Che cos'è la geometria?

 

Un tentativo di ... ritorno alle origini,

dopo un secolo di nichilismo ontologico

 

 

Summary - This paper tries to give an answer to the question: "What is Geometry?", opposing Kant's "transcendental" foundation of mathematics to more than one century of "ontological nichilism".

 

 

1.

La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria.

(Kant, Critica della ragion pura[1], Introduzione)

 

Nell'accingerci a cercare di rispondere all'interrogativo di cui in titolo, sopravviene pressante il dubbio se sia più ardito tale tentativo, oppure ... aver formulato la domanda stessa. E' palese infatti che, a partire dalla "rifondazione" della matematica iniziata negli ultimi decenni del secolo XIX (con Dedekind, Cantor, Hilbert, etc.), la geometria abbia progressivamente perduto ruolo e identità, al punto che è oggi diventato persino difficile individuare una "tradizione" nel definire i programmi dei corsi fondamentali di geometria per gli studenti di matematica[2]. Un primo corso di geometria tratta ormai usualmente di "algebra lineare", e il cambiamento di denominazione è già di per sé eloquente[3]. Quando si passa a un successivo, una rapida ricognizione mostra che è presente un ventaglio di opzioni che, invece di essere un omaggio alla molteplicità, è chiaro segno di confusione, e incertezza. Troviamo, a seconda dei gusti, elementi di topologia, di geometria algebrica, di geometria differenziale, di teoria delle forme quadratiche e di algebra multilineare, di geometria combinatoria, etc..

 

Tale spiacevole situazione è senz'altro conseguenza della bufera che si è abbattuta sui fondamenti tradizionali della matematica grazie al contributo delle grandi "stelle" oggi venerate nel firmamento dei cultori della materia, sicché è davvero difficile resistere alla relativa soggezione psicologica. Un'analisi completa della questione dovrebbe comprendere pertanto uno studio (necessariamente critico, e non apologetico) delle convinzioni filosofiche generali di quei personaggi, e della manifesta influenza (negativa) esercitata su di essi dal darwinismo (si notino sospette coincidenze di tempi[4]), allo scopo di esplicitare le ragioni che renderebbero impossibile ai nostri giorni, a detta dei più, riproporre la "medesima" risposta alla domanda in titolo che sarebbe stata data da Aristotele, Cartesio e Kant.

 

Cioè, bisognerebbe:

 

A - Discutere innanzitutto la corretta interpretazione epistemologica delle cosiddette "geometrie non euclidee", che alquanto arditamente vengono definite addirittura un "colpo mortale" inferto alla filosofia kantiana, e costituiscono generalmente il "pretesto" utilizzato per l'eliminazione del ruolo dell'intuizione geometrica (in primis di questa, poscia di ogni specie di intuizione; sull'etimologia del termine si veda la nota 78) nei fondamenti.

 

«In un certo senso possiamo affermare che la scoperta della geometria non euclidea inferse un colpo mortale alla filosofia kantiana, paragonabile alle conseguenze che la scoperta di grandezze incommensurabili ebbe per il pensiero pitagorico»[5].

 

Fa eco a tale autentica "sciocchezza filosofica"[6] il noto testo divulgativo di Herbert Meschkowski[7]:

 

«l'esistenza della geometria non euclidea rende impossibile all'uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant».

 

Tra l'altro, questi convincimenti nascono da un fraintendimento del pensiero di Kant, come scrive bene Piero Martinetti[8]:

 

«Questo ci permette di toccare di passaggio l'importante questione delle speculazioni metageometriche che, secondo alcuni, hanno segnato la condanna definitiva della teoria kantiana. [...] In realtà già Kant aveva preveduto una Scienza di tutte le forme possibili dello spazio e spesso parla di altre forme possibili dell'intuizione. Ciò vuol dire che le intuizioni pure non sono necessità logiche; sono necessarie per la nostra intuizione, ma potrebbero esservene delle altre».

 

Troviamo assai illuminante al riguardo la riflessione di Georg Simmel che Martinetti riporta a conferma della precedente opinione[9].

 

«Gli assiomi geometrici sono così poco necessari logicamente come la legge causale; si possono pensare spazi, e quindi geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perché essi solamente la costituiscono. Helmholtz errò quindi completamente nel considerare la possibilità di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da Kant affermato. Infatti l'apriorità kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra esperienza, una validità non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie anti-euclidee varrebbero a confutare l'apriorità dei nostri assiomi solo quando qualcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudo-sferico, o a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale non valesse l'assioma delle parallele».

 

B - Evidenziare l'insufficienza, a priori e a posteriori, dei tentativi fondazionali di logicisti, formalisti, intuizionisti, etc., che apparentiamo in un'unica categoria nella misura in cui essi sono tutti indebitamente "riduzionisti", ovvero non aderenti a una descrizione dualistica della natura degli oggetti matematici.

 

La nostra accezione del termine "riduzionismo" sarà più chiara nel seguito, ma possiamo qualificare subito con l'aggettivo "aritmetizzante" la caratteristica comune alle fondazioni in oggetto, che vedono il fondamento solo nel tempo, e nell'operazione meccanica di iterazione. Infatti anche per Brouwer, il caposcuola dell'intuizionismo (sostantivo che sembrerebbe avvicinare al kantismo almeno tale minoritaria prospettiva fondazionale), il fondamento della matematica risiede in una «"sovraintuizione" dello scorrere continuo del tempo», pur riconoscendo che:

 

«la matematica ha un contenuto suo proprio che le proviene direttamente e senza mediazione dall'intuizione ed è come tale indipendente tanto dall'esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione logica. In questo senso, la logica non è che una veste che per scopi di comunicazione viene imposta a contenuti che ne sono del tutto indipendenti».

 

Pure Brouwer non sembra sfuggire all'influenza dell'interpretazione impostasi sulle geometrie non euclidee, ma solo successivamente alla pubblicazione dei relativi articoli di Klein ("Über die sogennante Nicht-Euklidische Geometrie" Mathematischen Annalen, 1871, vol. 4; idem, Zweiter Aufsatz, vol. 6). Il ritardo di quasi mezzo secolo con il quale la comunità matematica si avvede improvvisamente del "valore filosofico" della loro "scoperta" è significativo.

 

«[secondo Brouwer] i principi della geometria non [sono] "sintetici a priori", dal momento che a suo parere la mente umana potrebbe applicare all'esperienza qualunque tipo di geometria essa scegliesse. Gli unici veri principi a priori e sintetici sono collegati alla "sovraintuizione" di cui si diceva prima nell'unità e nella pluralità del tempo»[10].

 

C - Infine, e sembrerebbe fuori contesto, analizzare l'influenza che in detta temperie ha esercitato il successo della teoria della relatività, dal momento che è stata la sua affermazione, pur se molti matematici non sembrano rendersene conto, l'elemento decisivo per il consolidamento di un "pregiudizio filosofico" che riteniamo lecito contestare, senza uscire dal campo del "rigore" scientifico[11].

 

Conviene terminare questa parte introduttiva con una citazione che dovrebbe eliminare ogni scetticismo sull'effettiva presenza di "pregiudizi" che hanno condizionato lo sviluppo della scienza fisica e matematica nel XX secolo. Secondo Kurt Gödel, che ne fu indubbiamente protagonista:

 

«a causa dei pregiudizi filosofici dell'epoca, ... un concetto di verità matematica obiettiva ... era accolto con il massimo sospetto e rifiutato da molti come privo di senso»[12].

 

Ci sembra interessante riportare al riguardo anche il parere di Imre Toth, che riconosce la "natura politica" di certe rivoluzioni, parlando in particolare proprio ... delle geometrie non euclidee.

 

«Questa presa di coscienza della sua libertà da parte del soggetto trascendentale della Matematica non è un atto di invenzione Matematica, come quello della scoperta di un teorema o della dimostrazione di un teorema, ma è un atto principalmente politico. Ciò che si chiama la rivoluzione non euclidea fu dunque una rivoluzione nel senso proprio della parola, cioè una rivoluzione di natura politica»[13].

 

Sappiamo bene che si tratta di considerazioni sgradevoli alle orecchie di molti colleghi, ma se non si decide di andare a prendere in considerazione anche siffatti elementi, ecco che la storiografia che ne scaturirà sarà inevitabilmente incompleta[14], e soprattutto "astratta".

 


 

2.

Tempo e spazio sono pertanto due fonti del conoscere, dalle quali possono essere attinte a priori varie conoscenze sintetiche, come segnatamente ce ne dà uno splendido esempio la matematica pura, rispetto alla conoscenza dello spazio e dei suoi rapporti. Essi cioè sono, tutte due, forme pure di tutte le intuizioni sensibili; e così rendono possibili proposizioni sintetiche a priori.

(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 7, p. 79)

 

Non è naturalmente fattibile sviluppare i punti precedenti, sia pure sommariamente, in un contesto limitato come il presente, talché ci limiteremo ad accennare alle linee principali di una fondazione dualistica della matematica, quindi, del duplice concetto di "numero", basato sulle forme della ragione pura spazio e tempo. Esse equivalgono tecnicamente alla coppia di opposti (sorta di antinomia della ragione pura) continuo e discreto. Sarà infatti evidentemente opportuno rispondere alla domanda più generale: "che cos'è la matematica?", poiché soltanto dalla contemplazione dell'universale sarà possibile comprendere meglio gli elementi antitetici che lo costituiscono, e la conoscenza di uno di essi sarà accresciuta per contrasto da quella dell'altro. Solamente così si potrà dare adeguato[15] seguito all'interrogativo del titolo, che significa chiedere secondo noi cos'è "metà" della matematica (la metà rimanente essendo evidentemente l'aritmetica). Le due domande capitali potrebbero essere allora riformulate in termini più tecnici nel seguente modo:

 

- Che cos'è un numero reale? (indicheremo la loro totalità con il consueto simbolo R, anzi con R+, visto che ci occuperemo principalmente di numeri positivi)[16].

 

- Che cos'è un numero naturale? (indicheremo la loro totalità con il consueto simbolo N, specificando che tra i numeri naturali non includeremo lo zero).

 

Tanto per anticipare il nostro punto di vista, non vogliamo con ciò significare che i "numeri" di queste due famiglie siano per noi gli Urelementen (o le relative totalità gli Urmengen), conformemente alla significativa distinzione introdotta da Zermelo[17], e troppo rapidamente "dimenticata" pure nell'esposizione di moderne teorie degli insiemi che recano il suo nome, secondo approcci in cui si parla solamente di "insiemi" e non anche di "elementi"[18]. Non proporremo neppure che una fondazione dualistica adeguata debba prendere le mosse dalla considerazione di numeri (sottinteso adesso: naturali) e punti, ossia gli elementi di quello che chiameremo lo spazio ordinario, e denoteremo con il simbolo S. Tale "concetto puro", dal quale deriva, per astrazione successiva, quello di retta ordinaria, simbolo R (attenzione a corsivi che indicheranno in alcune occasioni differenze filosofiche rilevanti!), sarà sì uno dei nostri Urmengen, ma il secondo non sarà N, bensì un'inusuale, per quanto ne sappiamo, retta temporale, simbolo Q[19]. La prima corrisponderà all'intuizione del continuo, la seconda all'intuizione del discreto. I numeri, delle due specie sopra citate, detti anche numeri come misura e numeri come quantità, proverranno in realtà da un unico procedimento di "misura", applicato però una volta ai segmenti (liberi) di R, un'altra agli analoghi intervalli (liberi; o segmenti temporali liberi) di Q. Insomma, alla base della matematica punti e istanti, né il "nulla", né "pure forme", né "combinazioni di segni", e neanche punti e numeri, come afferma chi più si avvicina alla fondazione "perenne" che cercheremo di descrivere.

 

La pertinenza dei seguenti pareri alla questione ci sembra evidente. Si notino l'esteso arco di tempo che vanno a coprire, e la loro repentina ... interruzione.

 

Cominciamo con Aristotele, secondo il quale (Metafisica, XI, 1061):

 

«Il matematico considera ciò che deriva dall'astrazione. Egli [...] trattiene soltanto la quantità e il continuo, che in certe cose ha una sola dimensione, in altre due, in altre tre, e considera le proprietà di queste cose in quanto sono quantità e in quanto sono continue, e non le considera sotto nessun altro rispetto»[20].

 

Passiamo poi per un altro non matematico, Aurelio Agostino, che nei Confessionum Libri Tredecim coglie la differenza tra gli enti e il linguaggio che li esprime assai meglio di quanto non abbiano saputo fare i logicisti (nominalisti) cui accenneremo in fine di paragrafo (cfr. pure la nota 71). Lo stesso vale per la distanza abissale tra il "reale" e il "pensato", sulla quale spesso torneremo, che pare rimanere altrettanto fuori dalla portata del pensiero degli empiristi.

 

«La memoria contiene anche i rapporti e le innumerevoli leggi dell'aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano. Udii i suoni delle parole che le designano quando se ne discute, ma altro sono le parole, altro le cose: le prime suonano diversamente in greco e in latino, le seconde non appartengono né al greco né al latino né ad altra lingua. Vidi le linee sottilissime tracciate dagli artigiani, simili a fili di ragnatela; ma altro sono le linee geometriche, altro le loro rappresentazioni riferitemi dall'occhio della carne: ognuno le conosce riconoscendole dentro di sé, senza pensare a un corpo qualsiasi. Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo i numeri che calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt'altra cosa. Non sono nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente» (Libro X, cap. XII).

 

Secondo Proclo di Costantinopoli[21]:

 

«[i Pitagorici] ben sapevano che tutta la mathesis così chiamata, è una reminiscenza insita nelle anime, non venuta dal di fuori come le immagini delle cose sensibili che s'imprimono nell'immaginazione [...] come risvegliata dall'apparire di fatti, e sospinta dall'interno dalla stessa riflessione rivolta in se stessa [...] Questa è dunque la mathesis: reminiscenza delle idee eterne che sono nell'anima».

