculeata. Per trovare quale, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Stavolta, però, cercheremo in tutt'altra direzione, tentando un approccio totalmente diverso a questo spinoso problema. E adesso, finalmente, veniamo al sodo.
Una proposta da verificare
E allora, vediamo un po' che cosa abbiamo qui.
Innanzitutto, la testimonianza fornita da un assortimento di pietre lavorate: nella loro concreta realtà di reperti archeologici, o anche solo nelle citazioni letterarie (alle quali do - quasi - lo stesso credito). Nel primo caso, le gemme in questione stanno sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda il secondo caso, mi rifaccio a quelle famose del pettorale e dell'efòd di Aronne, tredici pietre preziose, semipreziose o dure, di piccole dimensioni. Il procedimento attuato da Mosè, se rammentate quanto riportato da Ginzberg, consisteva nel tracciare prima con l'inchiostro, o meglio con uno stilo, sulle pietre (ricoperte, è probabile, da un sottile strato di cera resistente agli acidi) i segni desiderati, e nel passarvi poi sopra lo Shamìr, dal quale le pietre rimanevano così incise. Sistema che ricorda assai da vicino la tecnica tuttora impiegata nella fluorografia per incidere su vetro. E non dimentichiamo che viene inoltre evidenziato il fatto che l'azione dello Shamìr sulla pietra non produceva alcun residuo, cosa - anche questa - spiegabile solo nel caso di una reazione chimica, non di un'azione meccanica. L'elenco di quelle pietre presenta più di una versione; per non sbagliare citerò tutte quelle che ho trovato(34).
Appartengono in prevalenza al gruppo dei minerali a base di silicio. Anzi, circa la metà di esse sono in effetti altrettante varietà di quarzo. Per essere più precisi, le prime quattro sono diverse qualità di CALCEDONIO.
Abbiamo poi una serie compresa tra i nesosilicati, solubile in acido fluoridrico e in acido solforico.
E, per l'esattezza, acido fluoridrico in primo luogo - poi vi spiego perché -, ma forse anche solforico e cloridrico. Per quanto riguarda invece alcune gemme particolari (smeraldo, rubino, zaffiro, diamante, granato), resistenti all'azione di questi princìpi corrosivi, si dà il caso che siano proprio quelle la cui identificazione solleva i più forti dubbi, dato che nel corso del tempo sono state "soprannominate" in molti diversi modi. E quindi non è detto che i nomi citati corrispondano alla realtà della loro composizione chimica.
Infatti, e specie anticamente (come a tutt'oggi di frequente avviene nel linguaggio popolare, oltre che per le denominazioni dei minerali, per quelle delle specie animali e vegetali più diffuse), non solo spesso una pietra veniva chiamata con più di un nome, ma, inoltre, con il medesimo nome venivano chiamate più pietre diverse (e se, come sospetto, il chimismo dei cosiddetti "opale", "granato", "smeraldo", "zaffiro", rubino" e "diamante" era in realtà riconducibile a quello di materiali più trattabili, come potrebbero essere ad esempio il crisoprasio, lo zircone e il topazio, ecco che tutte le pietre citate verrebbero ad avere un loro naturale "solvente" che ne avrebbe permesso la facile lavorazione manuale).
Ma può darsi pure che (anche escludendo la mala fede o intenti truffaldini), non disponendo di microscopi né di laboratori per l'analisi chimica o strutturale, non si fosse in grado di riconoscerle correttamente e di distinguerle l'una dall'altra. Be', se non altro per le pietre da opera questi problemi non si ponevano. Almeno, non troppo. Per "pietre da opera" intendo quelle usate per sculture a tutto tondo di medie, grandi e grandissime dimensioni, per rilievi di ogni profondità, elementi architettonici, rivestimenti, decorazioni, e in senso proprio come materiale da costruzione. Anche qui, senza entrare nello specifico delle diverse varietà, ne ho fatto una piccola selezione.
Le più correntemente utilizzate sono sempre, come è logico, quelle comunemente diffuse nella zona, ovverosia, data l'estrema reperibilità praticamente ovunque, le
E, mentre la lavorazione delle pietre calcaree è, relativamente, assai facile, la cosa a dir poco sorprendente che l'archeologia ci svela è invece la straordinaria abbondanza, in tempi remoti, di manufatti realizzati di preferenza nei più duri minerali esistenti. Prendete ad esempio il basalto, che è uno tra i più antichi materiali lavorati dall'uomo. In Mesopotamia, in Egitto, in Asia Minore, tra il rovinoso sfasciume dei cumuli di blocchi calcarei in avanzato stato di dissolvimento e decomposizione, consumati dai millenni, statue, basamenti, pilastri e architravi in basalto emergono integri, come fossero stati fatti ieri. Superfici levigate, spigoli netti sui quali le intemperie di quaranta o cinquanta secoli praticamente non hanno prodotto neanche un graffio. E allora, quanto tempo ci sarebbe voluto a un operaio per renderli perfetti quali sono? E con quali utensili, per favore, li avrebbe tagliati, rifiniti, levigati, incisi? Ma lo stesso discorso del basalto vale di sicuro anche per il granito.
Per il porfido. Per tutte le altre rocce vulcaniche. Quanti anni avrebbe dovuto aspettare re Narmer per avere la sua coppa di porfido, se gliela avessero dovuto scavare a mano con una scheggia di granito? A parte il fatto che non capisco che bisogno avesse di una coppa fatta di un materiale simile, poteva morire, nel frattempo. O non fu piuttosto proprio con l'acido fluoridrico, come io sono convinta, che fu possibile realizzare tali opere? Certo, non ne ho prove sicure, ma qualche promettente indizio sì. In attesa di verifiche. Ma andiamo avanti. Supponiamo allora, provvisoriamente, che fosse davvero l'acido fluoridrico - il più potente di tutti - l'agente corrosivo prevalentemente usato nella zona e nel periodo che ci interessano. Secondo quanto mi sembra di aver capito, è probabilmente possibile ricavarlo, forse addirittura direttamente - in verità qualche idea ce l'avrei -, da sostanze naturali. Altrettanto dicasi per l'acido cloridrico, presente in alte percentuali nelle secrezioni gastriche dei mammiferi in genere (tutti quei sacrifici di animali non vi dicono proprio niente?), e per l'acido solforico, che si poteva ottenere dai composti contenenti zolfo presenti nel suolo del Neghev, nella penisola del Sinai. Naturalmente, sono mie ipotesi.
Tutti questi princìpi attivi, oltre a disciogliere - come ho già detto - in pratica l'intera gamma delle pietre più o meno preziose e di quelle da opera citate dalla Sacra Scrittura e/o attestate dall'archeologia (36), hanno in comune altre notevoli caratteristiche. Vanno conservati in speciali recipienti di qualche materiale che non ne possa venire attaccato. Danno varie colorazioni alla fiamma. Analogamente ad altre sostanze simili, riscaldati o bruciati ma anche semplicemente esposti all'aria, emanano inoltre gas irritanti, soffocanti e al limite tossici sviluppando dense colonne di fumi e vapori. Possono infine avere, in alcuni casi e in determinate condizioni, manifestazioni esplosive.
L'unico di essi, tuttavia, per il quale io abbia trovato riferimenti ad una possibile origine vegetale - cioè allo Shamìr - è l'acido fluoridrico (che oltre ai materiali citati attacca anche cemento, porcellana, gomma e legno), che sembra proprio il perfetto candidato a tradurre in termini chimici le descrizioni mitiche.
A proposito dello Shamìr, infatti, nelle leggende dei midrashìm sta esplicitamente scritto che una delle sue utilizzazioni da parte del gallo selvatico sarebbe stata quella di crivellare colline rocciose e spoglie di piccoli fori, nei quali avrebbero poi attecchito piante pioniere: il che sembrerebbe indicare - una volta di più - che quella sostanza, che non inibiva la nascita delle piante, era anch'essa di origine vegetale; e abbiamo visto pure come dalle leggende amazzoniche si possa arguire che era lo Shamìr locale, quella pianta pioniera. Leggiamo inoltre che doveva essere conservato in un recipiente non ermetico fatto di piombo, forse perché sviluppava vapori che rischiavano di mettere in pressione il contenitore. Infine, che si presentava come un "qualcosa" (non liquido, né gassoso, anzi certamente solido) di colore tendente al verde, simile per aspetto e grandezza a granelli di orzo. E che fossero granelli, semi di qualche pianta, io lo credo, perché diversamente non avrebbero potuto essere che cristalli, e questo non risulta in nessun modo. Oltre tutto, se fosse stato un "prodotto" già pronto, in un certo senso "tramandato" in eredità da Mosè a Salomone, al re ne sarebbero occorsi quantitativi industriali per tagliare e rifinire le grandi pietre del Tempio. Mentre invece appare chiaro che era sicuramente un oggetto di dimensioni assai piccole, se si suppone che un uccello avrebbe potuto trasportarlo in volo. In aggiunta a ciò, è ragionevole supporre che anche in seguito, all'interno delle colonne Jachin e Boaz, avrebbero potuto essere contenuti i semi della pianta insieme agli scritti che ne trattavano, piuttosto che quella pericolosa sostanza in sé. E narra ancora la leggenda che lo Shamìr lo si poteva trovare "lontano in occidente, in luoghi inesplorati, sulle selvagge Montagne dei Dormienti" (37): frase che può avere senso se si trattava di una rara pianta spontanea, ma più verosimilmente, come io credo, se Salomone lo aveva seminato lassù per coltivarlo e riprodurlo.
Quello che penso, in sostanza, è che ciò che venne tramandato e conservato dal tempo di Mosè a quello di Salomone, e poi fino alla razzia di Nabucodonosor, fosse il "principio", il "segreto del magico Shamìr", della sua natura e delle sue speciali proprietà, non lo Shamìr stesso in quanto strumento operativo. Quindi, io credo, oltre alle istruzioni relative al procedimento chimico per ottenerlo, i semi (da piantare) di un cespuglio dal quale era possibile estrarre - direttamente o meno - acido fluoridrico o qualcosa di assai simile e attivo allo stesso modo. Vediamo dunque se riusciamo a raccogliere altri argomenti e altri indizi a favore di questa ipotesi.
Malattie professionali
Il secondo elemento che ho preso in considerazione è la descrizione dei danni prodotti sull'organismo umano dal prolungato contatto e dalla manipolazione dello Shamìr a raffronto con quelli provocati dall'acido fluoridrico. Come ho già detto infatti, nel "Testamento di Salomone" è scritto che le maestranze addette alla costruzione del Tempio, obbligate ad usarlo quotidianamente per lungo tempo, soffrivano di un male misterioso e debilitante, con esiti spesso mortali. Sempre più smunti e pallidi, deperivano e non riuscivano più a nutrirsi né a lavorare. Ebbene, questo sembra proprio il quadro clinico di una tipica intossicazione cronica da fluoro.
E di certo rammenterete che Mosè, nello scendere dalla Montagna di Dio con le nuove Tavole della Legge, dopo quaranta giorni e quaranta notti passati a stretto contatto con Lui, aveva la pelle della faccia tutta infiammata - e probabilmente pure gli occhi irritati - tanto che si coprì il viso con un velo per non impressionare il popolo. Il quale popolo era ben comprensibile che restasse impressionato da quelle ustioni o piaghe che, almeno a prima vista, avevano tutta l'aria, poco rassicurante, di una malattia contagiosa.