 

Passiamo poi direttamente a Bacone, che non è un "matematico", ma che anche sulla matematica mostra di possedere delle idee molto chiare.

 

«Mathematics is either pure or mixed. To the pure belong the sciences employed about quantity wholly abstracted from matter and physical axioms. This has two parts - geometry and arithmetic; the one regarding continued, and the other discreet quantity [...] without the help of mathematics many parts of nature could neither be sufficiently comprehended, clearly demonstrated, and dexterously fitted for use»[22].

 

Insomma, fin qui tutti riconoscono l'esistenza di una "logica primordiale", o "matematica universale", nascosta tra le pieghe (a mo' di «tacit knowledge», per usare un'espressione di Michael Polanyi; vedi la nota 71) di qualunque formula o discorso scientifico-filosofico. Cartesio descrive nel seguente modo[23] la matematica che trascende come autentica "meta-matematica" quella comune, la quale, impregnata della prima, ne assorbe i contorni semantici.

 

«E quantunque io qui sia per dire molte cose intorno alle figure e ai numeri, perché esempi tanto evidenti e tanto certi non si possono prendere da nessun'altra disciplina, chiunque tuttavia avrà attentamente considerato il mio intendimento, facilmente vedrà che qui niente ho pensato di meno che alla matematica comune, ma che espongo una cert'altra disciplina, di cui quelle cose sono involucro piuttosto che parti. Tale disciplina infatti deve contenere i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si possono trar fuori da qualsiasi soggetto; e, a dirla apertamente, io son persuaso che essa sia più importante di ogni altra cognizione a noi data umanamente, essendo quella che è fonte di tutte le altre».

 

Ogni sapienza, per quanto antica, continua un po' più avanti il filosofo francese, non può farne a meno, essa è come l'anima per il corpo.

 

«Ma pensando in seguito donde pertanto venisse che un tempo i primi autori della filosofia non volessero ammettere allo studio della sapienza alcuno che non avesse conoscenze di matematica, quasi che questa disciplina sembrasse più facile di ogni altra e massimamente necessaria per ammaestrare e preparare la mente alla conquista di altre scienze più importanti, ben mi accorsi che essi conoscevano una specie di matematica molto diversa da quella comune ai nostri tempi».

 

Ci sembra che, in relazione alla matematica, Cartesio colga bene anche l'antinomia della ragione pura discreto (ordine, quantità) / continuo (misura) che ne è alla base:

 

«Toutes les sciences, qui ont pour but la recherche de l'ordre et de la mesure se rapportent aux mathématiques»[24].

 

A una mathesis universalis, ancora caratterizzata da un duplice fondamento, si riferisce pure Leibnitz:

 

«Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum, seu de ratione aestimandi [...] hinc fit ut mathesis universalis sit scientia de mensurae repetitione seu de numero»[25].

 

Terminiamo ovviamente con Kant, secondo la presentazione che ne dà Piero Martinetti, e riassumiamo brevemente. Noi siamo in possesso di verità universali e necessarie che valgono per la realtà che ci è nota nell'esperienza (altrimenti non sarebbero conoscenze) e che tuttavia per la loro natura ci rinviano a una fonte diversa dall'esperienza che la trascende. Gli atti di conoscenza sono sempre atti di sintesi condizionati dalla presenza di "elementi umani" che ne costituiscono l'indispensabile supporto, sicché non possono mai pervenire a produrre una «riproduzione ideale della realtà in un'unità logica perfetta», ma soltanto «una forma simbolica e provvisoria dell'unità». Tempo e spazio sono forme unificatrici a priori, alla cui azione congiunta si deve l'organizzazione della realtà da parte dell'intelletto umano. La matematica è una costruzione sintetica a priori, che:

 

«nasconde sotto vari nomi (postulati, assiomi, definizioni, ecc.) queste intuizioni sintetiche che sono il suo vero punto di partenza; né, traviata da preconcetti, è giunta in generale ancora a perfetta chiarezza circa il loro numero e il loro contenuto» (loc. cit. nella nota 8, p. 45).

 

E ancora:

 

«Al tempo corrisponde il calcolo (aritmetica) [...] allo spazio la geometria. Una scienza come la matematica [...] è costituita da atti di sintesi a priori [...] cioè di collegamenti intuitivi e necessari che sono il fondamento della nostra visione delle cose nell'unità del tempo e dello spazio [...] Ogni atto di conoscenza è [...] una sintesi; lo spirito ricostituisce nell'atto del conoscere dai frammenti dispersi del senso l'unità della realtà ultima» (loc. cit. nella nota 8, p. 48)[26].

 

Ci pare si possa asserire che viene riconosciuta così l'esistenza di talune "capacità" innate nell'intelletto umano, riconducibili in ultima analisi al saper fare di conto (studio della quantità, collegata peraltro all'ordine), e al saper misurare (stabilire cioè "rapporti" tra certi enti geometrici, grandezze, uno di essi fissato come unità di misura; e proprio dal latino ratio, rapporto, vengono i termini "ragione", "razionale").

 

Concludiamo questo excursus storico-filosofico sottolineando quanto appaiano modeste a fronte delle precedenti le moderne descrizioni dell'attività matematica. Da quelle "circolari" di natura sociologica, che si rifanno al concetto (usato spesso a sproposito) di "comunità scientifica", secondo le quali è matematica ciò che viene ritenuto tale dalla categoria di persone individuate in un dato momento storico e in un dato "gruppo sociale", come i "matematici", a quelle più o meno confuse, poetiche, o empiriche, che "vedono" la matematica dispiegata nella struttura dell'universo, o confondono la matematica con le sue applicazioni, oppure perfino di matrice "filologica", giacché sapere per esempio che per i Greci matematica significava "oggetto di studio e di insegnamento" in nulla ancora ci illumina per i nostri scopi. Di livello superiore (in negativo) si collocano invece secondo noi osservazioni del tipo: «Mathematics is the science that draws necessary conclusions)», di Benjamin Peirce[27], o la famosa definizione di Bertand Russell: «Mathematics may be defined as the subject in which we never know what we are talking about, nor whether what we are saying is true»[28], le quali tutte non riescono a isolare nessuna delle caratteristiche precipue di questa materia.

 

3.

 

Prima di procedere oltre, sarà bene discutere tecnicamente, ovviamente con il senno del poi, dei due attributi fondamentali discreto e continuo[29], anche perché, per la nostra esperienza, essi non sono di solito ben spiegati negli usuali corsi di matematica (né nei libri che abbiamo avuto tra le mani in tanti anni di insegnamento). La confusione pare soprattutto d'obbligo quando si deve decidere di quale struttura i due termini devono essere considerati aggettivi qualificativi[30]. E' usuale trovare "continuo" riferito a insiemi (la cardinalità del continuo), o a spazi topologici (i connessi compatti), mentre la giusta categoria di competenza è per noi quella degli spazi ordinati, che indicheremo con il simbolo S0. Naturalmente, tali spazi hanno pure una struttura topologica naturale, mediante l'introduzione della topologia d'ordine, ma va notato che la relativa corrispondenza Ob(SO) ® Ob(Top), con simbolismo autoevidente (banale stenografia), non è funtoriale.

 

Def. 1 - Uno spazio ordinato è una coppia ordinata (X,r), formata da un insieme X e da una struttura d'ordine totale r su X (indicheremo spesso lo spazio ordinato con il solo simbolo X, e la struttura d'ordine con l'usuale simbolo £ ).

 

Def. 2 - Uno spazio ordinato X si dice discreto se soddisfa la proprietà:

- Per " x, y Î X, con x < y, esistono soltanto un numero finito di elementi z Î X tali che x < z < y.

 

Def. 3 - Uno spazio ordinato X si dice continuo se esso contiene almeno due elementi[31] e risulta ovunque non discreto, ossia se per il relativo ordine vige la seguente proprietà:

- Per " x, y Î X, con x < y, esiste almeno un elemento z Î X tale che x < z < y.

 

La precedente definizione di continuità (per la quale si usa invece abitualmente il termine "densità"[32]) ci sembra la più adeguata a illustrare l'intuizione di cui trattasi, anche se essa è ancora tanto lontana dal descrivere il "continuo geometrico" quanto vedremo nel prossimo paragrafo[33]. Cominciamo in questo ad occuparci del più semplice caso del discreto. E' evidente che in un siffatto spazio X con almeno due elementi, pur non essendo X necessariamente "bene ordinato", è sempre possibile introdurre la funzione "successivo" di un elemento x Î X, diverso dall'eventuale massimo di X, s : X' ® X (X' designando appunto X privato dell'eventuale massimo). In uno spazio continuo, che possiede certamente infiniti elementi, non è possibile parlare del successivo di un elemento.

 

Per gli spazi discreti vale il seguente facile:

 

Teorema 1 (classificazione del discreto). Ogni spazio discreto appartiene a una, e una soltanto, delle seguenti "famiglie":

(i) X è finito, ammette minimo e massimo (se non è vuoto), ed è isomorfo a un segmento iniziale[34] sn di N, con l'ordinamento indotto da quello naturale;

(ii) X è infinito, ammette minimo ma non massimo, ed è isomorfo a N;

(iii) X è infinito, ammette massimo ma non minimo, ed è anti-isomorfo a N[35];

(iv) X è infinito, non ammette né minimo né massimo, ed è isomorfo a Z[36].

 

[Allo stesso modo che per (i), neppure a (iv) si accompagna un analogo caso "duale", relativo alla presenza di un anti-isomorfismo che associa invece (ii) e (iii). E' chiara la motivazione di tale assenza nel caso finito, mentre nell'altro la ragione è da individuarsi nel fatto che i due spazi ordinati (Z,£) e (Z,£op) sono isomorfi, tramite la corrispondenza x ® -x. Ciò non si verifica per gli spazi (N,£) e (N,£op), che non sono isomorfi (il primo è un insieme bene ordinato, il secondo no).]

 

Dal teorema di classificazione si può ottenere un'informazione importante su uno spazio discreto X: esso è in ogni caso finito o numerabile. Inoltre, è bene ordinato se e soltanto se appartiene a una delle prime due famiglie (i) e (ii). Quando uno spazio ordinato è finito esso è sempre bene ordinato e discreto, e tanto isomorfo quanto anti-isomorfo a uno "spazio canonico" sn (va da sé, con l'ordinamento naturale indotto dall'ordinamento naturale di N).

 

A nostro parere la retta temporale Q viene "intuita" come uno spazio discreto del tipo (iv), ma ogni famiglia elencata nel teorema di classificazione appare comunque collegata alla nozione comune di "tempo". Spazi discreti del tipo (ii) corrispondono alla descrizione del futuro, quelli del tipo (iii) del passato, mentre (iv) raffigurerebbe, ripetiamo, tutto il tempo, passato e futuro. Anche il caso (i) (prescindendo dall'insieme vuoto, che costituisce una struttura a sé, sempre un po' particolare: il non-tempo, o la non-vita) ammette un'interpretazione temporale, rappresentando gli istanti di una singola esistenza (limitata). Il singleton s1 potrebbe considerarsi un "modello" dell'istante presente, laddove s2 avrebbe la medesima funzione per il minimo segmento temporale, ma di tutto ciò parleremo meglio nel paragrafo 8.

 

Più difficile è ovviamente la discussione degli spazi continui, perché non esiste una loro classificazione semplice come la precedente. La retta ordinaria R, con uno dei due suoi ordinamenti naturali (versi) è sicuramente un continuo privo di minimo e di massimo, ma si sa bene oggi, grazie ai celebri lavori di Cantor sulla teoria degli insiemi, che esistono altri simili continui ad essa non isomorfi[37]. Vale la pena dedicare alla circostanza qualche attenzione, anche perché esprimeremo considerazioni diverse da quelle usuali nel presente contesto.

 

4.

 

Partiamo dalla retta ordinaria R. Essa non è uno spazio ordinato in modo naturale, in quanto ammette due ordinamenti (tra loro opposti), o versi di R, che possono dirsi entrambi "naturali". Sceltone arbitrariamente uno, R potrà essere considerata uno spazio ordinato ("retta orientata"), ed è chiaro che tale spazio viene concepito come un continuo privo di minimo e di massimo. Scelti due punti distinti a, b Î R, e supposto per esempio a < b nell'ordinamento fissato, il "punto medio" m del segmento  = {x Î R ê a £ x £ b}[38] è infatti tale che a < m < b.

 

Si introduca adesso il sottoinsieme D(a,b) di R costituito da detto punto medio, poi dai punti medi m', m'' rispettivamente dei segmenti , , etc., considerando cioè i nuovi punti medi dei segmenti , , , , e così via (D sta palesemente per l'iniziale greca di dicotomia). Ecco che abbiamo a che fare con uno spazio ordinato, privo di minimo e di massimo (a e b non sono elementi di D(a,b)), che non è discreto, anzi è continuo. E' però manifestamente un continuo numerabile, potendosi per esempio scegliere la sua numerazione m, m', m'', punto medio di ,... . Addirittura D(a,b) risulta in qualche modo l'unico continuo numerabile (a meno di isomorfismi in SO; parleremo di morfismi ed isomorfismi d'ordine), a norma del seguente:

 

Teorema 2 (classificazione del continuo numerabile). Ogni spazio continuo numerabile X privo di minimo e di massimo è isomorfo a D(a,b)[39].

 

Dim. Si introduca una numerazione x1, x2, x3, ... di X[40], e si costruisca il desiderato isomorfismo f : D(a,b) ® X in modo progressivo e costruttivo. Si ponga cioè:

 

f(m) = x1,

f(m') = primo elemento di X (nella data numerazione) che sta alla sinistra di x1

f(m'') = primo elemento di X che sta alla destra di x1

f(punto medio di ) = primo elemento di X che sta alla sinistra di f(m')

f(punto medio di ) = primo elemento di X compreso (in senso stretto) tra f(punto medio di ) e f(m)

etc..

 

La chiave della dimostrazione consiste nel fatto che tutti gli elementi di X vengono fuori prima o poi alla destra della precedente tabella, laddove tutti gli elementi di D(a,b) compaiono invece, "ordinatamente", alla sinistra, q.e.d..

 

[La precedente argomentazione dimostra che ad ogni numerazione di X si può univocamente associare un isomorfismo d'ordine tra D(a,b) e X, ossia che si può descrivere una corrispondenza F : IsoSet(N,X) ® IsoSO(D(a,b),X). E' evidente che F è suriettiva, e che un isomorfismo d'ordine non proviene da una sola numerazione. Per quanto riguarda la cardinalità del codominio di F, potremmo dedurre da qui che essa è non superiore a quella del dominio di F, che ha la potenza del continuo. Ciò era d'altronde chiaro a priori, indipendentemente dall'introduzione della corrispondenza F, dal momento che tale insieme si può pensare quale sottoinsieme di IsoSet(D(a,b),X), che ha la stessa cardinalità di IsoSet(N,X), o di AutSet(N,N). La cardinalità dell'insieme in parola è invero esattamente uguale alla potenza del continuo, come presto saremo in grado di stabilire.]

 

Prima di andare avanti, osserviamo che l'isomorfismo costruito nella precedente dimostrazione è ben lungi dall'essere unico, o in qualche misura "canonico". Per ogni numerazione di X se ne determina uno, e poiché i primi k elementi della numerazione, per un qualsiasi numero naturale k, possono essere scelti in modo assolutamente arbitrario, ecco che valgono allora teoremi del seguente tipo:

 

Teorema 3. Due continui di I specie X e Y, numerabili, senza minimo e senza massimo, non solo risultano sempre tra loro isomorfi, ma addirittura, comunque considerata una "catena" finita di elementi di X (ovvero, un insieme finito di k elementi di X tali che x1 < x2 <...< xk), e un'analoga catena finita di elementi di Y, y1 < y2 <...< yk, si può trovare un isomorfismo (d'ordine) tra X e Y soddisfacente alle condizioni f(x1) = y1, etc..

 

Ci sembra importante sottolineare che detta non canonicità impedisce di trasferire da uno spazio ordinato a un altro, seppure isomorfi, caratteristiche addizionali precipue della "natura" specifica degli elementi del primo, ma non del secondo. In un "generico" spazio continuo X, ammettiamo numerabile e senza minimo e massimo, non sarà possibile operare per esempio alcun "confronto naturale" tra segmenti (una struttura naturale di preordine su cui torneremo nel paragrafo 5), nonostante ciò si possa in D(a,b), e malgrado X sia ad esso isomorfo (ripetiamo, nella categoria SO). Allo stesso modo, in D(a,b) non si potrà introdurre una somma ancora "naturale" tra classi di equivalenza di segmenti (ed enunciare l'assioma archimedeo), sebbene ciò sia lecito per i segmenti di sottospazi di R che a D(a,b) risultano isomorfi in quanto numerabili. Del resto, a volte neanche un "isomorfismo canonico" consente una piena identificazione filosofica tra due strutture diverse, come vedremo in un caso paradigmatico nel paragrafo 8.

 

Osserviamo poi che il precedente teorema di classificazione non è un caso particolare di un teorema più generale, vale a dire, non si può formulare una simile affermazione per continui di cardinalità superiore al numerabile. In altre parole, lo scheletro della categoria SO, pur limitandosi al caso di spazi ordinati senza minimo e senza massimo, è assai "più grande" dello scheletro della categoria degli insiemi Set (i due scheletri coincidono soltanto per gli insiemi al più numerabili). Gli spazi Rn, per ogni numero naturale n, con l'ordinamento lessicografico, costituiscono sicuramente dei continui non numerabili, senza minimo e senza massimo, che risultano non isomorfi per valori distinti della "dimensione" n.

 

Tornando alla questione che più ci interessa, è chiaro che D(a,b) non esaurisce i punti del segmento aperto ]a,b[ (un simbolismo che è più usuale in Analisi matematica, quando si ha a che fare con numeri reali, anziché in Geometria), perché mancano per esempio i punti t', t'' risultanti dall'operazione di tricotomia del segmento , come illustrata nella seguente figura (che fa ricorso ad altre proprietà della retta, ma in special modo alla sua possibilità di immersione nel piano da dirsi pure ordinario; quindi, da caratteristiche della retta derivanti da proprietà della geometria piana).

(Figura 1)

 

[Vogliamo spiegare tale costruzione, anche perché si anticiperanno così alcune delle considerazioni che si dovranno fare nel paragrafo 5, dedicato alla descrizione del procedimento di misura che conduce al concetto di numero reale. Si considera un qualsiasi segmento  della retta ordinaria R (pensata immersa nel piano ordinario P come una sua retta arbitraria). Dal punto a si traccia la perpendicolare P alla retta R, e su questa perpendicolare si considera il segmento  uguale ad . Quindi lo si riporta tre volte di seguito, costruendo i segmenti , , . Sulla retta Q, perpendicolare ad R nel punto b, si considerano i punti b', b'', b''', corrispondenti rispettivamente di a', a'', a''' per proiezione perpendicolare. Si prende infine in esame la diagonale  del rettangolo abb'''a'''. Essa interseca il segmento  nel punto y', il segmento  nel punto y'', e le proiezioni perpendicolari di y', y'' sulla retta R, che abbiamo detto rispettivamente t' e t'', forniscono la desiderata "tricotomia" del segmento , ossia:  º  º  (il significato di tale "uguaglianza" º verrà spiegato appunto nel paragrafo 5), e ÈÈ =  (in altre parole, se sull'asse perpendicolare si rappresenta il numero intero n, su quello di partenza appare il suo inverso 1/n).]

 

Introdotto adesso il sottoinsieme W(a,b) del segmento  costituito da tutti i punti di ]a,b[ ottenibili per successive n-tomie del segmento  (per ogni numero naturale n ³ 2), è noto sin dai primordi della geometria greca che neppure W(a,b) esaurisce tutti i punti di ]a,b[. Però W(a,b) è anch'esso un continuo numerabile[41] privo di minimo e di massimo, sicché sarà sempre isomorfo a D(a,b) in virtù del teorema 2. Invece, l'intero ]a,b[, o l'intero R, due spazi manifestamente isomorfi in forza della costruzione delineata nella successiva figura, non sono isomorfi a D(a,b).

(Figura 2)

 

[Per il punto medio m di  si costruisce la semicirconferenza tangente C di centro c, iscritta al quadrato di lato . Dato un qualsiasi punto p all'interno del segmento, si determina il punto p* su C situato sulla retta verticale uscente da p. Infine, si costruisca p' Î R come illustrato, quale intersezione di R con la retta passante per c e per p*. E' evidente che, al variare di p all'interno di , il corrispondente punto p' descrive tutti i punti di R, ciascuno una volta sola. In particolare, m' = m; i punti tra m e b, b escluso, corrispondono a tutti quelli alla destra di m, come in figura; i punti tra a e m, a escluso, corrispondono a quelli alla sinistra di m[42].]

 

Questo appena enunciato è naturalmente il famoso teorema di non numerabilità di Cantor, al quale preferiamo però arrivare in una maniera differente dal solito "procedimento antidiagonale".

 

La retta ordinaria R (orientata) è un continuo che soddisfa il seguente intuitivo[43]:

 

PC - Postulato di completezza. Comunque assegnato un sottoinsieme L di R limitato (ossia, contenuto in un segmento di R), esiste un minimo segmento di R che lo contiene.

 

Il postulato si può naturalmente enunciare per qualsiasi spazio ordinato (anche non necessariamente continuo)[44], il quale allora potrà dirsi "completo", ed è ben noto che risulta equivalente agli altri seguenti "postulati", che enunciamo direttamente nel caso di R, come abbiamo fatto prima per PC.

 

PC2' - Dato un qualsiasi sottoinsieme non vuoto L' di punti di R che sia superiormente limitato, tale cioè che esista un maggiorante m per tutti i punti di L' (x < m, per ogni x Î L'), esso ammette un estremo superiore E(L), ovvero un minimo maggiorante (un maggiorante che sia più piccolo di ciascun maggiorante di L).

 

PC2'' - Analogo di PC2' per i sottoinsiemi L'' di R inferiormente limitati.

 

PC2 - Dato un qualsiasi sottoinsieme non vuoto limitato L di punti di R (un insieme L superiormente e inferiormente limitato), esso ammette sia un estremo superiore E(L), sia un estremo inferiore e(L).

 

Si sa bene oggi che si possono trovare numerose altre forme istruttive di PC. Per esempio, uno spazio continuo e completo è necessariamente connesso (nella topologia d'ordine associata), mentre viceversa uno spazio ordinato connesso è necessariamente continuo e completo se non è un singleton, o il vuoto[45]. Oppure, l'intersezione di una successione monotona decrescente  Ê  Ê ... di segmenti di R è certamente non vuota (un segmento di R, oppure un punto). Interessante è anche l'enunciato del postulato proposto da Dedekind: detta "lacuna" di uno spazio ordinato X una coppia ordinata (U,V) di sottospazi non vuoti e disgiunti di X, tali che U < V e UÈV = X, X riuscirà completo se e soltanto se non ammette lacune.

 

Ciò premesso, vale il seguente importante:

 

Teorema 4. Un continuo numerabile X non può mai soddisfare il postulato di completezza.

 

Dim. Supponiamo, senza restrizione di generalità, che X non abbia né minimo né massimo. Per il teorema di classificazione 2, esso sarà necessariamente isomorfo a D(a,b), ed è chiaro che D(a,b) non soddisfa il postulato di completezza. Per esempio, l'insieme di tutti i punti di D(a,b) che precedono il punto t' di cui alla figura 1, è superiormente limitato in D(a,b), ma non vi possiede manifestamente estremo superiore.

 

Corollario 5 (Teorema di non numerabilità). La retta ordinaria R non è numerabile.

 

Aggiungiamo un istruttivo commento. Dato un continuo numerabile X, supponiamo ancora senza minimo e senza massimo, abbiamo visto che si può costruire un isomorfismo f tra D(a,b) e X, ottenendo così una lacuna dello spazio X a partire dalla lacuna di D(a,b) corrispondente al punto t' della figura 1, diciamola (U°,V°): U° = {x Î D(a,b) ½ x < t'}, V° = {x Î D(a,b) ½ x > t'}. Orbene, al variare di f (o meglio, della numerazione di X che determina f) si dterminano in tal modo tutte le lacune di X. Data infatti una lacuna (U, V) di X, sia U che V saranno continui e numerabili, e pertanto isomorfi a D(a,b). Ma sono continui numerabili pure U°, V°, sicché potremo costruire isomorfismi d'ordine g, h rispettivamente tra U° e U, e tra V° e V. E' chiaro che, "combinando" tra loro g ed h, si ottiene un unico isomorfismo d'ordine f tra D(a,b) e X, il quale trasformerà la lacuna (U°,V°) di D(a,b) nella lacuna (U,V) di X, che era stata peraltro scelta in maniera arbitraria.

 

Ci sembra che il ragionamento precedente risponda perfettamente, e costruttivamente, alle domande: "Come mai un continuo numerabile presenta necessariamente lacune? Come si costruiscono tutte le relative lacune?", al punto che appare lecito affermare che ogni "intuizione dell'irrazionale", che è assolutamente connaturata a una dottrina trascendentale dello spazio, non è altro che una conseguenza della possibilità di effettuare ... la semplice tricotomia di un segmento di R[46]. Una verità questa che dovrebbe contribuire ad eliminare un po' dell'aureola di "mistero" che circonda i numeri irrazionali, a meno di non voler considerare "irrazionale", e quindi in qualche misura anti-intuitiva (una contraddizione in termini, dalla nostra prospettiva), l'operazione di tricotomia, in aggiunta a quella di dicotomia.

 

[Dal quanto sopra consegue anche che la corrispondenza tra AutSO(D(a,b),D(a,b)) e l'insieme ]a,b[-D(a,b), che associa a un automorfismo d'ordine f il punto che potremo chiamare f(t'), con leggero ma significativo abuso di linguaggio, è suriettiva, sicché AutSO(D(a,b),D(a,b)) deve avere potenza superiore al continuo, e quindi infine risultare uguale alla potenza del continuo, tenuto conto di quanto osservato in precedenza riguardo alla cardinalità dell'insieme IsoSet(D(a,b),X), che è la stessa di quella dell'insieme (gruppo) in discorso. Si applica qui naturalmente il teorema di Cantor-Dedekind-Schröder-Bernstein, con denominazione eccessiva ma storicamente esatta.]

 

Concludiamo il paragrafo constatando che neppure il "continuo completo" può ritenersi un continuo geometrico (o, se si preferisce, lineare), dal momento che con questa definizione siamo ancora lontani da un teorema di classificazione (o addirittura di unicità, se consideriamo la consueta ipotesi di assenza di minimo e di massimo). Esistono infatti tanti spazi continui e completi non reciprocamente isomorfi, anche con lo stesso cardinale[47], e la loro totalità ha cardinali crescenti[48]. Per raggiungere lo scopo, dovremo aggiungere a continuità e completezza per esempio la condizione che la topologia associata all'ordine sia separabile (ovvero, che esista un sottoinsieme al più numerabile Y Í X denso in X, tale cioè che ciascun elemento di X sia un punto di accumulazione di Y; parleremo in tal caso di uno "spazio ordinato separabile"). La topologia della retta ordinaria è separabile (una conseguenza del "postulato di Archimede": D(a,b) è denso in ), e si può finalmente dimostrare che sussiste il seguente:

 

Teorema 6 (classificazione del continuo geometrico). Uno spazio ordinato continuo, completo, separabile, privo di minimo e di massimo, è necessariamente isomorfo (in SO) alla retta ordinaria (orientata)[49]. In particolare, un siffatto spazio ha la potenza del continuo.