Quell'aspetto "strinato" (che però non durò a lungo, perché - dice un midràsh - dopo il triste episodio del Vitello d'Oro lo "splendore" del viso di Mosè si ridusse a un millesimo di quanto era prima) sembrerebbe proprio la conseguenza di una protratta intimità con un potente acido. E, come se ciò non bastasse, penso che il Maestro dovesse inoltre puzzare - se conosco un po' i chimici - in maniera allarmante e sospetta per tutte le porcherie che aveva distillate, miscelate, manipolate. Quei due pietroni, sui quali il Profeta aveva scritto tutto il loro - ed il nostro - futuro, erano stati incisi per mezzo dello Shamìr, o acido fluoridrico, i cui vapori appunto attaccano la pelle ed irritano gli occhi di chi lo maneggi da vicino. Comunque in seguito non successe mai più che la pelle del viso di Mosè fosse infiammata. Il che ci testimonia che almeno in quel caso - con uno scopo specifico, e per trattare oggetti di dimensioni abbastanza considerevoli - ebbe sicuramente a che fare di persona con quell'acido: a lungo, in abbondanza ed evidentemente (in mancanza di adeguate avvertenze e istruzioni per l'uso) senza prendere le adeguate precauzioni. Tanto che un midràsh molto illuminante narra che quando, lassù sulla montagna, finì di scrivere con lo Shamìr le Leggi sulle Tavole, pulì la penna sui capelli della sua fronte, e quell'inchiostro celeste che gli imbrattò la fronte lo fece splendere. Più chiaro di così….(38). Non così accadde invece a Bezàlel quando incise le gemme dei paramenti, per le quali ne fu sufficiente solo un piccolo quantitativo, che infatti (usato per un tempo limitato) non produsse sull'artefice le irritazioni tipiche provocate da quel contatto.
E adesso scusatemi se mi metto un momentino in cattedra, ma per spiegarvi un po' meglio i perché delle mie convinzioni devo proprio dirvi qualcosa a proposito del fluoro, delle sue proprietà e dei suoi comportamenti. Come elemento in sé, il fluoro (che quantitativamente occupa il 17° posto sulla crosta terrestre) è largamente diffuso in natura e combinato con quasi tutti gli elementi; è presente come criolite e fluorite (fluoruri naturali) nei silicati, e può formare parecchi altri fluoruri con svariati metalli e metalloidi. Inoltre, in alcuni pozzi e acque profonde ne è stata riscontrata la presenza fino a 53 milligrammi per litro. Negli organismi viventi, si trova in special modo nell'involucro dei semi dei cereali, nelle ceneri di parecchie piante, nell'uva, ed è relativamente abbondante nei peli, nello smalto dei denti e nelle ossa dei vertebrati.
Dal punto di vista biologico, se assorbito in quantità e/o per una durata eccessive, si comporta come un potente veleno protoplasmatico, che danneggia la funzione delle cellule e l'attività dei loro enzimi, compresi quelli respiratorii; nuoce al sistema endocrino abbassando il metabolismo basale, ed ha pure azione ipoglicemizzante.
La letteratura medica, oltre alle transitorie manifestazioni infiammatorie descritte, subìte da Mosè, relativamente alla tossicologia elenca ed illustra diversi tipi di avvelenamento da fluoro, causati direttamente dal minerale in cui esso è presente; oppure, con varie modalità, da molti dei suoi composti industriali; o infine da sostanze, elaborate e prodotte dal grande laboratorio della natura, che lo contengono. In tutti quanti i casi citati queste intossicazioni sono definite con il nome generale di "fluorosi". Viene descritta anche una forma acuta, che si manifesta come una gastroenterite acuta emorragica con convulsioni - e talora collasso e morte -, la cui cura è unicamente sintomatica, ma molto più sovente l'intossicazione è cronica.
La fluorosi cronica può avere varia origine: la più frequente è quella professionale, che colpisce i minatori addetti alle miniere di criolite e i lavoratori dell'industria del vetro, della ceramica, dell'alluminio eccetera, in cui fino a 25-30 milligrammo al giorno di vapori saturi di fluoro possono essere assorbiti dall'organismo. Il quadro generale descrive un lento inizio dei sintomi, che compaiono di solito dopo due o tre anni di intossicazione: senso generale di formicolio, dolori diffusi soprattutto alle vertebre lombari e alle articolazioni, cui subentrano poi alterazioni scheletriche con rigidità della colonna per osteosclerosi e calcificazione di tendini e legamenti articolari; a ciò si accompagnano, all'opposto, caratteristiche alterazioni dentarie con forte decalcificazione sia della dentina che dello smalto. In parallelo si manifestano bronchiti e gastroenteriti croniche, con degenerazione del fegato e dei reni. In particolare, vengono riferiti disparati tipi di avvelenamento, l'eziologia dei quali è riconducibile ai vari composti chimici cui l'organismo può essere stato esposto: per esempio fluoruro di sodio (che provoca congiuntivite, cui seguono nausea, vomito, insufficienza cardiaca); fluoruri di sodio e potassio (scialorrea, sete, nausea, vomito, dolori addominali, astenia, tremori, aritmie cardiache, morte); fluoroacetati, fluoroacetamide, acido fluoroacetico, e infine acido fluoridrico (nausea, vomito, parestesie, paralisi motoria, aritmie cardiache, fibrillazione ventricolare, insufficienza respiratoria, convulsioni e coma, morte).
La patologia distintiva della fluorosi cronica può avere però anche origine diversa da quella professionale, pur presentando gli stessi sintomi, e da questi altri due tipi possono essere accidentalmente colpiti pure gli animali: la fluorosi tellurica difatti è dovuta all'utilizzo di vegetali inquinati da ceneri vulcaniche o da fumi industriali. E per finire abbiamo la fluorosi geologica o idrica, causata dall'ingestione o dal prolungato contatto con acqua e/o con specie vegetali spontanee o coltivate in terreni ricchi di fluoruri.
Molte piante spontanee "si specializzano" nell'assorbimento selettivo di particolari elementi e sostanze chimiche dal terreno a scopo protettivo, cioè per rendersi meno appetibili agli animali. Come abbiamo visto, l'Euforbia ad esempio lo fa. Non parliamo poi dei funghi. I principii selezionati, estratti e concentrati dalla pianta possono essere diversissimi, ma tutti hanno in ogni caso la caratteristica comune di "misura difensiva" contro gli erbivori. Ne esistono, come sappiamo, anche altre. Ma la natura non indulge mai a sprechi. Se una specie - invece di armarsi di aculei - ha scelto di salvaguardare la propria incolumità per mezzo di un veleno, o di altre sostanze pericolose o anche soltanto sgradevoli al gusto, in essa contenute, non le serve altro. E sono giunta perciò alla conclusione che l'identificazione dello Shamìr con il Paliurus, o con qualunque altra specie spinosa, è errata. Per il banalissimo motivo che una pianta che contiene fluoro non ha nessun bisogno di sviluppare anche spine.
Ma per concludere: io sono ben sicura che era una fluorosi il male misterioso che colpì gli operai di Salomone. Così come sono sicura che, limitatamente, colpì anche Mosè. Perché sia gli uni che l'altro si servirono, per le loro lavorazioni, dell'estratto corrosivo ricavato da una pianta che ha la particolare proprietà di assorbire dal terreno fluoruri in notevoli quantità. E che purtroppo per ora non so con sicurezza quale sia. Ma io non dispero.
Sottrazione e contrabbando di segreti di Stato
A questo punto, sarà bene cercare di fare il punto della situazione.
Dunque, abbiamo qui una storia vecchia di tre o quattro millenni che parla di una sostanza vegetale capace di corrodere la pietra. Quella tradizione, narrata prima oralmente e assai più tardi messa per iscritto, nel corso del tempo è divenuta favola, adornandosi di tutte le meravigliose insensatezze del mito. C'è rimasto nondimeno, di quell'antica ipotetica realtà, abbastanza da indurmi a cercare di capire fino a che punto il racconto sullo Shamìr sia attendibile e tentare di ricostruire la sua effettiva natura: che è quanto mi sto provando a fare. Tutto sta a riuscire ad estrarre da quel viluppo di magia e mistero un nucleo di razionali e verosimili informazioni tecniche, che ci consentano di riportare la leggenda alle sue origini concrete: cosa non facile, ma nemmeno impossibile. Che dietro quel gran polverone ci sia una storia vera, io ne sono convinta.
Difatti dalle indicazioni - benché distorte e quindi malintese - esistenti, appare chiaro che i suoi contemporanei disponevano di diversi dati di carattere pratico sullo Shamìr: come la descrizione sommaria e l'identificazione (sbagliata) della pianta dalla quale quel succo veniva estratto; l'elenco di tutte le qualità di pietre sulle quali agiva; le istruzioni circa il modo di usarlo e di conservarlo; l'illustrazione della patologia relativa agli "effetti collaterali indesiderati" connessi al suo uso. Non è poco. Questi sono dettagli tecnici. L'esposizione del "modus operandi" dello Shamìr (al di là della narrazione leggendaria di eventi che vedono coinvolti pennuti, dèmoni e quant'altro) ha tutto il sapore di qualcosa di assolutamente concreto, e non sembra davvero inventata di sana pianta, come nel caso dei miti sul favoloso Leviatano o su altri fattori o creature fantastiche (all'origine di alcuni dei quali, tuttavia, potrebbero celarsi dimenticate verità). Questa relativa abbondanza di dati reali (infatti se ne sa fin troppo, dato che degli altri "segreti scientifici" non sappiamo praticamente nulla) è dovuta proprio, credo, al fatto che lo Shamìr aveva applicazioni del tutto materiali, e che venne utilizzato da semplici operai, muratori, scalpellini: qualcuno che per forza lo vide, lo toccò, lo ebbe tra le mani - anche se mai nessuno riuscì a capire esattamente di che cosa si trattasse - e ne parlò. E debbo ringraziare appunto quegli umili lavoratori per questa "fuga di notizie" che per la mia ricerca è stata un insperato vantaggio, considerato che anche quello dello Shamìr era ritenuto uno dei "grandi segreti" - da custodire con cura - della tecnologia.
Prova ne sia che, dopo averlo "riscoperto" a cinquecento anni dal suo primo utilizzo da parte di Mosè, anche in seguito alla costruzione del Tempio i suoi custodi lo conservarono (per quanto fosse ormai "inattivo", e forse già da molto tempo) per altri quattro secoli. Non soltanto lo conservarono, ma - a ulteriore dimostrazione della sua importanza - nascosero accuratamente il "segreto del magico Shamìr" nella cavità delle due colonne Jachin e Boaz, insieme a tutti gli altri marchingegni scientifici.
Ma alla fine, vuoi per "inattivazione" spontanea, vuoi in concomitanza con la totale e conclusiva demolizione del primo Tempio, lo Shamìr misteriosamente "scomparve" (39). L'ultimo accenno che se ne trova (tralasciando la presunta "eredità" massonica, sulla quale comunque sarebbe interessante indagare) è quello che ho citato all'inizio: e cioè la sua asportazione dal Tempio (e la sua più che probabile distruzione), insieme a tutto il resto della documentazione storica e scientifica del popolo di Israele, da parte dei babilonesi. Prassi comunissima in tutte le guerre di conquista, sia del passato che attuali: rubare le memorie e il sapere di un popolo equivale, da sempre, a impossessarsi della sua forza, della sua anima. In ogni caso, e qualunque sia stato il motivo della sua sparizione finale, anche se il suo "segreto" non era ancora andato perduto, a quell'epoca già da gran tempo lo Shamìr non veniva più utilizzato. Per l'esattezza, dopo il periodo di splendore delle grandi costruzioni religiose e civili volute da Salomone, non se ne sente più parlare. Anzi, fu proprio Salomone l'ultimo a saperne qualcosa. L'effettiva - e direi anzi definitiva - scomparsa dello Shamìr è attestata, più che dall'affermazione contenuta nel racconto in questione, dal fatto che in seguito non troviamo più nessuna allusione al suo impiego, né nella Bibbia (che per altro non ne ha mai esplicitamente parlato) e nemmeno nei midrashìm; e questo, nonostante il Tempio sia stato poi ricostruito, e più di una volta. Come se l'antico divieto della Legge mosaica di usare ferro per la lavorazione delle sacre pietre (con la conseguente necessità di mettere in atto un sistema alternativo) fosse caduto in prescrizione o dimenticato. O come se lo Shamìr non fosse più stato operante o disponibile. O, anche, come se non esistesse più la figura di un depositario autorevole che ne conoscesse, per investitura divina, la natura, le proprietà e le modalità d'impiego.