 

5.

 

Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. [...] Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto.

(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 2: 1-2, pp. 66-67)

 

Facciamo adesso un passo sostanzialmente indietro, cioè ritorniamo a un livello più semplice, mostrando come si possa pervenire a definire il concetto di numero reale nell'unico modo naturale, facendo cioè ricorso all'intuizione geometrica. Essa è stata "descritta" da Euclide, Hilbert, etc., ma mai in modo al tempo stesso "completo" e "adeguato". Scontata tale osservazione nel caso di Euclide (per entrambe le specificazioni: quanto alla completezza non si stenta a crederlo, ma troviamo non adeguata per esempio la sua enunciazione del V postulato), vedremo nel paragrafo 7 in che senso la riteniamo pertinente anche per Hilbert.

 

Utilizziamo il verbo descrivere perché (sarà ormai chiaro) per noi i "postulati", o gli "assiomi" (si tende oggi a non distinguere tra i due termini, o non si riesce a farlo come si converrebbe), sono semplicemente, almeno in un primo momento (cfr. ciò che se ne dirà in sede di conclusione), asserti "elementari" relativi a proprietà di enti concepiti in maniera "chiara e distinta" nel nostro pensiero. Un'eco della filosofia cartesiana ci sta bene, e del resto essa era presente nella definizione di insieme fornita da Cantor[50], circostanza di solito non messa in luce come si dovrebbe (infatti, vi si fa ricorso al principio delle idee chiare e distinte di Cartesio, e non a criteri linguistici, o formali):

 

«Unter einer "Menge" verstehen wir jede Zusammenfassung M von bestimmten wohlunterschiedenen Objekten m uns[e]rer Anschauung oder unseres Denkens (welche die "Elemente" von M genannt werden) zu einem Ganzen»[51].

 

Quanti punti ci sono sulla retta dipende quindi per esempio da quanti noi siamo in grado, o "costretti", a percepirne, spesso non immediatamente, ma in seguito a ragionamento (intervento di "giudizi analitici"), in conseguenza cioè di altre proprietà che si presentano assolutamente "necessarie" alla descrizione dell'ente quale esso "appare".

 

Veniamo adesso all'annunciata questione centrale di questa sezione, la costruzione geometrica dei numeri reali. Il punto di partenza è la retta ordinaria R, che adesso non sarà neppure necessario supporre orientata. Si introduce quindi l'insieme Seg(R) dei segmenti di R, i sottoinsiemi individuati da un'arbitraria coppia (non ordinata) di punti distinti, che si chiamano estremi del segmento. I segmenti sono sottoinsiemi della retta che, in quanto alla loro "natura", sono concepiti "rigidi", ma il termine non deve indurre in equivoco: non c'è nessun riferimento alla "realtà materiale", quella di cui si sta parlando è una "realtà ideale". Essi, come i punti, non sono manifestamente dei "numeri", sebbene si possano sempre "confrontare" tra loro, e in qualche caso (segmenti contigui, cioè con un solo vertice comune) "sommare". La possibilità della citata operazione di confronto si esplicita attraverso la constatazione che l'intuizione dello spazio riconosce in Seg(R) l'esistenza di una relazione r di preordine totale naturale[52], collegata alla relazione d'ordine non totale d'inclusione (inclusione insiemistica, di origine perciò puramente "logica") e al concetto di traslazione. Un segmento  sarà minore o uguale di un segmento  se esiste una traslazione t di R tale che t() è incluso in , mentre naturalmente una traslazione di R rimane definita come una particolare corrispondenza biunivoca t di R in sé (o, se si preferisce, un automorfismo di R in SO; si fissi adesso arbitrariamente un verso di R), che induce un morfismo d'ordine (automorfismo) anche in Seg(R):  £  Þ t() £ t(), per ogni coppia di segmenti di R. Cioè preordine totale naturale su Seg(R) e traslazioni sono concetti strettamente interconnessi, uno definisce l'altro, senza possibilità, ci sembra, di poter decidere quale dei due "venga prima". Dovendo scegliere, ci piace pensare che la nostra mente "veda" nel gruppo AutSO(R) un sottogruppo strettamente 1-transitivo grazie a cui effettua il riconoscimento di chi tra due segmenti sia "più piccolo" di un altro[53], sed de hoc satis.

 

La relazione di preordine appena descritta non è manifestamente una relazione d'ordine, e induce conseguentemente su Seg(R) una relazione d'equivalenza non banale (per la quale nel linguaggio comune, e della geometria classica, si usa il termine uguaglianza, che rischia l'introduzione di un ulteriore fraintendimento, data l'affinità semantica tra uguaglianza e identità), che permette di costruire il relativo insieme quoziente SR[54], i cui elementi diremo segmenti liberi (o astratti) di R. SR possiede adesso una relazione d'ordine naturale, ma il bello è che esso ammette anche una struttura algebrica naturale, che era finora assente da tutti gli enti geometrici considerati (che erano soltanto sostegni di strutture d'ordine e topologiche). Si può definire infatti la somma di due segmenti liberi semplicemente giustapponendo due loro rappresentanti, prendendone l'unione insiemistica, e infine la relativa classe di equivalenza: un'operazione mentale che corrisponde evidentemente alla "somma" di due "cammini", se si vuol fare un analogo nello spazio. SR è quindi il sostegno di un semigruppo (una struttura algebrica semplice la cui operazione richiediamo soddisfi unicamente la proprietà associativa) abeliano (additivamente scritto) alquanto particolare, che secondo noi riassume in sé tutte le proprietà geometriche delle quali abbiamo bisogno al fine di stabilire il procedimento di misura[55]. Tale semigruppo risulta assai "simile" ad N, poiché è privo di elemento neutro, regolare[56], ordinato[57], archimedeo[58], etc., con alcune differenze però fondamentali. N è un discreto, SR è un continuo; N ammette un minimo che genera l'intera struttura, SR non ammette minimo e generatore; conseguenze del fatto che SR viene ad essere concepito come un semigruppo divisibile (per ogni numero naturale n ed ogni segmento libero u, l'equazione nx = u ammette una e una sola soluzione x Î SR), mentre N ovviamente non è divisibile[59].

 

Finalmente, in che modo si effettua la misura per i segmenti liberi della "retta spaziale" (ma la stessa cosa sarebbe dire dello "spazio", cfr. la nota 55)? Considerato l'insieme delle coppie ordinate di segmenti liberi di R, in simboli SR´SR, e due di tali coppie, (u,v), (u',v'), tutto sta nel definire una relazione d'equivalenza mR in SR´SR che corrisponda all'idea linguisticamente espressa con le parole: u ha come misura rispetto a v la stessa di u' rispetto a v'.

 

La procedura logica è abbastanza naturale, tanto è vero che è la medesima utilizzata già da Euclide nel Libro V degli Elementi. Si itera u un certo numero arbitrario m di volte (m un elemento di N), analogamente v un certo numero n di volte, fino a produrre mu = u+u+... m volte, e nv = v+v+... n volte. Si fa altrettanto con u' e v' rispettivamente, in modo da produrre cioè pure mu' e nv'. Orbene, se risulta mu < nv, deve essere anche mu' < nv'; se risulta invece mu > nv, deve essere anche mu' > nv'; infine, se accade che sia mu = nv, deve essere anche mu' = nv'. Nell'ultimo caso u e v si dicono tra loro commensurabili, e la misura di u rispetto a v, in simboli  = classe di equivalenza della coppia ordinata (u,v), si può rappresentare semplicemente con la frazione , e si dice un numero reale razionale (ribadiamo che consideriamo sempre, per il momento, numeri positivi)[60].

 

Abbiamo ottenuto così che la totalità dei numeri reali positivi, indicata con il simbolo R+, è un ben preciso insieme quoziente di SR´SR, cioè: R+ Ì P(SR´SR), il relativo insieme delle parti (x =  non significa altro che (u,v) Î x). Potremo proporre cioè l'identità:

 

R+ = SR´SR/mR,

 

che individua R+ non soltanto a meno di isomorfismi, come sembrerebbe secondo taluni inevitabile[61]. Volendo, sarebbe lecito scrivere anche (con leggero abuso di notazione) mR : SR´SR ® R+, mR((u,v)) essendo la misura di u rispetto a v (nient'altro che la classe di equivalenza di (u,v) rispetto a mR). Vale a dire, i numeri reali positivi sono semplicemente frazioni geometriche, che hanno quali numeratore e denominatore degli elementi di SR[62].

 

E' ovvio che si potrà porre 1 = , 2 = , etc., qualunque sia u, cioè che esiste un'immersione naturale di N in R+, non tale però da costringerci a considerare i numeri naturali un caso particolare di numeri reali (su ciò ritorneremo nel paragrafo 8). Analogamente, si porrà  = ,  = , etc., ed ecco che anche Q+ si ottiene come un semplice sottoinsieme (proprio[63]) di R+. Ma, ribadiamo, R+ "nasce" tutto intero, e non per generazione dal basso. Insomma, il verso giusto è top ® down, e non down ® top, la valenza filosofica delle due impostazioni (le suggestioni concettuali da cui dipendono) non sfuggirà di certo al lettore.

 

Per riassumere, dunque, un punto non è un segmento, un segmento non è un segmento libero, un segmento libero non è un numero (reale positivo). Un numero è una classe di coppie ordinate di segmenti liberi. Una volta introdotto il relativo insieme, i passi successivi (non tutti ugualmente agevoli) sono (senza badare alla sequenza logica naturale, e senza pretese di completezza): la dimostrazione di un "lemma chiave", per provare che, nell'insieme delle frazioni che rappresentano un dato numero reale, ce n'è sempre una (e una soltanto) con numeratore o denominatore fissati in modo arbitrario; l'introduzione di una struttura d'ordine totale in R+; l'introduzione di una struttura algebrica interna di somma e di prodotto tra numeri reali, e di un prodotto esterno tra numeri reali e segmenti; l'illustrazione di un isomorfismo (canonico) tra i gruppi Aut(SR(+)) e R+(*), il gruppo moltiplicativo di R+, gli automorfismi in parola essendo inerenti alla categoria di competenza, che è quella dei semigruppi abeliani regolari ordinati; l'illustrazione di un isomorfismo (non canonico) tra i due semigruppi additivi R+(+) e SR(+); etc., fino a descrivere: il passaggio dai segmenti ai segmenti ordinati (orientati), e quindi dai segmenti liberi ai vettori; la somma di vettori come somma di cammini orientati (niente incomprensibile regola della diagonale, per cui si ricorre a volte a motivazioni ... fisiche); i numeri reali con segno quali rapporti di vettori, con denominatore non nullo; la regola dei segni -1*-1 = 1 (di solito esposta in maniera astratta, o assurda, prendendo il caso del prodotto ... di due debiti, o persino "intimidatoria"; il poeta Wystan Hugh Auden rammenta la canzoncina che gli insegnavano a scuola: «Minus times minus is plus / The reasons for this we need not discuss»); e così via, pervenendo da ultimo alla piena comprensione della struttura di campo ordinato archimedeo completo di R, all'introduzione degli spazi vettoriali reali V(R), ma anche V(P) e V(S)[64], all'interpretazione della dimensione geometrica mediante il concetto di base lineare, alla dimostrazione dell'isomorfismo (canonico) tra il gruppo abeliano additivo V(R)(+) e il gruppo abeliano moltiplicativo delle traslazioni di R, etc.. Le "coordinatizzazioni cartesiane" stabiliranno un insieme di isomorfismi (in SO) tra retta ordinaria (orientata) ed insieme dei numeri reali R, due insiemi che, pur risultando isomorfi, non saranno però canonicamente isomorfi: nessuna delle coordinatizzazioni di R può dirsi privilegiata rispetto a un'altra[65]. La confusione corrente tra spazio ordinario (geometrico) S e spazio numerico R3 (da stabilire poi se affine o vettoriale), è un ulteriore sintomo dell'attuale decadenza della "consapevolezza geometrica".

 

Ecco così rapidamente delineate le strutture portanti di un "programma" di Geometria, che non è seguito in nessun corso di cui sappiamo (tanto meno oggi con "modulini" tenuti da "professorini" diversi, perciò sostanzialmente "incoerenti" tra di loro; tutti sembrano poi avere premura di parlare di tensori di curvatura, gruppi di omotopia, invarianti delle varietà algebriche, saltando a pie' pari le "basi"), né in nessun libro che conosciamo.

 

6.

 

Prima di procedere oltre, sarà bene dedicare qualche commento a modi alternativi di introdurre il fondamentale concetto illustrato nel paragrafo precedente. E' ben noto come, verso l'ultimo terzo dell'Ottocento, sulla spinta delle interpretazioni metageometriche dell'"esistenza" di geometrie non euclidee, alcune "scuole", diventate presto maggioritarie, abbiano cercato di eliminare dalla nozione di numero reale ogni riferimento a proprietà ed enti di natura geometrica, considerati questi provenienti da un «momento intuitivo e vago della fondazione»[66]. Dopo una (conseguente e coerente) accentuazione del riduzionismo, concretizzatasi in una fase di "logicizzazione" della stessa aritmetica, tale tendenza fu la necessaria premessa ideologica all'enunciazione prima, e all'affermazione poi, del punto di vista denominato "formalista" nei fondamenti della matematica, che va addirittura al di là del monofondamento aritmetico[67], e costituisce ancora oggi la principale filosofia della matematica[68].