Lo Shamìr, come ogni altro ritrovato scientifico, era possesso esclusivo, "monopolio" di Salomone. Salomone era benedetto da Dio ("la sua sapienza fu più grande che la sapienza di tutti i figli d'Oriente e tutta la sapienza d'Egitto": un confronto significativamente polemico) e perciò deteneva il potere "magico", politico e militare. Ma alla sua morte il regno si sfasciò, dividendosi in due rissose fazioni. Le conoscenze riservate non vennero tramandate, caddero nell'oblio. Frattanto, nel suo ripostiglio nascosto, il segreto del "magico Shamìr" era ben custodito; alla fine, divenne nulla più che il vago ricordo di un "qualcosa" che nessuno più sapeva cosa fosse.
Tanto che lo è ancora adesso.
E non ho nessun dubbio che quando i babilonesi, nel distruggere le colonne di bronzo per mandarle in fonderia, scoprirono il nascondiglio, verosimilmente delusi che non contenesse roba di valore ma solamente polverose scartoffie e forse qualche curioso e incomprensibile congegno, diedero fuoco a quanto avevano trovato; ché tanto l'intera città era oramai in fiamme. Nessuno certamente fece caso a un mucchietto di semi rinsecchiti e a qualche vecchia e magari ormai illeggibile pergamena. Quella, penso, fu la fine del mio "magico Shamìr"(40). Quanto alle altre civiltà che sfruttavano lo stesso o un simile principio, e presso le quali ugualmente esso andò perduto, può darsi che abbiano abbandonato quella tecnica (che non soltanto era, si suppone, lenta, ma anche negata all'utilizzo comune e privato ) in coincidenza con l'introduzione e la diffusione comune del ferro per gli attrezzi da lavoro. O forse per il fatto che - come ho già accennato - quella pianta, in quanto importata da climi differenti, era difficile da coltivare. O magari perché, così come in Israele, anche in altri regni i rovesci politici sommersero e fecero sparire dalla scena le conquiste della scienza. A meno che il motivo fosse che il suo impiego era troppo dannoso per la salute. La verità - che non conosceremo mai - probabilmente consiste in una somma di concause, che non penso certo di avere elencate tutte.
Ma sembra evidente che - a suo tempo - lo Shamìr fosse un ritrovato tecnologico-scientifico di forte interesse. Non il più importante, con ogni probabilità, ma notevole abbastanza perché il primo midràsh citato lo nomini specificamente, a parte. E comunque di grande valore pratico, per lo meno nell'àmbito delle attività artigianali e artistiche della lavorazione delle pietre da ornamento, di quelle da costruzione e di quelle impiegate per la statuaria, i bassorilievi, le decorazioni et similia (e cioè nei settori istituzionalmente addetti alla realizzazione esclusiva di opere e manufatti "sacri", destinati a mostrare il fasto e la magnificenza di divinità e di regnanti). Quello che lo riguardava era un "segreto di Stato".
Faceva infatti parte anche lo Shamìr, di sicuro, di quel limitato e perciò inestimabile patrimonio di riservatissime, enigmatiche conoscenze scientifiche e culturali (astronomiche, mediche, chimiche, arte dello scrivere e quant'altro) che erano proprietà privata di tutte le Supreme Autorità. Quelle cognizioni che, rappresentate da un qualche "magico" oggetto, da un'arma "fatata", da un "potente" talismano o da una "mistica" sostanza (avete notato quanti termini sono stati coniati per esprimere questi concetti?), costituivano il "segno" tangibile della "rivelazione" di Dio concessa solo a chi ne fosse "degno"; della benedizione del cielo; del riconoscimento divino del diritto di un sovrano a regnare. Solamente pochissimi eletti - per celeste privilegio - potevano accedervi. I Sovrani consacrati. Gli Unti del Signore. Ma insieme a loro anche i Sacerdoti. Gli Iniziati. I Maghi. Gli Stregoni.
Non a caso Hitler, nei suoi folli vaneggiamenti esoterici, cercava di entrare in possesso dell'Arca dell'Alleanza.
Sapere occulto, top secret, riservato possesso della casa regnante e della casta sacerdotale, vietato ai comuni mortali e gelosamente difeso come uno dei più efficaci strumenti di potere, in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni sistema culturale. Informazioni tabù, ammantate di "sacralità" e di "religiosità", che agli occhi del popolo erano "mistero" e "magia", e che tali dovevano rimanere senza mai uscire dalla ristretta cerchia del "palazzo", tramandate di padre in figlio. Misteriosi ed inquietanti fenomeni che colpivano sia i sensi che l'immaginazione. Fuochi e bagliori. Fumi ed incensi. Filtri, pozioni. E, come indispensabile corollario di questi aspetti più concreti, "parole potenti", "parole magiche". Procedimenti tecnici come formule cabalistiche. Stregoneria, incantesimi, fatture, scongiuri. Abracadabra. Con l'accompagnamento di un apparato liturgico adeguatamente suggestivo, di musiche e suoni "evocativi", prodotti da "sacri" strumenti.
Le Sibille e i Profeti che ti dicono la vita. Il Nome segreto di Dio. Chi predice le eclissi comanda il sole, e così via.
(Mi scuso con gli addetti ai lavori. Non è certo mia intenzione, e non sarebbe comunque questa la sede adatta ad approfondire l'indagine sui complessi rapporti fra scienza, magia, religione, rito e potere: troppe migliaia di importanti e dotte opere sono state scritte su questi argomenti.)
Ma torniamo a noi.
Come erano entrati in possesso i re di Gerusalemme di quelle conoscenze superiori? E in particolare da dove veniva il segreto del "magico Shamìr"? Ancora sotto Salomone, lo stato unificato di Israele-Giuda (uno stato, di per sé, di dimensioni modeste) era, specie se rapportato a quelle limitrofe, una nazione giovane e molto, molto ignorante. Un popolo di pastori seminomadi e di contadini, grossi gruppi familiari e tribù - raccoltisi poi insieme per necessità politiche e militari - che fino a solo settant'anni prima non aveva mai avuto un re, né tanto meno una dinastia regnante che potesse essere depositaria dei segreti di una scienza elaborata autonomamente. E' assai difficile, per non dire altro, che possedesse gli strumenti culturali e le tradizioni tecnico-scientifiche che potevano svilupparsi soltanto, nel corso di molte generazioni di studiosi, in un ambiente stanziale, in un clima di continuità, in uno stato dotato di un forte senso storico e dell'identità nazionale, presso una corte reale ricca, progredita ed aperta alla ricerca, per quanto intesa in senso utilitaristico. Questi sono, invece, i requisiti tipici delle nazioni che già avevano fatto grandi conquiste in questi campi: nazioni antiche, colte, potenti (e vicine). L'Egitto in primo luogo, l'eterno amico-nemico. Ma anche tutti gli altri popoli d'attorno - l'intera Asia Minore, i paesi che si affacciano sulla riva orientale del Mediterraneo, e la Mesopotamia, assiri, babilonesi e persiani, eredi dei sumeri, per non citarne che alcuni - erano certamente più acculturati degli ebrei. Matematici, astronomi, maghi caldei, egizi, medi, siriani... Sorvolando sul celeberrimo anello o sulla benedizione divina, mi sembra indubitabile che, quali che fossero i preziosi e tanto decantati segreti della conoscenza in possesso di Salomone, in generale non potessero provenire che da queste fonti esterne a lui contemporanee.
Può darsi, però, che nel caso particolare dello Shamìr (come anche dei segreti murari con cui fu costruito il Tempio, cioè dei princìpi di geometria sacra applicati all'architettura, e pure di altri ritrovati che però in seguito non vennero messi in pratica), la provenienza indicata nei midrashìm fosse davvero antica, che quello fosse cioè una specie di "lascito" culturale (o magico, se vogliamo) risalente a Mosè e tramandato dai sacerdoti attraverso le generazioni. Re Salomone - come afferma la leggenda - si sarebbe limitato solo a "riscoprire" lo Shamìr e a rimetterlo in funzione, quando ne ebbe la necessità. E' un'ipotesi verosimile, giustificata da quell'intrigante riferimento al primo uso che Mosè ne avrebbe fatto sul Monte Sinai.
Nel complesso, gran parte della cultura materiale dei Figli d'Israele, all'epoca dell'esodo, doveva essere per forza di cose di derivazione egizia. In fin dei conti, è fra gli egiziani che avevano soggiornato durante gli ultimi duecento anni, assimilandone - per quanto in misura minima - le nozioni, l'arte, la tecnologia. Gli ebrei che "rientrarono" nella Terra Promessa erano certamente più evoluti sotto ogni punto di vista di quelli che vi erano sempre rimasti dedicandosi alle loro semplici occupazioni. Infatti (pur essendo anch'essi modesti agricoltori e allevatori) gli israeliti non ebbero, a quel che sembra, nessuna difficoltà a fondere e fabbricare colonne, altari, l'Arca, il Vitello d'Oro e altro.
Questo, per ciò che riguarda le conoscenze e le attività per così dire "normali".
Ma qui stiamo parlando di cose di ben altra importanza. Perché Mosè, nel partirsene dall'Egitto alla guida dell'esodo, non si portò certamente via banali, comuni oggetti d'uso. A quanto pare portò invece via (leggi: "rubò") - nella "bara" di piombo di Giuseppe, ma non solo - nientemeno che alcuni fra i segreti tecnologici più preziosi di proprietà del governo. Un capitale senza prezzo in grado di tentare chiunque, apparecchiature e documenti che facevano parte di quel "sapere riservatissimo" che era appannaggio esclusivo della famiglia reale, della classe sacerdotale e delle sacre confraternite di arti e mestieri. Cioè di quegli ambienti vicini al "palazzo" che, nel corso del periodo "privilegiato" della sua educazione a corte, il Maestro aveva avuto occasione di frequentare.
Unicamente in quel contesto avrebbe potuto venire a conoscenza di quei "misteri".
Quanto a metterci su le mani, però, era tutta un'altra musica. Ma il destino lo aiutò. Il destino e la previdenza (per non chiamarla "appropriazione indebita") di Giuseppe, che misero Mosè in condizione di "incamerare" quei "segreti", dallo stesso Giuseppe abilmente sottratti (come estesamente spiegato nel volume citato in premessa: N.d.A.) ai loro legittimi custodi e proprietari.
Come riportano Grierson e Munro-Hay nel volume "L'Arca dell'Alleanza", Trogo Pompeo, un celta di Narbona che scriveva in latino, vissuto sotto il regno di Augusto, affermava che Mosè "segretamente aveva preso con sé gli oggetti sacri degli egizi", oggetti che gli egiziani cercarono di riprendersi con la forza, venendo però travolti da una tempesta. Si riferiva in particolare all'"Arca dell'Alleanza (la quale), più che simile a un reliquario egizio, sarebbe davvero un reliquario egizio. Pur non essendo nominata espressamente, è essa l'oggetto sacro sul quale si basava il culto israelitico nella Bibbia, ed è descritta in termini che fanno pensare che sarebbe valsa la pena di mandare un esercito per riconquistarla." Dello stesso parere sono non pochi altri Autori, e io per parte mia spero di avere esaurientemente dimostrato (sempre nel volume citato in premessa: N.d.A.), prove alla mano, che quell'opinione è altamente attendibile.
Specificando però che ciò che il Maestro considerava del massimo valore, tanto da essere indotto (non una, ma ben due volte) ad un "furto sacrilego" per impadronirsene, non era in realtà la "cassa" in sé, ma piuttosto le attrezzature e le "istruzioni" in essa contenute: cioè (come sopra: N.d.A.) oltre agli scritti (legislativi, tecnici, di geometria e di architettura), l'impianto elettrico (di altra derivazione), l'impianto di amplificazione sonora, le lenti ustorie e l'intero assortimento di prodotti chimici del quale - con modalità tutte particolari, nelle quali aveva un suo ruolo anche l'arte del giardinaggio - faceva parte pure il "magico Shamìr". Del quale ultimo, se non altro, si può dire che fu l'unica, fra le diavolerie tecnologiche messe in funzione dal Profeta, che non ebbe applicazioni deterrenti nei confronti del "popolo". A parte il fatto che le altre, come per esempio l'elettricità, mostravano ben scarse prospettive di utilizzo alternativo, diverso da quello che lui ne fece per mezzo dell'Arca. In fin dei conti, si era in mezzo a un deserto, e non alla corte del faraone.