 

Nelle parole successive è chiaramente enunciato il programma della cosiddetta "aritmetizzazione dell'analisi": «concepire i numeri reali come strutture concettuali, invece che come grandezze intuitive ereditate dalla geometria euclidea»[69]. Un numero reale irrazionale diventa, secondo la visione aritmetizzante, o una particolare coppia ordinata di insiemi di numeri razionali (le lacune, o sezioni, di cui si diceva nel paragrafo 4), o una classe di equivalenza di particolari successioni di tali numeri, insomma qualcosa che presuppone a fondamento della propria "esistenza" un concetto di numero "più semplice" (con l'effetto, tra l'altro, che non si può a rigore neppure stabilire la relazione di inclusione Q Ì R, che invece nel nostro approccio è pienamente giustificata), laddove nella genesi geometrica da noi illustrata i numeri razionali "nascono" insieme ai numeri irrazionali senza alcuna differenza di "specie" tra i due tipi di grandezze.

 

L'intento "riduzionista" delle costruzioni in oggetto è evidente: secondo Corrado Mangione si tratta di «sostituire al continuo geometrico il continuo "aritmetico"» (loc. cit. nella nota 10, p. 361 corsivo nel testo; notiamo per inciso che l'espressione "continuo aritmetico" non ha per noi nessun senso). L'autore menzionato cita poi con compiacimento Bertrand Russell, quando ne I princìpi della matematica[70] sostiene il seguente discutibile punto di vista, espressione di un rozzo e superficiale anti-kantismo[71].

 

«Si supponeva un tempo, e qui sta la vera forza della filosofia della matematica di Kant, che la continuità avesse un riferimento essenziale allo spazio e al tempo [...] Secondo quest'ipotesi la filosofia dello spazio e del tempo precedeva quella della continuità [...] Tutto ciò è mutato per opera dei matematici moderni. Ciò che si chiama l'aritmetizzazione della matematica ha fatto vedere che tutti i problemi presentati, a questo riguardo, dallo spazio e dal tempo, sono già presenti nell'aritmetica pura. [...] [Sicché risulta ora possibile] dare una definizione generale di continuità, senza fare appello a quella massa di pregiudizi non analizzati che i kantiani chiamano "intuizione"» (cap. XXXII).

 

Quello che segue è un esempio dell'usuale interpretazione del lavoro di Dedekind[72].

 

«In the introduction to this paper he points out that the real number system can be developed from the natural numbers: "I see the whole of arithmetic as a necessary, or at least a natural, consequence of the simplest arithmetical act, of counting, and counting is nothing other that the successive creation of the infinite sequence of positive whole numbers in which each individual is defined in terms of the preceding one"».

 

Quest'unica "intuizione discreta" (tale è manifestamente il passaggio al "successivo"), cioè l'iterazione, sarebbe dunque a fondamento del continuo geometrico. Con riferimento alla concezione del matematico tedesco di un numero irrazionale quale una sezione del campo razionale, val la pena di sottolineare allora che la stessa precisa idea si trova già ... in Euclide! Né poteva essere altrimenti, dal momento che l'oggetto del pensiero che si sta descrivendo, cioè la retta geometrica R, è sempre lo stesso. Data infatti una coppia ordinata (u,v) di segmenti liberi corrispondente a un dato numero irrazionale, l'insieme N´N delle coppie ordinate di numeri naturali si ripartisce esattamente nell'insieme formato dalle coppie (m,n) tali che mu < nv (i.e., il "numero razionale"  >  appartiene alla classe superiore della sezione costituita dal numero irrazionale ), e dal suo complementare, ossia l'insieme delle coppie (m,n) tali che mu > nv (mu non potrà mai uguagliare nv per ipotesi).

 

La quinta definizione del libro V degli Elementi di Euclide[73] collega precisamente la misura di u rispetto a v con la menzionata "sezione" di N´N, nel senso che due coppie ordinate di segmenti tra loro incommensurabili individuano lo stesso numero irrazionale se e soltanto se ad esse rimane associata la medesima sezione. In termini per noi oggi più chiari, si può stabilire una corrispondenza naturale F tra (SR´SR)' (simbolo con cui indichiamo il sottoinsieme di SR´SR costituito dalle coppie di segmenti tra loro incommensurabili) e l'insieme delle sezioni di N´N, chiamiamolo Sez(N´N)[74], e la relazione di equivalenza mR non è altro che quella associata alla funzione F. Ne deriva che esiste un'immersione naturale dell'insieme dei numeri irrazionali in Sez(N´N), mentre, viceversa, il fatto che la funzione in parola sia pure suriettiva (ogni sezione corrisponda a un numero irrazionale), e quindi che F sia un isomorfismo (canonico), risulta una banale conseguenza di PC (per la verità, il caso inverso non è discusso esplicitamente in Euclide). Ovvero, i numeri reali secondo Euclide non sono esattamente le sezioni ma sono "isomorfi" alle sezioni, e l'autentica "origine" delle seconde rimane geometrica e non aritmetica. Con tale opinione siamo perfettamente in consonanza con alcune voci autorevoli citate nel seguente importante brano[75].

 

«Max Simon remarks (Euclid und die sechs plamimetrischen Bücher, p. 110), after Zeuthen, that Euclid's definition of equal ratios is word for word the same as Weierstrass' definition of equal numbers. So far from agreeing in the usual view that the Greeks saw in the irrational no number, Simon thinks it is clear from Eucl. V that they possessed a notion of number in all its generality as clearly defined as, nay almost identical with, Weierstrass' conception of it. Certain it is that there is an exact correspondence, almost coincidence, between Euclid's definition of equal ratios and the modern theory of irrationals due to Dedekind» (corsivi nel testo).

 

Sentendoci quindi autorizzati a ritenere l'approccio aritmetizzante soltanto apparentemente diverso da quello naturale geometrico, sottolineiamo che nel paragrafo precedente abbiamo utilizzato la descrizione offerta da Euclide per la fondamentale equivalenza mR in esame, che permette di stabilire quando due frazioni  e  sono uguali in termini dei segmenti che vi appaiono quali numeratori e denominatori. Pur non essendoci dubbi sulla correttezza contenutistica del procedimento che definisce in questa maniera l'insieme numerico dei reali (supponiamo ancora positivi), si potrebbe però volendo porre la questione se quella euclidea ne sia l'illustrazione più adeguata. Tale interrogativo venne formulato da Galileo Galilei, in un'opera pressoché ignorata[76]. Verso i suoi ultimi anni, lo scienziato dedicò infatti un breve scritto al Libro V degli Elementi di Euclide[77], fornendo degli spunti di meditazione che, in quanto a filosofia della matematica, o, se si preferisce, a didattica della matematica, possono essere considerati attuali anche ai giorni nostri (o meglio, specialmente ai giorni nostri!). Sinteticamente, per Galileo è in primo luogo evidente che il problema relativo al quando due coppie di grandezze debbano considerarsi tra loro proporzionali, pur appartenendo alla sfera di quei concetti che sono da ritenersi alla base di atti comuni ad ogni umano intelletto («avendo il lettore concepito già nell'intelletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze [...] mi sforzerò di secondare con la difinizione delle proporzioni il concetto universale degli uomini anche ineruditi nella geometria»), non possa essere riconosciuto come un dato primitivo ("immediato"), e sia invece necessario discuterlo con attenzione. Inoltre, l'autore pensa che la definizione proposta da Euclide, ancorché logicamente ineccepibile, non risponda completamente alle esigenze di chiarezza inerenti all'importanza della questione. Tutti e tre i protagonisti del dialogo galileiano confessano in effetti tale insoddisfazione: Sagredo («Questa e' una certa ambiguità che io o' sempre avuta nella mente intorno alla quinta difinizione del quinto libro d'Euclide [...] non restai con quella chiarezza che avrei desiderato nella predetta proposizione»); Simplicio («Non ebbi mai il più duro ostacolo di questo in quella poca di geometria che io studiai già nelle scuole da giovanetto»); e infine lo stesso Salviati-Galileo («Io poi confesso che per qualche anno dopo aver istudiato il V libro d'Euclide, restai involto con la mente nella stessa caligine»). Lo scienziato pisano applica allora alla definizione euclidea di proporzione un criterio che dovrebbe essere tenuto sempre presente (non solo in matematica), relativo alla necessità di operare una distinzione tra asserzioni le quali, pur "logicamente equivalenti", si presentino in una sequenza temporale naturale in momenti diversi della riflessione razionale, tanto da potersi considerare l'una come una derivazione dell'altra, ma non viceversa.

 

«Per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell'animo del lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche [...] Così fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand'anche così avesse detto, sarebbero state buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un'altra passione del cerchio, più intelligibile della precedente e più facile da formarsene concetto, chi non s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella più chiara e più evidente come difinizione, per cavar poi da essa quell'altre più recondite e dimostrarle come conclusioni?»[78].

 

Galileo si pone insomma, in relazione alla definizione V del Libro V degli Elementi di Euclide, sostanzialmente le stesse domande che più tardi formulerà in analoga circostanza De Morgan[79]:

 

«What right had Euclid, or any one else, to expect that the preceding most prolix and unwieldy statement should be received by the beginner as the definition of a relation the perception of which is one of the most common acts of his mind, since it is performed on every occasion where similarity or dissimilarity of figure is looked for or presents itself? If the preceding question should be clearly answered, how can the definition of proportion ever be used; or how is it possible to compare every one of the infinite number of multiples of A with every one of the multiples of B?».

 

Ma mentre De Morgan cercò soprattutto di chiarire, e quindi di giustificare, l'approccio euclideo alla questione[80], Galileo propose una propria definizione di uguali proporzioni da opporre a quella dell'antico maestro[81]. Non possiamo qui entrare in dettaglio su come Galileo «ritenne di correggere dal punto di vista didattico-intuitivo la definizione V»[82]. Basterà dire che egli illustra un procedimento che rimanda chiaramente, secondo noi, al concetto di "frazione continua"[83], ma ciò che rimane degno di nota è il fatto che egli fu spinto ad operare tale correzione, e che il suo tentativo stimola noi a distanza di secoli a comprendere le motivazioni che lo ispirarono (e ad imitare il suo coraggio nel discutere i "tabù" del proprio tempo - Zeitgeist). Così, vengono alla mente altre possibili descrizioni geometriche della relazione d'equivalenza mR, diverse sia da quella di Euclide sia da quella di Galileo. Accenniamo soltanto alla possibilità di appoggiarsi per la definizione di uguale proporzione alla geometria del piano (all'immersione cioè di R nel piano ordinario P) e al "teorema di Talete", che diverrebbe sotto questa prospettiva un criterio di proporzionalità e non un teorema.

(Figura 3)

 

La situazione dovrebbe essere trascendentalmente chiara. Date tre rette parallele R, S, T, e una comune perpendicolare P, si considerano i due segmenti  e  su P ( < ), e due segmenti arbitrari  e  su R (tali però che  < ,

 > ,  > ). Ci si chiede quando sussiste la relazione di proporzionalità  :  =  : . Basta riportare b' su S, ottenendo b'' (b'' è tale cioè che

 º ), tracciare la retta Q per a e b'', prendere l'intersezione c'' tra Q e T. La proporzione è soddisfatta, per definizione, se, e soltanto se, c'' coincide con il punto che si ottiene riportando c' su T (ossia,  º ). Non è difficile dimostrare che questo criterio "puramente geometrico" (e forse più vicino di tutti gli altri discussi a uno dei «most common acts» dell'intelletto umano) implica quello di Euclide, e ovviamente viceversa.

 

Con un siffatto approccio "statico", contrapposto al metodo che si potrebbe dire "dinamico" sia di Euclide che di Galileo, si esce dalla geometria della retta (che deve del resto essere concepita parte di un successivo momento di astrazione), per porre la questione dei fondamenti in relazione alle proprietà intuitive della geometria del piano (direttamente legate ai processi mentali attraverso il meccanismo della visione). Si ritrova per tale via, quale conseguenza abbastanza inaspettata, almeno per chi sia cresciuto nutrito dai "dogmi" del pensiero scientifico moderno, che la teoria delle parallele e il famoso V postulato di Euclide, più che l'aritmetica e la logica, giocano un ruolo importante anche nella genesi naturale del concetto di numero come misura. Una simile conclusione suggerisce un'ulteriore parentesi dedicata alle geometrie non euclidee, che sicuramente aleggiano a guisa di fantasmi dietro tutte le nostre considerazioni, smontandone a priori la stessa proponibilità.

 

7.

 

Prima di presentare la costruzione "gemella" di quella del paragrafo 5, cioè nel caso del tempo anziché dello spazio, operiamo l'annunciata incursione in un ambito alquanto lontano da quello oggetto della nostra indagine fondazionale, che risulterà però viepiù interessante, o almeno lo si spera, in quanto avrà l'effetto di evidenziare, come annunciato, alcuni dei motivi per cui riteniamo "non adeguata" la descrizione proposta da Hilbert nei Grundlagen der Geometrie[84](1899).

 

Rammentiamo che Hilbert introduce tre tipi di oggetti (punti, rette, piani), e che divide gli assiomi in 5 gruppi. Il primo consiste degli "Assiomi di collegamento" (o di appartenenza o di incidenza), il secondo comprende gli "Assiomi di ordinamento", il terzo gli "Assiomi di congruenza" (per segmenti e angoli). Nel quarto è presente un unico assioma, relativo al parallelismo[85], mentre nel quinto si trovano infine i cosiddetti "Assiomi di continuità" (il postulato di Archimede e quello che abbiamo chiamato di completezza nel paragrafo 5).

 

Il parallelismo assume quindi una collocazione del tutto a parte dagli altri assiomi, laddove si può invece secondo noi sostenere che esso appartiene agli assiomi di congruenza e continuità (un unico gruppo di assiomi), che dovrebbero peraltro stabilire quale punto di partenza l'esistenza della relazione di preordine naturale tra segmenti dello spazio ordinario di cui abbiamo parlato.

 

La forma del "V postulato di Euclide" che abbiamo in mente è suggerita da un'antica sua ... dimostrazione, che ci viene riferita da un commentatore arabo del IX secolo, al-Nirizi[86], il quale la riprende da un certo Aganis, un matematico greco sicuramente successivo a Proclo, di cui non sappiamo nulla di più[87].

 

Il disegno che segue schematizza il facile ragionamento che "dimostra", a nostro parere, perché l'intelletto umano "vede" il punto di intersezione tra la retta R e la semiretta T (R è una qualsiasi retta del piano ordinario, a un suo punto, P la perpendicolare ad R uscente da a, b un qualsiasi punto su P, distinto da a, S la perpendicolare a P uscente da b, T diciamo una semiretta, con vertice in b, "interna" alla semistriscia di cui in figura).

 

(Figura 4)

 

Esplicitiamo la semplice argomentazione. Sia x un qualsiasi punto della semiretta T, e x' la sua proiezione perpendicolare su P. Sia y un punto su T, susseguente ad x nel verso naturale di T (adesso esiste un unico verso naturale di T, che è una semiretta), tale che il segmento  sia uguale al segmento , e sia ancora y' la proiezione perpendicolare di y su P. "E' chiaro" che, così procedendo, si ottiene una successione di segmenti contigui di P, , , ..., la cui unione, per il postulato di Archimede, finirà a un certo momento per contenere il segmento . Come dire che esisterà un punto su P, nella figura è stato indicato con z', tale che  É . z' risulterà naturalmente la proiezione perpendicolare di un certo punto z Î T, ossia la perpendicolare per z' a P interseca T in z. La conclusione deriva dall'osservare che la retta R deve allora anch'essa intersecare la retta T (nella figura il relativo punto è stato indicato con c), dal momento che, "entrando" nel triangolo z'zb, essa ne deve pure "uscire"[88].

 

Facile comprendere perché la precedente dimostrazione non funzioni nel caso di una geometria non euclidea (iperbolica). Pur essendo i segmenti , , ... "uguali" (congruenti) per costruzione, non risultano tali le loro proiezioni perpendicolari su P, , , ..., anzi esse andranno forse (quando T non interseca R) progressivamente riducendosi in modo che la "serie" ÈÈ... converga (senza superare ), e non diverga. Facile pure comprendere però quale sia il "postulato" sottinteso che la mente umana applica nel riconoscere (anche inconsciamente) la validità del menzionato ragionamento. L'operazione di proiezione perpendicolare è compatibile con il preordine naturale dei segmenti (e quindi in particolare trasforma coppie di segmenti "uguali" in coppie di segmenti "uguali"). In parole più sofisticate, ecco il "V postulato" come si potrebbe-dovrebbe enunciare.

 

Assioma della parallela. Date due rette incidenti R e S (come in figura), detta

p : S ® R la proiezione perpendicolare della seconda sulla prima, p è un morfismo d'ordine (una volta che si siano scelti su R ed S versi "concordi") che induce un'applicazione p° tra Seg(S) e Seg(R), la quale è pure un morfismo d'ordine[89] (rispetto al preordine naturale di cui sono dotati tali insiemi).

 

(Figura 5)

 

Ossia, dati i quattro punti x, y, z, t su S come in figura, dalla  £  si deve poter dedurre, posto x' = p(x) etc., p°() =  £ p°() = .

 

Riteniamo infatti il precedente asserto propriamente inerente alla "natura" della retta, che non è soltanto la linea più breve tra due punti. E' appena il caso di aggiungere che, dato un segmento  Î Seg(S), si ha necessariamente:

 

p°() =  < [90],

 

e che il rapporto tra p°() e  è una costante che definisce il coseno dell'angolo a tra R ed S. Nel caso invece di una geometria iperbolica, avente curvatura K = , la precedente disuguaglianza rimane valida (la "contrazione" di una proiezione perpendicolare è un "teorema assoluto"), ma la relazione tra segmento proiettante e proiettato diventa assai più complicata. Se indichiamo con a il punto di intersezione tra S ed R, e con x, h le rispettive misure dei segmenti ,  rispetto a una comune unità di misura, sussiste, come noto, l'identità: tgh() = tgh()*cos(a), e se si raddoppia per esempio x, non risulta conseguentemente raddoppiato h (potremmo dire che una "retta" della geometria iperbolica non è "lineare"), la differenza tra tgh() e tgh()*cos(a) riuscendo uguale alla seguente complicata espressione:

 

tgh() -  - tgh()*cos(a) + *cos(a) =

= *cos(a) - .

 

Abbiamo riportato in maniera estremamente sintetica le nostre osservazioni, ma speriamo siano state lo stesso sufficienti a "illuminare" su possibili modi diversi di trattare l'intera questione dei "fondamenti della geometria"[91].

 


 

8.

 

Il tempo non è un concetto empirico, ricavato da una esperienza. La simultaneità o la successione non cadrebbe neppure nella percezione, se non vi fosse a priori a fondamento la rappresentazione del tempo. Solo se presupponiamo il tempo, è possibile rappresentarsi che qualcosa sia nello stesso tempo (simultaneamente), o in tempi diversi (successivamente). Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può rispetto ai fenomeni in generale, sopprimere il tempo, quantunque sia del tutto possibile toglier via dal tempo tutti i fenomeni. Il tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è possibile la realtà dei fenomeni. Questi possono sparir tutti, ma il tempo stesso (come condizione universale della loro possibilità), non può esser soppresso. [...] Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale, ma una forma pura dell'intuizione sensibile.

Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. [...] Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. [...] Il tempo è dunque unicamente condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione [...].

(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 4: 1-2-4; § 6: b-c, pp. 73-76)

 

In conclusione della parte "tecnica" del presente lavoro ci occupiamo del caso dell'aritmetica, e quindi, in accordo con il nostro punto di vista, del tempo, considerando pertanto per ultimo ciò che in realtà viene per primo, conformemente all'osservazione di Heidegger:

 

«Tutto ciò che è in senso essenziale [...] si mantiene ovunque nascosto quanto più a lungo possibile. Nondimeno, rispetto al suo vigere dispiegato, esso rimane quello che viene prima di tutto, cioè il più principale [...] ciò che, rispetto al suo sorgere e imporsi, è primo diventa manifesto solo più tardi a noi uomini. All'uomo, l'origine principale si mostra solo da ultimo»[92].

 

E' evidente ormai in che modo si possono costruire i perfetti analoghi dei ragionamenti presentati nel paragrafo 5 a partire però dalla retta temporale Q, che è uno spazio discreto (senza minimo e senza massimo), i cui elementi sono gli "istanti" (o "monadi di tempo"[93]).

 

Apriamo una breve parentesi per dire che siamo ben consapevoli che l'opinione secondo la quale l'intuizione del tempo sia discreta non è universalmente condivisa, ciò nonostante essa ci sembra l'unica soluzione possibile tenuto conto dell'"esperienza mentale", e di conferme offerte implicitamente dal linguaggio comune, in cui è lecito parlare di "istante successivo", mentre non ha alcun senso ovviamente parlare di "punto successivo" a uno dato[94]. Possiamo iniziare una panoramica di illustri opinioni contrarie alla nostra cominciando da quella di Aristotele:

 

«risulta necessario che anche il tempo sia continuo» (Fisica, VI, 4)[95],

 

passando poi per Bernhard Bolzano:

 

«Si deve, certo, convenire che due istanti qualsiasi sono separati da un insieme infinito di istanti tra essi compresi»[96],

 

e terminando con Hermann Weyl:

 

«Esempi particolarmente importanti di sistemi continui sono lo spazio e il tempo»[97].

 

Replichiamo in breve dicendo solamente che riteniamo simili pareri conseguenti a una "confusione" delle due forme spazio e tempo in una sola, come accade per esempio soprattutto in fisica (nella "pratica" della fisica), tramite la definizione di velocità. Essendo infatti questa grandezza uguale a spazio/tempo, ecco che sembra possibile derivare l'identità spazio = tempo, quando si ponga la velocità uguale a 1[98]. La conseguenza è che entrambi i termini vengono allora concepiti a tutti gli effetti riducibili (in quanto risultati di "misure") all'unico concetto di numero reale, dimenticando però in tal guisa: primo, che qualunque risultato di misura non può che essere un numero razionale; secondo, che se potrebbe avere senso parlare di una misura spaziale uguale a , o a p, ecco che appare assai meno sensata una frase del tipo "vediamoci fra p minuti".

 

In altre parole, è usuale imbattersi nella pretesa che R e Q siano "isomorfi" (come spazi ordinati), mentre la considerazione di un simile isomorfismo conduce secondo noi a manifesti "paradossi", tra i quali sono rimasti famosi nella storia della filosofia quelli di Zenone[99].

 

Lasciando da parte tale pur importante questione, procediamo con la costruzione che abbiamo in vista. Si introdurrà, speculare a Seg(R), l'insieme Seg(Q), facendo bene attenzione al fatto che un segmento temporale (se si preferisce: intervallo) dovrà contenere almeno due istanti, i suoi estremi, che rappresentano l'inizio e la fine di un qualsiasi "atto" (soprattutto: di pensiero). Anche adesso Seg(Q) risulta il supporto di una struttura naturale di preordine totale, la cui interpretazione è immediata: poiché ogni segmento temporale consiste di un numero finito di istanti, il segmento , avente per estremi due istanti distinti a, b, sarà minore o uguale di un altro simile segmento  se, e soltanto se, il numero (un numero naturale non inferiore a 2) degli istanti che lo compongono è minore o uguale del numero degli istanti che compongono .

 

E' chiaro quindi quale sia la relazione di equivalenza indotta su Seg(Q) da tale relazione di preordine, e che cosa diventi infine il relativo insieme quoziente, che indicheremo ovviamente con il simbolo SQ. Questo insieme sarà uno spazio ordinato discreto avente minimo ma non massimo, una struttura naturale di semigruppo abeliano (additivo) compatibile con l'ordine, etc.[100].

 

Insomma, in conformità alla filosofia che guida queste riflessioni, non si dovrebbe avere nessuna riserva nel proporre infine l'identità[101]:

 

N = SQ.

 

Il procedimento di misura corrisponde attualmente all'individuazione di una relazione d'equivalenza mQ in SQ´SQ che abbia le caratteristiche prescritte dall'intuizione temporale. Non c'è bisogno delle complicazioni in cui quella spaziale si è imbattuta nel caso di SR, dal momento che non esistono in SQ coppie di segmenti tra loro incommensurabili[102]. Perciò, verosimilmente, il procedimento di misura relativo alla retta temporale resta quasi inavvertito, fino al punto che può rimanere addirittura "invisibile", e come tale pure, benché fondamentale, la presenza di Q. E' comunque palese che si ottiene adesso, in perfetta analogia con l'identità precedente:

 

Q+ = SQ´SQ/mQ.

 

Ecco quindi che i numeri razionali compaiono sotto due aspetti: quantità (o grandezze) di natura temporale e di natura spaziale, coerentemente del resto con la possibilità (inevitabile?!) di "immergere" la retta temporale nella retta spaziale[103], come mostrato nella seguente figura.

 

(Figura 6)

 

A partire da due punti distinti, arbitrariamente scelti, a e b, si considera la sequenza b', b'', dei punti tali che  º  º  º ... , e l'analoga sequenza

-b, -b', -b'', ... dei punti "simmetrici" di quelli della prima rispetto al punto a. Si pensi se si vuole ad R ordinata nel verso in cui a precede b, cioè nella seguente figura da sinistra verso destra.

 

Si tratta di "banalità" sulle quali non insistiamo. Sottolineiamo invece che la differenza con il caso spaziale è evidente. Esiste adesso un minimo di SQ, l'unità, o "cronone"[104]. Essa genera per somma tutti i segmenti temporali (liberi). C'è quindi la possibilità di una "misura assoluta" di un segmento temporale, la misura rispetto a un cronone, che sarà sempre un numero naturale (un numero razionale "improprio"). Il cronone non è però l'istante, ed ecco spiegato (secondo noi) un equivoco perdurante. Quando si effettua la misura assoluta di un segmento temporale consistente di n istanti, il risultato non è n, bensì ... n-1, perché la somma di un segmento temporale costituito da m istanti con uno che ne contiene n, produce un segmento temporale consistente di m+n-1 istanti, e non m+n (come nel caso spaziale, per poter essere sommati due segmenti vanno traslati e pensati contigui, e quindi con un estremo in comune).

 

Sulla stessa linea di pensiero, nel momento in cui si va ad aggiungere al dato semigruppo SQ l'elemento neutro, lo zero, si deve procedere nel medesimo modo quando si aggiunge il vettore nullo a SR. Esso è un'unica classe di equivalenza di coppie ordinate di punti di R, la "diagonale" DR Ì R´R, l'insieme di tutte le coppie ordinate "equivalenti" (x,x) (x un qualsiasi punto di R)[105]. Lo zero aritmetico sarà analogamente l'insieme di tutte le coppie (a,a), dove a è un qualunque istante. In altre parole, non si può effettuare la misura di un segmento temporale  rispetto allo zero, che è un segmento temporale (libero) formato da un unico istante. Infatti, malgrado venga voglia di dire che il risultato di tale misura sia precisamente il numero naturale n di istanti contenuti in , la somma 0+0+... n volte fa sempre 0, e non [106].

 

Non ci dilunghiamo su una fenomenologia (dell'intelletto, e non dello spirito[107]) che ciascuno può elaborare da sé senza alcuna difficoltà, in quanto essa è in effetti semplice e ... antica, in conformità all'opinione che ciò che è vero non può essere nuovo, e ciò che è nuovo non può essere vero. Ci preme semmai:

 

1 - Sottolineare che, se ci si riflette bene, non siamo di fronte a nessun "giro vizioso", del tipo rilevato da Hilbert allorché «liquidò il programma logicista senza batter ciglio», nel suo intervento al III congresso internazionale dei matematici svoltosi ad Heidelberg nel 1904, obiettando sostanzialmente «che il lungo e complicato sviluppo della logica comportava già la presenza dei numeri interi, anche se non li nominava espressamente; per questa ragione il tentativo di costruire il concetto di numero sulla logica si riduceva a un ragionamento circolare»[108].