Come sa chi mi ha seguito fin qui, non ho mai nascosto la mia ferma opinione che Mosè fosse uomo totalmente privo di scrupoli. Tuttavia insieme posso capire che l'impiego dei trucchi fornitigli dalla "magia" fosse (dal suo punto di vista) assolutamente indispensabile per riuscire ad imporre la propria autorità tramite la suggestione: qualcosa mi dice che era capace di questo e d'altro. E comunque, fu anche fortunato. Perché se quei trucchi non avessero fatto parte dell'armamentario di "segreti" lasciato in eredità da Giuseppe alla sua famiglia, è certo che Mosè non sarebbe stato in grado di tenere così efficientemente sotto controllo quel branco di disperati. E la storia loro e nostra sarebbe stata del tutto diversa.
Era quello il tesoro sottratto dalle misteriose cripte, dagli oscuri antri dei templi e delle scuole iniziatiche egizie. Quelle erano le "conoscenze riservate" che Mosè "contrabbandò" fuori dai confini d'Egitto. Forse, per dotare gli israeliti di armi invincibili, ma soprattutto per usarle come mezzo per affermare su di essi il proprio dominio. Di quei prodigi, miracoli e sortilegi il Profeta si servì a piene mani, mettendoli in opera ogni volta che poteva. Tutta la storia dell'esodo, finché fu lui a guidarlo, ne è piena: dalla mistica "colonna di fuoco" alle non meno sulfuree apparizioni sul Monte Horeb, dalle spaventose folgorazioni prodotte dall'Arca di Dio al divino dono del "magico Shamìr".
E come avrebbe potuto fare, se no?
Il laboratorio di Dio
Dei prodotti chimici, di cui si sarebbe servito per i suoi spettacoli di "suoni e luci", Mosè si era di certo portato appresso dall'Egitto una buona scorta.
Non così nel caso dello Shamìr, di quell'acido fluoridrico cioè con il quale, secondo le istruzioni direttamente e minuziosamente impartite da Dio, il Maestro avrebbe dovuto far incidere tanto le pietre del pettorale e dell'efòd (così narra l'Esodo 28, 9-11 e 21: "saranno incise come sigilli") quanto, come affermano i midrashìm, le Tavole della Legge. Quella precisa indicazione implica senz'altro almeno una cosa: cioè che dello Shamìr, ancor prima che si procedesse a quel lavoro, era comunque previsto il puntuale utilizzo proprio nell'àmbito di quella tecnica.
Ciò tuttavia non significa necessariamente che l'acido fosse già bell'e pronto a disposizione, o che non fosse ancora "scaduto", o in ogni caso che ce ne fosse a sufficienza. Siccome su tali particolari non abbiamo nessun dato, possiamo solo fare delle deduzioni basandoci sulla descrizione dei fatti verificatisi in seguito.
Nel resoconto della Scrittura c'è però qualche dettaglio significativo che ha attirato la mia attenzione, e ve li spiegherò a modo mio cercando di ricostruire quanto veramente accadde, là sul Monte di Dio. Perché cercherò di dimostrarvi che, là sul Sinai, lo Shamìr - proditoriamente involato al "tesoro" d'Egitto - venne prodotto in laboratorio. Piantando i semi di quella pianta, naturalmente (escluderei, come abbiamo visto, l'esistenza di una specie con simili virtù reperibile in zona, perché sembra appurato che quella non fosse una pianta indigena), coltivandola, ed estraendone il principio attivo, che andava poi trattato seguendo le procedure del manuale con le istruzioni per l'uso. State attenti.
Immagino avrete notato che, quando si parla di qualcosa di misterioso e "miracoloso" agli occhi degli ingenui israeliti, l'origine ne viene immancabilmente attribuita a Dio: come per lo Shamìr così per le Tavole della Legge e per il complicato progetto del tempio-tenda con tutti i suoi mistici arredi ed accessori. In realtà tutti i disegni che a Mosè furono "mostrati sul monte", le istruzioni e il materiale "anomalo" che ebbero parte nell'allestimento del Santuario venivano dritti dritti dalla cosiddetta "eredità" di Giuseppe. Questo, giusto per chiarire.
Tutti sapete, tanto per cominciare, che l'incisione delle Leggi sulla pietra fu fatta due volte. (Quello a cui invece con ogni probabilità non avete mai pensato è la possibilità che la prima volta sia stata scritta una sola Tavola. Sì, lo dico a rischio di scandalizzarvi: sono praticamente sicura che, la prima volta, fu incisa una sola Tavola. Ho i miei motivi per crederlo. Comunque nel presente testo, per convenzione, continuerò a parlarne al plurale.)
Ma andiamo avanti. Dice il Libro che - dopo avere condotto i 70 anziani al cospetto di Dio perché Lo vedessero - il Profeta insieme a Giosuè salì al monte, dove Dio disse che gli avrebbe dato le "Tavole della Legge". Allora la "gloria di Dio" e la "nube" coprirono per sei giorni il monte, nel quale Mosè rimase per 40 giorni e 40 notti filate. Occorreva infatti nascondere alla vista del popolo quanto si stava svolgendo lassù, poiché qualche importante procedimento chimico doveva essere in corso nella grotta della montagna. Tuttavia, quando il Maestro scese di là con le "prime Tavole", il suo aspetto era quello consueto, ché altrimenti la Sacra Scrittura l'avrebbe detto. Non era infiammata, non "splendeva" ancora - cotta dagli acidi - la pelle del suo viso (41). Segue il famigerato episodio del Vitello d'Oro, nel corso del quale Mosè furibondo distrusse quelle prime Tavole (e, incidentalmente, fece giustiziare circa 3000 "idolatri"). Subito dopo, risalito sulla montagna, incise le nuove Tavole e finalmente tornò per consegnare la parola di Dio al popolo adorante. E, quella volta, aveva la faccia rovinata.
Dunque, dopo che Mosè ebbe scritto le nuove Tavole "splendeva la pelle del suo viso per avere parlato con Lui". Ora, sembrerebbe ovvio a chiunque che, anche ai capitoli "avvertenze", "precauzioni" e "modalità d'uso", sulle proprietà della sostanza che stava maneggiando il Nostro dovesse saperne assai di meno la prima volta della seconda. E allora come mai, usando - in teoria - sempre lo stesso prodotto, la seconda volta si spellò la faccia e la prima invece no? Perché non accadde anche la prima volta? Forse Dio "gli diede" lo Shamìr solo più tardi? Dando per scontato che la seconda volta abbia impiegato - e per me è evidente - un potente acido corrosivo, come testimonia l'irritazione che si manifestò sulla sua pelle, resta da chiarire come Mosè abbia inciso le prime Tavole. Nel libro di cui in premessa vengono prese in considerazione anche altre possibilità, ma per semplificare qui diremo che i casi, sostanzialmente, sono due:
1) NON USÒ lo Shamìr;
2) USÒ lo Shamìr, ma questo non gli provocò danni.
Vediamo in dettaglio cosa questo possa significare.
1) Non usò lo Shamìr. Le prime Tavole le incise a mano. Questa ipotesi prevede che, per quelle Tavole, Mosè non impiegò l'acido fluoridrico, e per questo non si ustionò. Le spiegazioni possono essere diverse.
Quale che fosse il motivo specifico, il Nostro, non potendo disporre
dello Shamìr, dovette rinunciare ad usarlo. Di conseguenza fu costretto
a piantare quei semi e aspettare che le piante crescessero. Per quanto
con intrugli ed esperimenti lui ci andasse a nozze, non gli fu tuttavia
possibile preparare l'acido in quelle poche settimane, probabilmente perché
dai semi che aveva piantato, là in cima al monte, non si erano ancora
sviluppate (in soli 40 giorni) piante con una massa vegetale sufficiente
per estrarlo. Così, dato che non c'erano alternative, fece del suo
meglio per eseguire le incisioni, faticosamente, a mano.
Con risultati assai poco esaltanti.
Il guaio era che giù da basso la gente cominciava a spazientirsi, stufa che la cosa andasse tanto per le lunghe. Ma se l'acido non era pronto e se il materiale che stava tentando di incidere era la selce, bella e solida pietra, l'unica - su quella montagna - adatta ad essere iscritta con le Leggi di Dio, non stento a credere che portare a termine quel lavoraccio, oltre a tutti i calcoli e i disegni esecutivi per la progettazione e l'esecuzione del tempio-tenda, avrebbe preso al Profeta anche più di quaranta giorni (chissà, là sopra, quanti tentativi avrà fatto), non potendosi far aiutare che dal fedele Giosuè che di scultura ne sapeva tanto quanto lui, cioè niente. Gli serviva più tempo, doveva prender tempo. Invece fu costretto a piantare a mezzo l'opera per correre giù a rappezzare una situazione d'emergenza. Così, la cosa migliore da fare era afferrare al volo l'occasione di quella blasfema rivolta anti-Yawè per fracassare nel suo "sdegno", prima che gli altri potessero vederle, quelle Tavole così mal fatte e peggio scritte. C'è un midràsh che racconta addirittura che in presenza di quell'abominevole idolo, del Vitello d'Oro, "lo scritto svanì dalle Tavole"……
Forse, la palese imperizia di quel lavoro potrebbe essere una spiegazione (assai debole) a quell'inopinato atto di distruzione. Io però non penso affatto che il vero motivo fosse quello, tutt'altro. Credo invece che quel gesto apparentemente inconsulto fosse dovuto piuttosto al fatto che quelle incisioni non andavano bene comunque. E sono pure convinta che in quell'occasione l'acido effettivamente venne usato, anche se lo penso più che altro perché la Bibbia specificamente afferma che (mentre nel secondo episodio di quel tipo le "parole" vennero dettate da Dio a Mosè) fu proprio "il dito stesso di Dio" che, lassù sull'Horeb, incise sulla pietra le prime Leggi: cioè il prodotto originale - l'estratto "ereditato" da Giuseppe, intendo -, con l'aiuto di Mosè che materialmente scrisse il testo sulla pietra incerata prima di passarvi sopra - come raccontano i midrashìm - il "magico Shamìr".
2) Questa ipotesi alternativa prende infatti in considerazione un'altra possibilità, e cioè che - per l'incisione di quelle prime Tavole - Mosè abbia utilizzata tutta o quasi la piccola scorta di acido che aveva a disposizione. O quanto meno che abbia tentato di utilizzarla. Ma quell'acido (il "dito stesso di Dio") oltre ad essere scarso era oramai pure vecchio e "svanito", quindi non più così potente e aggressivo sulla pietra: lavorava troppo debolmente e lentamente, e i segni che tracciava erano vaghi e incerti. Se non altro però, proprio per quel motivo, non era in grado di procurare gravi irritazioni, e la faccia di Mosè mantenne il suo colorito normale.
In entrambi i casi comunque, sia che per quel primo tentativo di incisione avesse usato lo Shamìr di Giuseppe o la semplice forza bruta, le Tavole non riuscirono come il Nostro voleva. Ma non fu per quello che le distrusse. C'è dell'altro, qualcosa di ben più fondamentale dell'inadeguato aspetto "tecnico" di quel simbolo: perché in entrambi i casi il contenuto stesso di quanto aveva scritto non corrispondeva più (dopo la sua lunga assenza) alle necessità di circostanze che erano mutate, erano degenerate ed ormai totalmente fuori controllo (il motivo per cui Mosè si rese improvvisamente conto che quanto stava per consegnare agli israeliti non andava bene, e senza por tempo in mezzo, con grande presenza di spirito, prese una soluzione radicale mandando in frantumi la Tavola, viene spiegato nel volume di cui già si è detto: N.d.A.).