 

2 - Proporre un confronto tra la precedente costruzione e i tentativi di "riduzione" del concetto di numero naturale alla teoria degli insiemi, effettuati prima da Frege (un numero naturale come classe di insiemi finiti tra loro equipotenti), ma soprattutto da John (János, Johann) von Neumann.

 

Come ben noto, il secondo introdusse la serie degli "ordinali finiti" nel seguente modo[109]:

 

0 = Æ,

1 = {Æ},

2 = 1È{1} = {Æ,{Æ}} = {Æ,1} ={0,1},

3 = 2È{2} = {Æ,{Æ},{Æ,{Æ}}} = {Æ,1,2} = {0,1,2},

...

n + 1 = nÈ{n} = {0,….,n},

 

da cui, automaticamente, la catena di disuguaglianze:

 

0 < 1 < 2 < 3 < ...,

 

la quale si riduce non solo alla catena di inclusioni insiemistiche (i numeri sono insiemi!):

 

0 Ì 1 Ì 2 Ì 3 Ì ... ,

 

ma anche alla catena di appartenenze:

 

0 Î 1 Î 2 Î 3 Î ... .

 

Peccato però (per l'ideatore, e gli estimatori, di un simile "gioco", assolutamente lontano a nostro parere dall'autentica genesi mentale del concetto di numero), che la somma 1+1 non corrisponda all'unione insiemistica 1È1. Tale somma insiemistica, iterata a partire da un dato insieme, non può mai produrre nulla di nuovo, mentre 1+1+1+... produce tutti i numeri. La precedente costruzione dell'aritmetica propone, non troppo per scherzo, una fondazione basata soltanto sul concetto di insieme vuoto, e poiché l'aritmetica fonderebbe a sua volta la geometria, attraverso il concetto di numero reale costruito in maniera aritmetizzante, ecco che l'intera matematica verrebbe ad essere letteralmente fondata sul vuoto, il che rimanda all'affermazione di Kant citata in epigrafe al paragrafo 1. Riportiamo infine, come esempio del modo con cui viene interpretata (giustamente) la costruzione di von Neumann, alcune osservazioni di Edgar James Delpero[110] (che si collocano sulla sponda opposta alla nostra in quanto a "giudizi di valore", ma sono peraltro coerenti).

 

«Il nostro scopo dimostrativo è ricavare l'uno da zero, in altre parole il tutto dal nulla [...] La riduzione dell'aritmetica alla teoria degli insiemi, e dunque dei numeri al nulla, è stata compiuta da Gottlob Frege nel 1884, e semplificata da John von Neumann nel 1923. [..] Non c'è però nessun motivo per fermare la potenza generativa del nulla, che costruisce gratuitamente sostanza a partire dalla pura forma [...] Ovviamente, una volta innescato, il processo esplode in un Big Bang numerico che prosegue senza sosta, generando via a via infinit[i] sempre più complicati, benché tutti riducibili in ultima analisi al nulla»[111].

 

9.

 

Rideat me ista dicentem, qui non eos videt, et ego doleam ridentem me.

(Aurelio Agostino, Confessionum Libri Tredecim, L. X, 12)

 

Abbiamo esposto nei paragrafi precedenti i risultati di una "investigazione delle leggi dell'intelletto" relativa a un preteso duplice fondamento della matematica costituito dalle "intuizioni" contrapposte del discreto e del continuo, e alla genesi del concetto di numero mediante un'unica operazione di misura a partire o dalla retta temporale, o dalla retta spaziale. Tre sono dunque gli Urmengen, spazio, tempo, e se si vuole ... l'insieme vuoto, e di due diverse specie gli Urelementen, istanti e punti. Tale convinzione corrisponde alla seguente identità fondazionale (nel solito simbolismo autoesplicativo):

 

Ob°(Set) = {Æ, Q, S},

 

che volendo si può precisare in un senso più propriamente "matematico" nelle due "ipostatizzazioni":

 

Q Þ SQ , S Þ SS,

 

due semigruppi abbastanza simili ma non troppo, che ci sembrano l'espressione matematica delle forme pure kantiane.

 

In che modo interpretare allora gli sviluppi della matematica "post-moderna"[112]? Tutto da buttare via? (come riteneva forse verso la fine della vita Frege, che pure ne era stato inizialmente conquistato, tanto da parlare, e secondo noi non insensatamente, del sopravvento di un Morbus mathematicorum recens). Evidentemente no, fatto salvo che non si confonda il punto di arrivo (o una tappa successiva) con il punto di partenza di un "itinerario"[113] sempre più complesso, e che non si voglia riservare la caratteristica di "rigore" solamente ad alcune filosofie della matematica[114]. Queste parole rimandano a una concezione della materia come disciplina in "divenire". Nella fase iniziale-fondazionale essa è (non può non essere) una "investigazione delle leggi dell'intelletto"[115], e quindi non può uscire dai limiti dell'antropocentrismo. In una seguente essa si amplia fino a diventare lo «studio di tutte le possibilità di pensiero di una mente infinita»[116].

 

Si potrebbe obiettare che il "pragmatismo" di matrice anglosassone e il descritto "universalismo metafisico" siano agli antipodi, e quindi difficilmente proponibili a contrassegnare una medesima "scuola di pensiero". Eppure riteniamo che sia proprio così, e che non esista nessuna incoerenza nella loro compresenza nell'attuale comune concezione della matematica: i due estremi si possono infatti scambiare a piacere secondo le circostanze. Al contrario, la posizione da noi illustrata ci sembra individuare allora un aristotelico "medio proporzionale", e l'immagine ci fa piacere. Si noti del resto che tutte le definizioni di "categorie" di strutture sempre più generali, si fondano in ultima analisi su qualche proprietà delle strutture "esistenti" al primo livello (si rammenti l'osservazione di W. Kuyk riportata nella nota 30), in una corrispondenza che garantisce il tanto ricercato criterio di "non contraddittorietà" della matematica[117].

 

Volendo infine trovare per forza un appunto da muovere all'analisi kantiana della situazione, più che sulla descrizione e sul ruolo delle pure forme a priori spazio e tempo, esso ci pare potrebbe basarsi sul prosieguo della citazione apposta da Hilbert in epigrafe ai Grundlagen... (cfr. la nota 84).

 

«Quantunque, rispetto a tutti e tre questi elementi [intuizioni, concetti, idee], [la conoscenza umana] abbia fonti conoscitive a priori, che a prima vista paiano sdegnare i limiti di ogni esperienza, pure una critica compiuta ci convince, che ogni ragione non può mai, nell'uso speculativo, spingersi con questi elementi al di là del campo dell'esperienza possibile, e che la destinazione propria di questa suprema facoltà della conoscenza è di servirsi di tutti i metodi e dei loro principii per indagare nel suo intimo la natura secondo tutti i principii possibili di unità, tra cui quello dei fini è il più importante, ma non varcare mai quei limiti, di là dai quali per noi non c'è più se non lo spazio vuoto».

 

Ecco, forse qui Kant sottovaluta i limiti dell'esperienza possibile del pensiero (o dello "spirito"), e l'imperscrutabilità dei confini di quello di una "mente infinita", con qualche eco (negativa), ci sembra, dell'osservazione più tardi fatta propria da Hegel, in ordine a un'ipotizzabile coincidenza del reale e del razionale[118], il primo ambito essendo invece a nostro parere contenuto nel secondo[119], ma enormemente, riteniamo, di esso più "ristretto"[120], e con ciò crediamo che possa finalmente bastare...

 

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Umberto Bartocci, settembre 2005

Dipartimento di Matematica dell'Università degli Studi di Perugia

bartocci@cartesio-episteme.net

 

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(http://www.hkbu.edu.hk/~ppp/Kant_gallery.html)

 



[1] Qui ci riferiremo sempre all'edizione italiana in due volumi, Laterza, Bari, 1924, ristampa della seconda edizione (Classici della filosofia moderna a cura di Benedetto Croce e Giovanni Gentile), tradotta da Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice. D'ora in avanti semplicemente CRP.

[2] Mi riferisco principalmente alla situazione italiana, ma ritengo che essa sia più o meno simile a quella di altri paesi.

[3] L'effetto è che si comincia ... dalla fine, come si spiegherà meglio nell'ultimo paragrafo (appunto!).

[4] La prima opera di Darwin (vedi la nota 112) fu pubblicata nel 1859; al 1872 si debbono i primi contributi alla cosiddetta aritmetizzazione dell'analisi (vedi paragrafo 6).

[5] Carl B. Boyer, A History of Mathematics, John Wiley & Sons, New York, 1968; trad. it. Storia della matematica, I.S.E.D.I., Torino, 1976; Oscar Mondadori, Milano 1980, 1990, pp. 621-622.

[6] Dietro cui c'è purtroppo il pensiero di Gauss, che riteneva la geometria di origine empirica, e voleva verificare con esperimenti ottici se lo "spazio reale" fosse euclideo oppure no, a parte tutto così confondendo irreversibilmente le categorie del reale e del pensato (cfr. anche le note 93, 98, 104; a proposito delle opinioni filosofiche di Gauss cfr. la nota 71).

[7] Herbert Meschkowski, Mutamenti nel pensiero matematico, Boringhieri, Torino, 1973, p. 87.

[8] Lezioni su Kant, svolte presso l'Università di Torino tra il 1924 e il 1927; Feltrinelli, Milano, 1968, p. 47.

[9] Kant - Sechzehn Vorlesungen, gehalten an der Berliner Universität, 1904 (ripreso da Piero Martinetti, loc. cit. nella nota 8, p. 47). L'osservazione di Simmel ci sembra analoga a un'altra di Otto Liebmann, che spiega nel seguente modo l'«idealità trascendentale» dello spazio e del tempo: «essi sono e valgono solo nel mondo delle nostre rappresentazioni, per il nostro senso, e quello degli esseri simili a noi; [...] cessando di esistere questi, essi cessano di essere così come sono» (Kant und die Epigonen, Stuttgart 1865, rist. Berlin 1912; ancora da P. Martinetti, loc. cit., p. 42). Tali descrizioni rimangono naturalmente a distanza abissale dal chiarire le modalità fisiologiche con cui tali "forme pure" siano insediate nell'intelletto, anche se la moderna informatica comincia a farci comprendere qualcosa (analogia con un "sistema operativo", e quindi software, non hardware).

[10] Le ultime due citazioni provengono da Corrado Mangione, "La logica nel ventesimo secolo", in Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico, a cura di Ludovico Geymonat, vol. VIII, Garzanti, Milano, 1972; nuova edizione 1976, p. 199 e p. 247.

[11] A proposito di "rigore" in matematica si veda la nota 43. Il discorso sulla relatività sarebbe lungo, e non possiamo che rimandare ad altri lavori dell'autore reperibili nel sito http://www.cartesio-episteme.net/. Qui basterà rammentare che la relatività fu "santificata" prima delle sue (pretese) evidenze sperimentali, e che non deve essere trascurato il ruolo che svolsero nella sua costruzione e successo matematici puri quali Minkowski, Hilbert, Levi Civita, etc. («Physics in the shadow of Mathematics», scrive Lewis Pyenson, tra i pochi storici della scienza che si accorgono di tale circostanza, in The Young Einstein - The advent of relativity, Adam Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985, p. 101).

[12] Da un appunto contenuto nella minuta di una lettera privata che si è fortunatamente conservata, ed è riportato in John W. Dawson Jr, "L'accoglienza dei teoremi di incompletezza di Gödel" (in Gödel's Theorem in Focus, Stuart G. Shanker ed., Croom Helm, London, 1988; trad. it. Il teorema di Gödel: una messa a fuoco, Franco Muzzio, Padova, 1991).

[13] http://matematica.uni-bocconi.it/toth/toth3.htm. L'autore in parola dimostra anche piena consapevolezza del "valore filosofico" della matematica, che in epoca di imperante pragmatismo viene sovente messo in secondo piano: «mi sono reso conto fin dall'inizio che la matematica non si riduce al solo calcolo, alla risoluzione di problemi o al ragionamento deduttivo: benché essi siano sofisticati e degni di ammirazione, restano per me dei rompicapo, certo di alto livello, altissimo anche, ma sempre dei rompicapo».

[14] E' assai più dannosa l'incompletezza della storia che quella ... dell'aritmetica.

[15] Con tale impostazione intendiamo implicitamente alludere alla concezione della scientia, o della veritas, quale adaequatio, sia che si tratti di adaequatio intellectus et rei, secondo la nota definizione tomistica, o di adaequatio rei ad intellectum, secondo la definizione che ne dà invece Nicola Cusano. Il più comune riferimento alla definizione di S. Tommaso (che concerne la veritas, o veritas logica) rimanda alla Summa Theologiae, I, Quaestio XXI, De Iustitia et Misericordia Dei, Art. 2 («veritas consistit in adaequatione intellectus et rei»), oppure, nella stessa Parte I, alla Quaestio XVI, De Veritate, Art. 2 («Isaac [Isaac ben Solomon Israeli, medico e filosofo vissuto tra il IX e il X secolo.] dicit, in libro De Definitionibus, quod veritas est adaequatio rei et intellectus»). La chiara anticipazione kantiana di Cusano, che riguarda la scientia, si trova nel Compendium (10, 34:20-21). Non manca naturalmente chi suggerisce di modificare la definizione proposta dal filosofo di Küs, uno dei "padri della modernità", con: adaequatio intellectus ad rem, trovando l'altra di stampo eccessivamente antropocentrico. Ma è poi possibile, al di là di un certo banale limite, modificare il proprio "sistema operativo"? (cfr. la nota 9).