L'unico modo per rimediare era guadagnare tempo ancora una volta congelando la situazione, ed approfittare di quella pausa per correggere il tiro (soprattutto sotto l'aspetto concettuale) delle disposizioni che si accingeva a dare al popolo d'Israele. La faccenda del Vitello d'Oro era solo una scusa. Fu in realtà con quei tremila morti ammazzati che Mosè riuscì a bloccare le spinte eversive e anarcoidi della gente, e a dividere una volta per tutte i "buoni" dai "cattivi".
Fece comunque in maniera molto convincente la sua scena madre, la sua sfuriata di apocalittica indignazione. Ovviamente, per rendere più credibile quella indignazione e la distruzione delle Tavole, dovette raccontare che Yawè era ancora più furibondo di lui, che a stento era riuscito - bontà sua - a dissuaderLo dallo sterminarli tutti. Quanto alle Tavole in sé, fisicamente intese, forse mandandole in pezzi sottovalutò il lavoro necessario per farne di nuove (e anche il rischio), ma credetemi se vi dico che - naturalmente, sempre dal suo punto di vista - Mosè aveva ottime ragioni per il suo comportamento. Oltre tutto, c'è addirittura un midràsh che afferma che Yawè stesso lo ringraziò per averle tolte di mezzo. E comunque, sta di fatto che sapeva di potersi procurare quando voleva, come poi fece, altro acido preparandoselo da sé; forse aveva già piantato i semi fin da quando aveva aperto il "pacco dono" di Giuseppe, oppure lo fece dopo aver distrutto le prime Tavole, ma in tutti i casi quello non era certo un problema.
Ripreso il controllo della situazione, continuò nei suoi esperimenti. Mentre i contriti e spaventati Figli d'Israele si spogliavano di tutti i loro ornamenti per consegnarli "volontariamente" ad Aronne, proto-tesoriere del Tempio, le piantine sulla montagna crescevano, e ben presto - erano passati forse tre mesi - lo Shamìr poté essere messo in produzione. Mosè era pronto, ora, per realizzare le nuove Tavole della Legge in versione ufficiale e definitiva.
Anche così tuttavia quel lavoro non deve essere stato né breve né facile. In fin dei conti il Nostro non aveva mai fabbricato né maneggiato quel venefico acido. Ma era divenuto ormai indispensabile imporre una Legge scritta - e perciò tanto più ineludibile - ai suoi recalcitranti seguaci, e (in mancanza di quello originale) fu pertanto costretto a preparare ex novo lo Shamìr, distillando e manipolando l'estratto di quella pianta, senza averne nessuna pratica. Ma forse proprio perché non ne aveva alcuna esperienza diretta, o forse tratto in inganno dalla scarsa aggressività manifestata da quello "vecchio", non considerò che l'acido "fresco", di nuova produzione, sarebbe stato ben più potente, e che oltre all'impiego di quella sostanza in sé anche, o piuttosto soprattutto, la lavorazione necessaria a distillarla e ad estrarla poteva essere pericolosa al punto da provocare danni assai seri. E quindi trascurò di procedere con la necessaria cautela. C.V.D.
Era quello, in realtà, il motivo dello "splendore" ossia, in termini clinici, dell'eritema sulla pelle del suo viso che tanto spaventò gli israeliti. E fu quella, credo, l'unica volta che Mosè si comportò con leggerezza.
Le Tavole vennero reincise con lo Shamìr, appena fatto, gagliardo e corrosivo. E quella volta sì che erano due. Portavano scritto, quella seconda volta, il "regolamento" aggiornato, completato, riveduto e corretto del campo degli ebrei, la Legge (che arriva fino a noi) della loro vita a venire, chiaramente e profondamente scolpita nella pietra, altrettanto quanto lo sarebbe stata poi nello spirito e nella coscienza dei Figli d'Israele.
Avevo ragione a non disperare. Sono stata fortunata. Ho trovato lo Shamìr. Forse. Spero.
Si chiama Dichapetalum cymosum Hook. e fa parte della famiglia delle Dicapetalaceae (in precedenza veniva chiamato Chailletia cymosa, delle Chailletiaceae) che comprende almeno una sessantina di specie fra arbusti, arbusti lianescenti e liane, molte delle quali vivono in foreste dense e umide. Il Dichapetalum cymosum, che si presenta come un banale cespuglio di circa 30 centimetri di altezza (privo di spine), cresce invece soprattutto sulla sabbia. E' assai comune, col nome di Gifblaar, nel sud e nella fascia tropicale dell'Africa. Tutte le sue parti, tranne la polpa del frutto, sono tossiche, ed è una delle piante più velenose. Questa sua "qualità" fu scoperta da Anderstepoor e Marais in seguito all'osservazione che gli animali non se ne nutrono. Il principio contenuto è l'acido fluoroacetico, uno dei più potenti veleni conosciuti, che ingerito, inalato o per contatto provoca danni sia acuti che cronici come quelli sopra descritti. L'acido fluoroacetico (C2 H3 F O2), che si isola dalle sue foglie, oggi, prodotto industrialmente, viene impiegato come "base" per prodotti topicidi.
Ma 5000 anni fa, e pure prima, lo si usava (ne sono fermamente convinta) per ricavarne l'acido fluoridrico (HF) - che si comporta esattamente come faceva lo Shamìr -, forse con un semplice processo che prevede l'aggiunta di acqua ad una certa temperatura: ma non voglio andare "ultra crepidam", con la chimica e la botanica (42). Tutto quello che posso ancora dire è che almeno una pianta con quelle precise caratteristiche l'ho individuata, e penso proprio che possa essere quella, o forse qualche altro arbusto affine o che è attivo allo stesso modo, il mio "magico Shamìr". Aspetto conferme. O smentite.
Tanto vi dovevo.
Giocare a fare "il piccolo chimico" a volte può essere rischioso. E di più può esserlo giocare a fare il Padreterno. Prendere, come fece Mosè, in mano il destino della gente, poter decidere se condurla a morire o a vivere, imporre la propria volontà "in nome di Dio". Ci vuole una immensa presunzione, un'incrollabile certezza di essere nel giusto e probabilmente un ramo di pazzia. Chissà se, almeno per qualche istante, lo sfiorò un dubbio.
Chissà se qualche notte, lasciando per un poco gli alambicchi e le storte, mentre sulla soglia del suo antro cercava sollievo agli occhi brucianti e al volto ardente nel fresco vento di ponente, si fermò a pensarci.
Chissà se qualche volta, guardando laggiù ai suoi piedi
l'accampamento silenzioso addormentato sotto le stelle, chissà se
qualche volta aveva paura.
Note
1: Il saccheggio del 597 a.C. è riportato da 2 RE 24, 10-13, la distruzione della città e del Tempio del 587 a.C. da 2 RE 25, 8-17.
2: Le misure di questo "mare" di bronzo, fuso in un sol pezzo, erano: diametro 10 cubiti (m 5,25), altezza cubiti (m 2,60), spessore 1 palmo (cm 7,5), capacità 2000 bat (l 44.000): 1 RE 7, 23-26. Il bacino era sorretto da dodici buoi, essi pure in bronzo.
3: Le misure delle due colonne di bronzo erano: altezza 18 cubiti (m 9,45), circonferenza 12 cubiti (m 6,30), spessore 1 palmo ( cm 7,5). Erano sormontate da un doppio capitello molto elaborato, alto 5 cubiti più altri 4, pari in totale a m 4,70: 1 RE 7, 13-22. Ho inserito la descrizione di quei grandi manufatti in fusione di bronzo solo per dare un'idea del livello di capacità artistica e tecnologica raggiunto dagli ebrei in un lasso di tempo (dall'esodo a Salomone) sorprendentemente breve. Non dimentico però che il merito di tali realizzazioni viene dalla Bibbia stessa attribuito a Hiram, un famoso artefice di Tiro ingaggiato ad hoc, e che il contributo israelita si limitò a fornire la manodopera necessaria. Ai fini dell'archeologia industriale, sarebbe tuttavia molto interessante ritrovare - se fosse possibile - il laboratorio o l'altoforno nel quale quelle imponenti opere vennero "fuse in modelli di argilla", e che si troverebbe (così la Bibbia indica) in un luogo appositamente allestito "nella regione del Giordano tra Succòt (che non era certo la stessa Succòt dell'Esodo) e Zartan" (1 Re 7, 45).
4: Midràshica. Aggettivo da midràsh (plurale midrashìm): narrazione popolare che amplia e arricchisce di tradizione orale e di leggenda gli scarni testi dell'Antico Testamento. Spesso altrettanto vetusti di questo, i midrashìm trattano le identiche storie ed i medesimi personaggi, fornendo talvolta su di essi indicazioni essenziali, ma non sono stati inclusi nella Sacra Scrittura per motivi dottrinari. Ne esistono a centinaia, di diverse epoche, soggetti e provenienze, raccolti in moltissime antologie. Per parte mia rivendico con forza al midràsh il ruolo, la funzione e la dignità di fonte d'informazione: non ho detto "attendibile", ho detto "informazione", e confermo "informazione preziosa", giacché qualunque scelta in questo campo è sempre arbitraria. I midrashìm costituiscono la fonte più diretta delle tradizioni "apocrife" di argomento biblico.
5: Secondo un'antichissima leggenda Enoch, in vista del Diluvio, avrebbe costruito un rifugio sotterraneo contenente i documenti relativi a tutte le scienze all'epoca disponibili, innalzando poi sopra il rifugio sigillato i due "Pilastri di Enoch" o "antidiluviani". L'ubicazione di quel nascondiglio, a causa forse proprio del Diluvio, o per qualche altro motivo, era però andata perduta. In seguito il re Salomone, durante i lavori per la costruzione del suo Tempio, avrebbe ritrovato il rifugio apprendendone i segreti; davanti a quel Tempio ricostruì in bronzo le colonne, nelle cui cavità erano conservati i "pregevoli scritti" e le "antiche testimonianze" relativi alla storia passata del popolo ebraico, compreso "il segreto del magico Shamir" e la descrizione delle sue proprietà. Nell'"Itinerario" del viaggiatore e scrittore ebreo Binyamin da Tudela, scritto attorno al 1160, l'Autore afferma: "A Roma, nella chiesa di San Giovanni in Laterano, vi sono due colonne bronzee provenienti dal Tempio, opera del re Salomone, ciascuna delle quali reca la scritta: ‘Salomone figlio di Davide'"; e aggiunge che gli ebrei di Roma gli avevano raccontato che ogni anno, il 9 del mese di Av, "colava su di esse un liquido simile all'acqua". Ma sia di questo miracoloso particolare, sia dell'ipotesi che quelle colonne fossero le famose "Jachin" e "Boaz", sia più in generale - anche se erano altre, comuni colonne - della loro reale provenienza dal Tempio "di Salomone" - nonostante la scritta -, mi sembra lecito dubitare, visto che all'epoca della caduta finale di Gerusalemme (avvenuta come è noto nel 70 d.C. ad opera dei romani agli ordini di Tito) quel Tempio era stato dato alle fiamme ormai da più di sei secoli dai caldei che "spezzarono le colonne" e "ne portarono il bronzo a Babilonia" (vedi nota 1). Eventualmente, infatti, quelle colonne (che comunque in San Giovanni in Laterano non ci sono più, e nessuno sa dove siano finite), anche se fossero state realmente sottratte dal Tempio di Gerusalemme, avrebbero potuto al limite provenire non certo dal Tempio di Salomone, ma soltanto da quello ricostruito più tardi da Erode.
6: Salomone iniziò la costruzione del Tempio nel secondo mese (Ziv) del quinto anno del suo regno, 480 anni dopo l'uscita dall'Egitto del popolo d'Israele, quindi probabilmente attorno al 967 a.C.: 1 Re 6, 1.
7: Esodo 20, 25; Deuteronomio 27, 5-6; Giosuè 8, 30-31.
8: 1 Re 5, 31-32; 1 Re 6, 7. Ma, oltre alla Bibbia e ai midrashìm, anche leggende musulmane ne parlano. Il divieto di usare ferro nel cantiere così fermamente imposto dal re poteva forse avere, facendo volare un po' la fantasia, altre motivazioni più pratiche di quelle della Legge mosaica: come ad esempio l'alto costo di strumenti fabbricati con quel metallo, ancora molto raro a quei tempi; oppure, nella medesima ottica, il sospetto che gli operai potessero rubarli; o addirittura il timore che se ne impadronissero per servirsene come armi suscitando una ipotetica rivolta nel cantiere. Diverse e ancora più immaginose teorie si potrebbero sviluppare, supponendo che quella proibizione intendesse in realtà evitare che l'uso di tali attrezzi producesse scintille: il che starebbe ad indicare che nell'area del Tempio trovavano sfogo in superficie emissioni di gas naturale o di metano, che avrebbero potuto pericolosamente incendiarsi; cosa tuttavia purtroppo contraddetta dall'evidenza dei fatti. C'è infine un'ultima e ancor più fascinosa possibilità. Dicono i midrashìm che nel cantiere le grandi pietre levitavano andando a posarsi da sé nel punto preciso al quale erano destinate. Troviamo qui un evidente nesso con altre simili leggende egiziane (ma anche di altri paesi), secondo cui quelle antiche maestranze erano in grado di muovere e innalzare enormi blocchi di granito, calcare o marmo (oltre che con la sola forza del pensiero: anche questo è stato scritto) semplicemente sollevandoli e indirizzandoli con "una musica". Secondo gli antichi papiri, era sufficiente porre sulla pietra da spostare o sotto di essa un foglio con su scritte parole, simboli o formule magiche, produrre quel misterioso "suono", e il blocco si alzava di un poco da terra galleggiando nell'aria. A quel punto bastava spingerlo leggermente o colpirlo con un bastone, e avrebbe percorso, prima di posarsi di nuovo al suolo, tanto spazio "quanto un tiro d'arco". Anche le piramidi sarebbero state costruite così. Se il sistema messo in atto da Salomone era lo stesso, in questo caso l'interdetto avrebbe potuto riguardare essenzialmente il rumore causato dagli utensili metallici, che avrebbe potuto interferire o coprire quel "suono" dotato di magiche virtù. Si deve far silenzio in cantiere, quando le pietre volano. Sarà una favola, ma forse dal punto di vista scientifico non è poi una cosa così insensata e ridicola se è vero che sono attualmente in corso seri studi e sperimentazioni intesi ad appurare le potenzialità (quasi del tutto ignote) di particolari frequenze e vibrazioni sonore e le loro possibili applicazioni in vari campi della fisica, con particolare riguardo per la gravitazione. D'altro canto, visto che sui sistemi utilizzati dagli egiziani per trasportare ed erigere oggetti di grande mole e peso il dibattito è tuttora aperto, e anzi che - in parole povere - nessuno ci ha ancora capito nulla, non c'è proprio niente di male a tentare nuove vie. E allora, a titolo di curiosità, vi citerò un recente articolo di Christopher Dunn a proposito di uno straordinario personaggio che sosteneva di conoscere il segreto della costruzione delle piramidi, e che forse diceva la verità. Sta di fatto che questo signore di origine lituana di nome Edward Leedskalnin, verso la metà del ‘900, in 28 anni, tutto da solo e senza gru o macchinari pesanti costruì a Homestead in Florida un complesso (che chiamò "Coral Castle") di ben 1.100 tonnellate di roccia, estraendo, lavorando e sovrapponendo blocchi monolitici di corallo pesanti fino a 30 tonnellate. Come abbia fatto, Dio solo lo sa: ma il suo segreto ormai se lo è portato nella tomba, e nemmeno il governo degli Stati Uniti è riuscito a farselo raccontare. La sua attrezzatura era più che modesta, quasi ridicola, e la sua teoria era che tutta la materia è composta da magneti individuali che basta (con il suo personalissimo sistema) allineare per adattarli al flusso magnetico terrestre, agendo così sull'attrazione gravitazionale terrestre. Dunn (che va matto per queste cose) pensa che forse, con un segnale radio sonoro, Leedskalnin facesse vibrare gli atomi della roccia in risonanza con la frequenza di quel segnale, e riuscisse poi a invertirne la polarità magnetica utilizzando un campo elettromagnetico. Spero di aver capito bene. Se no, rivolgetevi pure a lui. E comunque, a conclusione del discorso sul divieto di Salomone, ci sarebbero ancora da fare una domanda e un'osservazione. La domanda è: come mai era consentito tagliare con strumenti di ferro quelle pietre (comunque sacre) fuori dal cantiere? E poi: nessun altro popolo aveva quel tabù, ma si sa che molti possedevano qualche cosa di assai simile allo Shamìr, o che funzionava sullo stesso principio. Ne parleremo fra poco.
9: Louis Ginzberg - "Le leggende degli ebrei" - vol. I° - Adelphi - 1995.
10: Dato, questo, molto importante, perché sta ad indicare un effetto basato non su una frizione meccanica esercitata sui materiali, bensì su di un principio chimico, anzi più precisamente corrosivo, dal quale quei materiali venivano praticamente dissolti. Anche di questo parleremo più avanti.
11: E' data specifica indicazione che lo Shamìr potesse stare senza far danni a contatto con materiali organici quali un panno di lana e crusca di orzo. Ma per quanto concerne invece gli esseri viventi (umani, nella fattispecie) dal racconto citato da Clapham emerge chiaramente il quadro patologico di un'intossicazione cronica, della quale ci occuperemo fra poco. Ma cosa li intossicava? forse lo Shamìr?
12: Questa infatti è la traduzione letterale del termine ebraico "batel", a significare che, alla lunga, lo Shamìr poteva perdere le sue proprietà. A questo proposito, non si può fare a meno di notare che, dato che - secolo più secolo meno - altrettanti erano gli anni passati fra il primo (da parte di Mosè) ed il secondo (da parte di Salomone) utilizzo dello Shamìr, anche durante quei cinquecento anni esso potrebbe essere divenuto "inattivo". Il che, come vedremo, legittima il sospetto che il re Salomone, non potendo ormai più disporre di un agente corrosivo di adeguata efficienza, non dello Shamìr di Mosé, dello Shamìr originale si sarebbe servito bensì del suo principio, applicato però impiegando materia prima "fresca". Tanto è vero che quella "materia prima "Salomone dovette cercarla lontano, sulle selvagge "Montagne dei Dormienti".
13: Geremia 17, 1; Ezechiele 3, 9; Zaccaria 7, 12.
14: Se erano come quelle del palazzo di Salomone, e non c'è ragione di supporre che fossero più modeste, si trattava di "pietre squadrate di dieci e di otto cubiti", cioè di m 5,25 x 4,20 (1 Re 7, 10).
15: "C & C Review" - 1996: 1.
16: "Kronos" - VI: 1.
17: 1 Cronache 21, 14-28. Il terreno su cui si era manifestata quella spettacolare apparizione, cioè l'aia di Ornan il Gebuseo, divenuto sacro per via di quel fatto miracoloso, fu poi acquistato da Davide "a prezzo di mercato": giustamente, visto che la pestilenza rappresentava la punizione di Dio per una colpa da lui commessa. E' interessante tuttavia notare che il proprietario dell'aia fu ben felice di liberarsene, tanto che l'avrebbe ceduta anche gratis. E che fu proprio su quel terreno che più tardi Salomone costruì il Primo Tempio.
18: Resta però il fatto che di un meteorite del peso di più di un quintale caduto in Siberia anni fa non esiste più traccia in quanto, a quel che sembra, la popolazione, convinta delle sue magiche virtù afrodisiache, se lo è letteralmente mangiato, sgranocchiandoselo un pezzetto per volta, senza risparmiare neppure il campione che era stato prudenzialmente messo "al sicuro" nel locale museo.
19: Ipotesi perversa e maligna: se lo Shamìr era una sostanza "naturale" altamente corrosiva e libera in superficie, che cosa avrebbe potuto impedirgli - portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze - di sprofondare col tempo fino al centro della terra? Magari lo ha fatto davvero, visto che non si trova più.
20: E' noto come presso diverse popolazioni primitive la tradizione relativa ai riti di iniziazione imponga che, prima delle vere e proprie "prove" - solitamente assai rischiose - il candidato debba dimostrare il proprio coraggio passando la notte precedente, solo e disarmato, dormendo sul terreno del luogo sacro. Il che dimostra che il contatto con il terreno stesso di quel luogo è ritenuto in qualche modo pericoloso.
21: Non è quella, per altro, l'unica interpretazione "diversa". Graham Hancock, ad esempio, ritiene lo Shamir "una pietra" o "uno strumento" che non fa alcun rumore mentre è in funzione, e comunque "un oggetto tecnologicamente avanzato".
22: Anche in Italia sembra esista tuttora un'antica tradizione relativa ad una ignota "erba moli", panacea per tutti i mali.
23: Non a caso Esodo 28, 11 e 39, 6, parlando delle 12 gemme da incastonare nel "pettorale del giudizio" e delle due onici - o "sarde" - poste sulle spalle dell'"efòd", specifica che avrebbero dovuto essere istoriate "secondo il lavoro dell'intagliatore di pietre che incide un sigillo", "secondo l'arte di incidere i sigilli": ma, ahimè, non ci dà nessun altro dettaglio, lasciandoci con l'interrogativo di quali mai strumenti e metodi venissero usati per eseguire tali opere. E' interessante in ogni caso notare che la citazione di quelle tecniche d'incisione non contiene niente di magico. Si sa comunque che l'arte (e l'uso) di tagliare, incidere, intarsiare e scolpire in rilievo le pietre dure e preziose è una delle più antiche conosciute, e risale a gran tempo prima che fossero conosciuti i metalli adatti a questo scopo. Già le pietre pregiate in sé sono da sempre state circonfuse da un alone di leggenda e accompagnate dalla credenza (ancor oggi lo sono) che ognuna di esse abbia una (o più) diverse virtù e proprietà particolari: che, ad esempio, possano conferire salute, o forza, o pazienza, o saggezza eccetera; che siano in grado di proteggere chi le porta da diversi mali e svariati guai (come i fulmini, gli aborti, i furti e simili); che vi sia un rapporto diretto fra i pianeti - ciascuno dei quali ha un suo àmbito di azione particolare - e le pietre che sono sotto la loro influenza. Ogni varietà ha insomma il suo significato ed è dotata di aspetti e poteri magici, sacri. E sappiamo pure che perfino la scienza ufficiale e contemporanea non disdegna di prendere in considerazione eventuali proprietà elettromagnetiche ed elettroniche di alcune di esse. In questa ottica, ancora più grande e determinante era considerato il potere della pietra incisa, nella quale alle caratteristiche proprie ad una particolare gemma si univa la forza occulta del simbolo o delle parole su di essa riportati. E' da questa diffusissima convinzione che trae origine la produzione, così copiosa e continuativa, di tali talismani in ogni tempo.
24: Dimenticando forse l'asserzione appena fatta, l'ingegner Pincherle - nello stesso contesto - sostiene però anche un'altra ipotesi circa il taglio e la perforazione di pietre dure: seghe, trapani eccetera, invece del tagliente "portavano fori o cavità a forma di calice che contenevano polvere abrasiva con la quale si praticavano le perforazioni e i tagli".
25: Le pietre da opera solitamente usate erano basalto nero di Gebel Qatrani, granito rosa di Assuan, quarzite di Gebel Ahmar, diorite del deserto occidentale di Abu Simbel, dolerite nubiana. Materiali estremamente resistenti, nei quali (almeno dal 7° grado della scala di Mohs in su) con rame e abrasivo è impossibile fare un taglio netto. E tuttavia Flinders Petrie, il quale ha dedicato a questi problemi lunghi anni di meticolosi studi, ha calcolato che per tagliare, ad esempio, il "sarcofago di Cheope" deve essere stata usata una sega in bronzo lunga almeno m 2,40, ipotizzando - in mancanza di altre e più realistiche spiegazioni - che nella lama fossero incastonati diamanti: i quali però come è noto, e a parte ogni altra già esposta considerazione di costo, non sono reperibili in Egitto. Altre supposizioni sono state fatte: che quelle lame fossero state realizzate in una lega di rame con un indurente come il berillio o l'arsenico, oppure che vi fossero inserite altre gemme quali quelle di corindone (rubini e zaffiri) anch'esse tuttavia di importazione. In ogni caso, a quell'epoca, gli attrezzi utilizzati non potevano essere in ferro, anche se nella Grande Piramide è stata in realtà trovata una lastra di ferro (cm 38,48 x 10,16 x 0,3), inserita lì in fase di costruzione, e che già di per sé costituisce un mistero. Sta di fatto comunque che sulle pareti del "sarcofago" (un unico blocco di granito di cm 227 x 97,7 x 105) non si notano segni di scalpello o di taglio, come peraltro non se ne vedono nemmeno in quello "di Chefren", o in quelli enormi (ricavati anche questi da un sol pezzo di cm 400 x 200 x 335, 100 tonnellate totali), riservati alla sepoltura dei tori sacri, del Serapeum di Saqqara: tutti anzi mostrano una levigatura sia interna che esterna di incredibile perfezione. Secondariamente al fatto che, altro dato stupefacente, le pareti sia interne che esterne di tali oggetti presentano angoli e spigoli perfetti di 90° i quali sembrano eseguiti simultaneamente, con un attrezzo da taglio, anzi con un macchinario a tre assi, impensabile per l'epoca. Qualche altro particolare che potrei aggiungere sul "sarcofago di Cheope", tanto per rinfrescarvi la memoria, è che non si trova al centro della stanza. Che gli manca il coperchio. Che uno spigolo superiore è rotto e manca. Che il suo volume esterno è esattamente il doppio di quello interno. E che i calcoli e le considerazioni sulle sue misure ed i rapporti esistenti fra esse, così come su quelle relative alle piramidi in generale, hanno dato la stura ad elucubrazioni matematico-esoterico-cosmologiche nelle quali mi guardo bene dall'addentrarmi. Per inciso, neppure sull'obelisco incompiuto di Assuan (lungo 42 metri e del peso di kg 1.200.000) ci sono quei segni, benché si presenti allo stato grezzo, solo sbozzato in superficie e scavato lateralmente. Quanto sopra detto si riferisce alla sola lavorazione esterna, cioè al taglio dei blocchi. Ma, come vedremo, ci sono anche altri, ben più problematici aspetti. E' inspiegabile, per esempio, l'uso del tornio - sostenuto da Flinders Petrie ed avallato dalle analisi tecniche eseguite da altri successivi ricercatori - per lavorare la diorite e il granito di vasi e coperchi di sarcofagi. Anche quel tornio, evidentemente, avrebbe dovuto dar forma al minerale per mezzo di un "tagliente" più duro della pietra. Per quanto attiene poi la lavorazione del granito in particolare, mi viene in mente che un famoso scultore italiano contemporaneo, a un certo punto della sua evoluzione artistica, volle cimentarsi (cosa che non aveva mai fatto prima) con quel materiale per la realizzazione di una statua di medie dimensioni. Anche sudando le proverbiali sette camicie, ci mise otto anni prima di finirla.
26: Il fatto che in quelle opere più tarde - e più rozze - non venisse più tolta (per "liberare" la figura e porre lo sfondo al suo giusto livello) la materia eccedente, significa che quell'asportazione non era più possibile perché era venuto a mancare qualcosa: il tempo? i soldi? o la "mistura vegetale"? Quanto all'effetto prodotto da quell'estratto vegetale, la mia supposizione è che agisse solo su uno spessore ridotto (2 o 3 centimetri), quello della profondità dei bassorilievi. Ovviamente, l'applicazione poteva essere ripetuta più volte; ma a questo punto è evidente che se l'intervento o il taglio non veniva eseguito con una sola applicazione ma in momenti ed in fasi successive, il lavoro potesse risultare impreciso. A questo proposito è interessante notare, tenuto conto anche di quanto detto alla nota precedente, e a conferma dell'ipotesi che certe lavorazioni venissero effettivamente eseguite al tornio, che su alcuni dei vasi di Saqqara sono stati individuati dei segni che dimostrerebbero che l'oggetto in questione è stato tolto dal tornio e poi riposizionato non correttamente, cioè non centrando esattamente l'asse di rotazione.
27: E' quanto, in effetti, si riscontra nella Grande Piramide, nella quale i massi più pesanti (10-15 tonnellate) sono posizionati ben in alto - a partire dal cinquantesimo corso di pietre - sopra quelli più piccoli e leggeri (da una tonnellata o poco più) dei livelli inferiori. Una delle più nuove, "eretiche" ed interessanti teorie a proposito della realizzazione di questa struttura è quella avanzata dall'ingegnere francese Joseph Davidovitz, secondo il quale i blocchi calcarei che costituiscono la Grande Piramide non sono in pietra naturale, ma artificiali, fabbricati sul posto con una sorta di cemento o calcestruzzo, e contengono acqua più del dovuto. Questa ipotesi - partita dall'affermato ritrovamento, all'interno di uno dei blocchi, di un capello umano, e supportata da svariate analisi e dal parere di diversi scienziati francesi - si basa anche su quanto si trova scritto nella cosiddetta "Stele della fame" o "della carestia". E cioè che il re Zoser aveva ricevuto dal dio Khnum, in sogno, le istruzioni per costruire la sua piramide e altri monumenti; tali istruzioni riguardavano sia il modello architettonico sia il materiale da costruzione, che per l'appunto sarebbe stato una miscela di vari minerali locali non tutti identificati (adeguatamente macinati e mescolati con una sorta di "betoniera"), che comprendeva probabilmente un qualche elemento indurente: forse, l'arsenico, un metalloide che, unito ad altre sostanze, produce una coagulazione rapida e resistente. Sarebbe, in effetti, l'"uovo di Colombo", in grado di risolvere in un colpo solo sia i problemi del taglio che quelli del trasporto delle pietre. Non sappiamo se tutte le componenti di quel materiale siano state identificate (o quanto meno se siano state identificate correttamente), ma sta di fatto che Davidovitz ha brevettato ed in seguito commercializzato un "geopolimero" ottenuto proprio da quella formula. Per parte sua, il fisico belga Guy Demortier, avendo rilevato anomalie nei blocchi di calcare sia per quanto riguarda la loro composizione chimica che la loro densità, inusualmente variabile, sostiene che in realtà questi sono costituiti da calcestruzzo ottenuto colando in casseforme di legno (del cui impiego sarebbero rimaste tracce) un miscuglio di ghiaia di calcare, acqua e nitrato di sodio. Ma ricerche in tal senso erano state per altro già anticipate dal biochimico tedesco Klemm. Altri ricercatori ed università americane, inoltre, affermano che 4000 anni fa anche i babilonesi - a ciò costretti dalla quasi totale mancanza di materie prime - fabbricavano pietra artificiale, ovverosia "basalto sintetico", fondendo in grandi fornaci, a 1200 gradi Celsius, i sedimenti fluviali. In base ai ritrovamenti di Mashkan-Shapir (sito archeologico a sud di Bagdad), sembra che i basalti da cui sono costituiti i manufatti di quella zona, a prima vista indistinguibili da quelli naturali, siano in effetti del tutto diversi da qualunque altro tipo di basalto noto, sia per composizione chimica che per struttura cristallina.
28: Christopher Dunn è un tecnico utensilista statunitense specializzato in ricerche ed applicazioni delle tecnologie laser ed a ultrasuoni. Ha pubblicato una serie di articoli ("Le progredite tecniche degli Egizi") sull'ipotesi della lavorazione della pietra con ultrasuoni. Leggo a questo proposito in una rivista di settore che il "Jet Propulsion Laboratory" della NASA, a Pasadena in California, ha realizzato un apparecchio ultrasonico piccolo e leggerissimo che può penetrare le rocce più dure con pochissimo peso sulla punta e un bassissimo consumo di elettricità. Purtroppo però non posso dire che tale notizia mi sia di grande aiuto per quanto riguarda il problema che stiamo trattando.
29: Si tenga presente che alcuni dei mostruosi blocchi che compongono le spettacolari mura della fortezza di Sacsayhuaman giungono a sfiorare le 400 tonnellate. Davanti a quella fortezza Garcilaso de la Vega, uno storico al seguito degli spagnoli, rimase a bocca aperta, come racconta nei suoi "Commentari Reali degli Incas" descrivendola così: "può davvero sembrare incredibile a chi non l'ha vista. E ad altri può sembrare frutto di incantesimo..."
30: Scriveva attorno al 1650 nella sua "Storia del Cile" Padre Diego de Rosales, missionario della Conquista spagnola, di una pianta chiamata "pito", che cresce sulle montagne del Perù e della Bolivia. Gli indigeni ingerivano l'estratto delle sue foglie rosse per sciogliere i calcoli renali (lo stesso uso a quanto mi dicono veniva fatto anche da noi della nostra comune Portulaca). Un uccello che l'Autore chiama "carpentiere" mangiava le foglie del "pito" per "purgarsi e per rinforzare il becco, con il quale poi può scavare anche il legno più duro". Inoltre, l'"uccello carpentiere" sfregava le foglie con movimento circolare sulle rocce per ammorbidirle e per scavarvi successivamente il nido.
31: L'Inti Huatana è la famosissima "Pietra del Sole" (o "dove si lega il Sole") che con il suo gnomone indica la data esatta di solstizi ed equinozi e serve da riferimento per i movimenti lunari.
32: Contatti intercontinentali in età remotissime sono cosa d'altronde confermata, per chi ha occhi per vedere, da una quantità di altri segni, e oramai sempre meno osteggiata anche dalla "cultura ufficiale". Ma non è questa la sede per trattare un tema così importante, del quale mi occuperò al momento giusto.
33: Del latice prodotto dalle foglie (foglie che gli animali non mangiano) dell'Euphorbia dendroides L. o Euforbia arborea - che Galeno definiva "acre", "acutissimum", "causticum" e che "fortiter calfacit" - è noto il forte potere urticante. Veniva infatti (e forse ancora viene) popolarmente utilizzato, al pari di quello del fico, come acido per bruciare porri e verruche. Si narra che la maga Circe lo impiegasse come ingrediente nelle sue pozioni che trasformavano gli uomini in porci, e anche che in passato i pescatori di frodo lo usassero per stordire e catturare i pesci. Tale principio irritante pare tuttavia il solo punto di contatto con lo Shamìr: non solo difatti l'Euforbia non manifesta alcuna delle altre sue straordinarie caratteristiche, ma - come dice Ginzberg - è tuttora presente in abbondanza nei climi caldi e aridi del Mediterraneo meridionale, mentre lo Shamìr, disponibile solo all'epoca della costruzione del Tempio, in seguito sparì per sempre. Segno che non era una specie locale, autoctona in Israele, bensì che venne appositamente importata, per quell'occasione, da altri climi. Introdotta ad hoc, adattata e coltivata per un periodo di tempo prestabilito. E' una delle tre possibili spiegazioni. Un'altra è che effettivamente il re Salomone si servisse di conoscenze e "lasciti" di origine mosaica, compresi i semi di quel prodigioso cespuglio, e di ciò parleremo fra poco. La terza è che quell'apporto fosse del tutto casuale: e cioè che uccelli migratori provenienti dal sud, dall'Africa, possano avere incidentalmente trasportato al nord, nelle zone di nostro interesse (ed anche in altre) lo Shamìr, dando così origine alla leggenda del gallo cedrone ed a tutte le altre ad essa parallele. E volutamente non intendo addentrarmi qua nelle ipotesi "marca Sitchin" di che cosa in realtà fossero quegli "uccelli" (lui direbbe uomini-uccello, ovverosia astronauti): un argomento di certo molto affascinante, ma troppo vasto e lontano dal mio, e perciò lo lascio tutto a lui. Quello che qui mi preme sottolineare è l'evidenza che sia dal nostro àmbito che da quello delle altre civiltà vicine, dove ne sono state riscontrate le tracce sia letterarie che archeologiche, lo Shamìr - o chi per esso - a un certo punto scomparve, e perciò quella magica arte di lavorare la pietra senza usare metalli andò perduta. Più avanti cercheremo di capire il perché, ma per ora mi basta ribadire bene due concetti: il primo è che lo Shamìr era sicurissimamente una pianta, perché oltre tutto se no non si capisce che senso possa avere il mettere in guardia da una sua possibile confusione con l'Euforbia (che di sicuro è un vegetale e non, per esempio, un verme ): il secondo è che con ogni probabilità quella pianta non faceva parte della comune flora mediterranea. Era una specie esotica, e occorreva procurarsela intenzionalmente da altri lidi, e poi coltivarla volta per volta - probabilmente con difficoltà e certo con molte cure - per poterne usare a fini particolari le straordinarie caratteristiche.
34: La migliore dimostrazione dello scarso accordo esistente su questo celebre campionario di gemme sta nel fatto che, avendo consultato otto diverse edizioni italiane e straniere dell'Antico Testamento, ho trovato di quell'elenco ben sei differenti varianti, o per l'ordine in cui le pietre sono riportate o per i nomi stessi loro attribuiti. A parte quelli già riportati nel testo, compaiono infatti una volta anche il CALCEDONIO, senza altre indicazioni, e in tre edizioni il LIGURIO, che proprio non sono riuscita a identificare (a meno che quel nome non stia per LIGURITE, nel qual caso sarebbe un nesosilicato solubile in acido solforico).
35: Penso proprio che non vi sarà sfuggita la connessione con quel "cesto di piombo pieno di crusca d'orzo" di salomonica memoria, nel quale il re ripose lo Shamìr sottratto al gallo selvatico. E neppure quella con la sorprendente bara di piombo in cui fu sepolto il patriarca Giuseppe, e che Mosè si portò poi appresso durante tutta la peregrinazione nel deserto (tema meglio trattato nel libro di cui in premessa: N.d.A.).
36: Il materiale da costruzione del Tempio di Salomone, per esempio, era, nella citazione di Giuseppe Flavio, un "marmo bianchissimo", cioè un tipo di dolomite (ovverosia un calcare) tenero ma che indurisce all'aria, di ottima qualità, molto fine e compatto, detto appunto "pietra reale". Si estraeva dalle "cave reali" o "cave di Salomone", appena fuori la terza cinta di mura di Gerusalemme, vicino alla Porta di Damasco.
37: L'indicazione costantemente ribadita nei midrashìm delle "Montagne dei Dormienti" come luogo selvaggio e isolato dove si sarebbe trovato lo Shamìr può far pensare: 1) che Salomone intendesse tenere nascosto a tutti il suo "vivaio", nel quale la pianta veniva coltivata; e 2) che il clima, o il terreno, o entrambi, delle montagne citate fossero i più confacenti all'acclimatazione e alla coltivazione di quella specie esotica. Ma delle misteriose "Montagne dei Dormienti", o "dei Veglianti" si parla spesso nelle più antiche tradizioni indoeuropee. Sarebbero quei luoghi segreti nei quali vivevano, in un lontanissimo passato, quegli esseri divini - o divinizzati - che avrebbero civilizzato la terra, e dove i loro superstiti discendenti si sarebbero poi ritirati abbandonando il genere umano al suo destino. Ma questa è un'altra storia.
38: Come ho già spiegato a proposito della teoria avanzata da Velikovsky e da qualche altro studioso, lascerei proprio perdere, e senza alcun rimorso, l'ipotesi che quegli effetti potessero essere provocati da un'improbabile proprietà radioattiva delle Tavole o dell'agente impiegato per lavorarle. E' vero che la radioattività colpisce ed ammazza sì la gente, ma in maniera molto diversa, e soprattutto - una volta che le radiazioni siano state assorbite dall'organismo - non recede, non è reversibile e continua per tutta la residua vita dell'individuo a fare danni. E tanto meno prenderei in considerazione l'uso di un primitivo laser, che con queste manifestazioni cliniche non ha proprio nulla da spartire. A titolo di informazione mi corre tuttavia l'obbligo di riferire che la radioattività in sé non è un fenomeno del tutto assente fra le molte cose "strane" che si possono trovare nel corso delle ricerche archeologiche svolte in Egitto. Non solo, infatti, alti valori di radon - emanazione radioattiva derivante dal radio - sono stati riscontrati nei più antichi monumenti egizi (cosa, per altro, non di rado constatata in ambienti sotterranei isolati e chiusi), ma anche la pece (proveniente dal Mar Rosso e da alcune zone dell'Asia Minore) e le bende usate per l'imbalsamazione delle mummie egizie presentano un discreto livello di radioattività. Il che però non ci autorizza a congetturare che l'impiego di sostanze radioattive a tale scopo fosse consapevole e voluto. Quanto all'uso del laser il già citato Dunn (e questo è proprio il suo specifico settore di competenza) non ha potuto rilevare nelle pietre egizie nessuna traccia di incisioni eseguite con tale tecnica. I miti egizi, per altro, affermano che le molte pietre di diorite trovate ad Abusir intorno al tempio di Sahura, che mostrano fori di trivellazione apparentemente eseguiti con trapani diamantati, furono tagliate da Seth.
39: Non saprei davvero come lo si potrebbe verificare, ma credo proprio che anche il più potente degli acidi, come l'acido fluoridrico, dopo molto tempo "svapori" e perda la sua forza aggressiva: avrà pure la sua "data di scadenza", e qui si sta parlando di secoli. Questo, se lo Shamìr veniva conservato, per esempio, sotto forma di pasta. Ma anche se si trattava dei soli semi della pianta, può darsi che nel lungo periodo la loro germinabilità ne risultasse compromessa (tuttavia non è detto, perché si sono visti casi di antiche piante germogliate dopo millenni passati in un'asciutta oscurità).
40: Così pure neanche tra gli arredi del culto restituiti da Ciro agli ebrei, alla vigilia del loro ritorno in patria da Babilonia, lo Shamìr non c'era (e nemmeno i documenti scritti), se no di certo la Bibbia l'avrebbe detto.
41: Nel libro del quale la presente ricerca fa parte vengono confutate le ipotesi di Phillip Clapham (il quale sostiene che furono le Tavole stesse, che avevano proprietà radioattive, ad ustionare Mosè) e di Hancock (il quale deduce - sulla scorta di una fonte midràshica che narra che le seconde Tavole erano "permeate dal fulgore divino", mentre le prime invece no - che il Maestro distrusse quelle prime Tavole forse perché "tecnicamente imperfette". Il motivo, come nel volume viene spiegato, è invece tutt'altro). Hancock e Charroux, però, sono stati gli unici a notare l'anomalia del fatto che, mentre la prima volta la pelle della faccia di Mosè non risentì della sua frequentazione del Signore, solo dopo l'incisione delle nuove Tavole "splendeva", e poi non lo fece mai più, nonostante lui continuasse ad incontrarsi "faccia a faccia con Dio".
42: Quest'ultima nota avrebbe dovuto, nelle
mie intenzioni, illustrare la reazione con la quale dall'acido fluoroacetico
si può ottenere l'acido fluoridrico. A causa delle mie personali
carenze scientifiche non è così, purtroppo, ma spero
con tutta l'anima mia che qualcuno degli addetti ai lavori "mi umilii"
ricostruendo quel procedimento. E che me lo faccia sapere, naturalmente.
Vorrei
aggiungere comunque qualche osservazione. Sembra di capire che con il termine
"Shamìr" venisse indicato sia il "lascito" di Giuseppe e poi di
Mosè (cioè i semi della pianta) che il "prodotto finito".
L'acido fluoroacetico estratto dalle foglie della pianta si presenta come
una polvere cristallina incolore, quindi non è di esso che si parla
nella leggenda. L'acido fluoridrico invece (ricavato, nella mia ipotesi,
dal primo), che solidifica a - 83,55 °C, è liquido fino a +19,54
°C (poi diviene gassoso). Il che mi fa supporre che, non essendo possibile
disporne, come è evidente, sotto forma di solido, lo Shamìr
"operativo" consistesse forse in una pasta ottenuta mescolando
l'acido fluoridrico liquido con un qualche eccipiente minerale inerte,
ma sappiamo che non ne vengono attaccati unicamente il piombo, il bronzo
e l'oro. Era quello che si doveva "involtare in un panno e deporre in un
cesto di piombo pieno di crusca d'orzo"? E l'elaborato "candelabro d'oro
puro" di Mosè era forse, a suo modo, un alambicco?
Riferimenti Bibliografici
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2 AGREST MATEST - L'antico miracoloso meccanismo Shamìr
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4 CHARROUX ROBERT - Il libro dei segreti traditi - Ceschina - 1973
5 CLAPHAM PHILLIP - Shamìr - in "C&C Review - 1996: 1
6 DUNN CHRISTOPHER - Le progredite tecniche degli Egizi - in "Hera" dal n. 11 al n. 15
7 FAWCETT PERCY - Operazione Fawcett - Bompiani - 1953
8 FLAVIO GIUSEPPE - Delle antichità giudaiche - Sonzogno - 1821
9 FLAVIO GIUSEPPE - Guerra giudaica - Mondadori - 1991
10 FLINDERS PETRIE WILLIAM - Dieci anni di scavi in Egitto
11 FLINDERS PETRIE WILLIAM - Le piramidi e templi dell'Egitto
12 FORBES R.J. - Studies in Ancient Technology - Leiden 1964-1966
13 GINZBERG LOUIS - Legends of the Jewish - Jewish Publication Society of America - 1911
14 GRAVES ROBERT- PATAI RAPHAEL - I miti ebraici - TEA - 1998
15 GRIERSON RODERICK - MUNRO-HAY STUART - L'arca dell'alleanza - Mondadori - 2000
16 HANCOCK GRAHAM - Il mistero del Sacro Graal - Piemme - 1995
17 INGERSOLL ROBERT(1833-1899) - Some mistakes of Moses
18 KANNER ISRAEL ZWI - Fiabe ebraiche - Mondadori - 1991
19 LIMENTANI GIACOMA - Gli uomini del Libro - Adelphi - 1975
20 MOSCATI SABATINO - Antichi imperi d'Oriente - Newton Compton - 1978
21 PINCHERLE MARIO - Il Mosè proibito - Macro Edizioni - 2000
22 ROSTAING MIRELLA - I misteri dei mondi - Mondadori - 1992
23 SALKELD DAVID - Shamìr - in "C&C Review" - 1997: 1
24 SANTINI DE RIOLS - Le pietre magiche
25 SITCHIN ZECHARIA - Le astronavi del Sinai - Piemme - 1998
26 TEOFRASTO - Historia plantarum
27 VELIKOVSKY IMMANUEL - Shamìr - in "Kronos" -
VI: 1
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Lia Mangolini che, adolescente, ha vissuto qualche tempo in Israele, ha più tardi investito la sua preparazione classica in attività di divulgazione scientifica, ufficio stampa e relazioni pubbliche nel campo dell'educazione e della difesa ambientali, realizzando e curando mezzi mediatici di vario tipo per conto di enti pubblici e privati. Occupazioni che ha poi anticipatamente abbandonato per dedicarsi alla sua antica passione per l'archeologia e l'origine delle religioni, anche come membro del Centro Camuno di Studi Preistorici al cui lavoro editoriale e, sul campo, nel Sinai, ha partecipato. Visita paesi di remotissima civiltà cercandone le misconosciute connessioni, e crede fermamente nell'archeologia "eretica" o "di frontiera". Questo è il suo primo lavoro che viene pubblicato.
lia.m@tiscalinet.it