[16] Come si vedrà, però, la nostra procedura comprende anche una "spiegazione naturale" del significato del segno.

[17] "Untersuchungen über die Grundlagen der Mengenlehre I", Mathematischen Annalen, 65, 1908. L'articolo si trova anche in traduzione inglese, "Investigations in the foundations of set theory I", in From Frege to Gödel - A Source Book in Mathematical Logic, 1879-1931, edited by Jean van Heijenoort, Harvard University Press, 1967, pp. 199-215.

[18] Con l'effetto che l'unico "oggetto" privo di elementi in una moderna teoria degli insiemi è l'insieme vuoto, mentre gli insiemi in generale devono essere insiemi di "elementi", che non sono necessariamente insiemi. Ecco apparire in una veste precisa il "nichilismo" (metafisico, oppure ontologico, come si preferisce) a cui si accennava dianzi, ma ne riparleremo nel paragrafo 8, a proposito di von Neumann e della sua descrizione dell'aritmetica.

[19] Quello di retta è un termine forse inopportuno, ma viene utilizzato in mancanza di meglio per rimarcare almeno l'analogia unidimensionale (sottolineata pure da Kant, CRP, p. 73). Le distinzioni tra R e Q sono evidenti, ma mettiamone subito in evidenza una che rischia altrimenti di passare inosservata: R si può immergere nel piano e nello spazio, Q non ammette alcuna forma intuitiva di estensione (non replichiamo neppure a chi volesse porre l'"identità":

Q = R, e proponesse di conseguenza l'estensione R Ì R2, con x ® (x,0); cfr. la nota 99).

[20] Un chiarissimo accenno al duplice e "naturale" fondamento della matematica sulle intuizioni del discreto e del continuo che noi sceglieremo come chiave di volta di questo articolo, e che danno origine alle due distinte (sebbene interagenti) discipline chiamate aritmetica e geometria. Bisogna riconoscere però che Aristotele così prosegue: «Poniamo un'unica e identica scienza di tutte queste cose, la geometria», laddove noi useremmo invece il termine collettivo: "matematica". A proposito di matematica e di Aristotele, val forse la pena di ricordare che secondo Anatolio (vescovo di Laodicea, vissuto nella seconda metà del III secolo DC): «Perché la matematica è chiamata così? I Peripatetici [Ovvero, i seguaci di Aristotele.], che dicono che la retorica, la poesia e la musica popolare possono essere praticate anche senza essere studiate, ma che nessuno può capire le cose che vengono chiamate con il nome matematica senza averle prima studiate, rispondono che per questa ragione la teoria di queste cose è detta matematica» (vol. IV dell'Opera Omnia di Erone, Heronis Alexandrini Opera quae supersunt Omnia, Leipzig, 1899, 160.8-162.2; la citazione è ripresa da Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 222, in cui si informa che: «vari brani di Anatolio sono stati pubblicati con le opere di Erone perché erano nella raccolta bizantina che ci ha conservato le Definizioni di Erone»).

[21] Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, traduzione e note di Maria Timpanaro Cardini, Giardini, Pisa, 1978, p. 57.

[22] L'Instauratio Magna (1623), espressione di un progetto grandioso sin dal titolo, contiene, oltre al Novum organum sive indicia vera interpretatione naturae, anche De dignitate et augmentis scientiarum, ovvero The Two Books of Francis Bacon, of The Proficience and Advancement of Learning, Divine and Human (1605), da cui è ripresa la citazione in oggetto (Book 2, VIII, 2).

[23] Règles utiles et claires pour la direction de l'Esprit en la recherche de la Vérité, ovvero Regulae ad directionem ingenii (pubblicate per la prima volta nella versione integrale latina soltanto nel 1701, ad Amsterdam, negli Opuscula posthuma, physica et mathematica, costituenti il volume IX dell'Opera omnia del grande filosofo), Regola quarta.

[24] Loc. cit. nella nota 23.

[25] Mathematischen Schriften, ed. Gerhardt, 111, 53 (la citazione è ripresa da Federigo Enriques, Le matematiche nella storia e nella cultura, Lezioni pubblicate per cura di Attilio Frajese, Zanichelli, Bologna, 1938, p. 140).

[26] Anche Hermann Weyl, pur non seguendo un approccio kantiano, riconosce la dipendenza dell'aritmetica dal tempo: «Circa il rapporto in cui il numero si trova con lo spazio e il tempo, si può osservare che il tempo, come forma della pura consapevolezza, costituisce un presupposto essenziale, e non accidentale, delle operazioni mentali su cui si fonda il significato degli enunciati numerici»; «occorrono speciali considerazioni per assicurare il fatto fondamentale che il risultato del contare è indipendente dall'ordine» (Philosophie der Mathematik und Naturwissenschaft, 1928; Philosophy of Mathematics and Natural Science, Princeton University Press, 1949; trad. it. Filosofia della matematica e delle scienze naturali, Boringhieri, Torino, 1967, p. 44 e p. 41).

[27] Linear associative algebra, Washington, 1870, p. 1. In versioni preliminari del testo si trova scritto: «Mathematics is the science that draws inferences»; «Mathematics is the science that draws consequences». Poco più avanti (p. 3) l'autore afferma che: «Mathematics, as here defined, belongs to every enquiry; moral as well as physical. Even the rules of logic, by which it is rigidly bound could not be deduced without its aid».

[28] Che non era affatto una "battuta" in perfetto humor inglese come molti ritengono. Il pensiero si trova in "Recent Work on the Principles of Mathematics", International Monthly, 1901, vol. 4, p. 84. Russell propose in seguito la definizione: «Pure mathematics is the class of all the propositions wich have the form "p implies q" where p and q are propositions containing one or more variables, wich are the same in each proposition, and neither p nor q contains a single constant except the logical constants» (The Principles of Mathematics, 1903; cfr. la nota 70).

[29] Non useremo un ordine costante nel nominarli, anche se l'esistenza di un ordine naturale tra di essi potrebbe essere argomentata: il tempo-discreto verrebbe "prima", per una serie di considerazioni (se ne vedrà in seguito qualche esempio implicito) non basate esclusivamente su un criterio di "semplicità", cui allude già Proclo di Costantinopoli: «[Una scienza] che discende da ipotesi più semplici è più esatta di quella che deriva da principii più complessi, e quella che dice il "perché è così" è più esatta di quella che conosce solo il "che è così" [...] l'aritmetica è più esatta della geometria, perché i suoi principii si distinguono per la semplicità [...] e il principio dell'aritmetica è l'unità» (loc. cit. nella nota 21, Prologo, Parte II, Introduzione).

[30] Curioso riscontrare per esempio che in un intero libro intitolato Il discreto e il continuo (Willem Kuyk, Boringhieri, Torino, 1982), un'opera del resto interessante e alquanto avanzata dal punto di vista "tecnico", non è riportata nessuna delle definizioni ricercate (ci sembra, neppure quella topologica sopra menzionata), ma solo considerazioni di taglio insiemistico, assieme a un vago (ma in ogni caso secondo noi epistemologicamente corretto) accenno del tipo: «dopo aver formato, attraverso un complicato processo di apprendimento, i concetti di continuo (le "entità" geometriche) e di discreto (le "entità" dei numeri naturali), la mente umana gode di una grandissima libertà nell'operare con essi come "materiale base" per la costruzione di "strutture"» (p. 10). Né di più si rinverrebbe in Das Kontinuum - Kritische Untersuchungen über die Grundlagen der Analysis (Veit, Leipzig, 1918, e 1932; trad. it. Il continuo - Indagini critiche sui fondamenti dell'analisi, Bibliopolis, Napoli, 1977) di Hermann Weyl, nonostante il relativo capitolo II si intitoli "Il concetto di numero e il continuo - Fondamenti del calcolo infinitesimale", perché vi si fa unico riferimento all'uso cantoriano di attribuire il termine continuo alla totalità dei numeri reali. Quindi, occuparsi del continuo significa, da questa prospettiva, illustrare la successiva meticolosa costruzione di tali numeri. Una costruzione non geometrica, e pertanto secondo noi "non adeguata" (alle leggi dell'intelletto), cfr. la nota 15.

[31] Tale condizione è ovviamente introdotta al fine di evitare casi banali, di dover riconoscere cioè continuo il vuoto o un singleton.

[32] Cfr. per esempio Joseph G. Rosenstein, Linear Orderings, Academic Press, New York-London, 1982, p. 25.

[33] Citiamo l'opinione dello stesso Dedekind: «Le ultime parole illuminano chiaramente la via per la quale si può giungere a un campo continuo ampliando il campo discontinuo R dei numeri razionali» (Stetigkeit und irrationale Zahlen, Braunschweig, Vieweg & Sohn, 1872; Essenza e significato dei numeri, Continuità e numeri Irrazionali, traduzione di Oscar Zariski, A. Stock, Roma, 1926). Per noi, al contrario, il campo dei numeri razionali (che indicheremo con Q) non sarà "discontinuo", bensì continuo. Siamo di fronte a un esempio di quanto un differente "atteggiamento filosofico" possa influenzare la descrizione dei medesimi "fatti" matematici.

[34] Il segmento iniziale Sx di un insieme bene ordinato S individuato da un elemento x Î S è costituito da tutti gli elementi y Î S tali che y < x (la corrispondenza x ® Sx è un isomorfismo d'ordine, essendo l'insieme dei segmenti iniziali totalmente ordinato per inclusione). Noi chiamiamo sn, per ogni numero naturale n, il segmento iniziale Sn+1, di modo che n ® sn diventa una scelta canonica per un insieme con n elementi. Si può introdurre volendo anche l'insieme s0 = S1, allo scopo di includere pure il caso dell'insieme vuoto.

[35] Ovvero, è isomorfo allo spazio ordinato "opposto" di N, che è isomorfo a -N, l'insieme dei numeri interi negativi, con l'ordinamento ancora "naturale": ...< -3 < -2 < -1.

[36] L'insieme dei numeri interi relativi, con la struttura d'ordine naturale:

...< -3 < -2 < -1 < 0 < 1 < 2 < 3 <... .

[37] Si veda quanto se ne dirà nel paragrafo 4.

[38] E' ovvio che la nozione di segmento non dipende dal verso prescelto per R. Sottolineiamo che per noi un segmento, senza altre specificazioni, sarà sempre un sottoinsieme di R "chiuso" e "limitato".

[39] Il teorema in questione fu enunciato e dimostrato da Cantor, nel par. 9 dei "Beiträge zur Begründung der transfiniten Mengenlehre", Mathematischen Annalen, 46, 1895 (vedi la p. 304 dei Gesammelte Abhandlungen mathematischen und philosophischen Inhalts, Springer-Verlag, Berlin-Heidelberg-New York, 1980, o la p. 123 di Contributions to the founding of the theory of transfinite numbers, Open Court Publ., 1915; Dover Publ., New York, 1955). Esso si trova anche in Joseph G. Rosenstein, Linear Orderings, Academic Press, New York-London, 1982, pp. 26-27.

[40] E' appena il caso di sottolineare che tale numerazione non avrà nulla a che fare con l'ordine di X, vale a dire, non sarà vero in generale che x1 < x2 etc..

[41] E' questo il risultato del famoso teorema di numerabilità di Cantor.

[42] Abbiamo asserito che questo ragionamento è assai semplice. A chi volesse rilevare un anacronismo, obiettando che diventa tale soltanto con il senno del poi, vale a dire dopo i noti sviluppi dell'analisi cantoriana del concetto di infinito, replicheremmo che non sono tanto gli alti livelli raggiunti da certa matematica di fine ottocento a stupirci, quanto piuttosto la precedente arretratezza.

[43] Intuitivo secondo noi al pari del postulato sull'esistenza del punto medio, o della tricotomia. Sebbene enunciato con piena consapevolezza soltanto da Dedekind in una forma equivalente (Stetigkeit..., loc. cit. nella nota 33), non si può negare infatti che tale postulato sia un portato dell'intuizione ordinaria dello spazio, e che come tale ad esso sia stato fatto ricorso in gran parte delle argomentazioni geometriche precedenti ... il 1872 (ivi compreso ogni trattamento non formale, o non aritmetizzante, dei numeri reali). Il rischio altrimenti è di ritenere, e di indurre a ritenere, che antecedentemente alla fine del XIX secolo non esistesse matematica, o non esistesse matematica "rigorosa", includendo quindi nel numero dei "non rigorosi" anche Lagrange, Laplace, Cauchy, lo stesso Gauss, etc..

[44] Qui bisognerebbe aprire una parentesi terminologica, dal momento che è usuale indicare tale asserto pure come "postulato di continuità". Per noi la continuità rimane però quella della definizione N. 3, e uno spazio ordinato completo nel senso del presente PC potrebbe persino essere finito. Si pensi anche al caso dell'unione di due segmenti disgiunti di R, che non è uno spazio ordinato continuo, ma è completo.

[45] Si noti che la completezza non è altrettanto collegata alla proprietà topologica di compattezza. Un intervallo aperto di R è completo nella sua struttura d'ordine pur non essendo compatto. L'esempio lascia comprendere che la completezza non ha a che fare nel presente contesto con l'idea di "non estendibilità" in una struttura della medesima specie (e in relazione particolare a quella di partenza).

[46] Ci si potrebbe domandare quindi se detta intuizione abbisogni oppure no di argomentazioni geometriche pluridimensionali (tramite un'immersione di R nel piano ordinario P), con conseguenti considerazioni di diagonali di quadrati, di pentagoni regolari, etc.. Essa appare in effetti esclusivamente inerente alle proprietà dell'ordine 1-dimensionale, anche se la "necessità" della tricotomia risulta evidente da considerazioni di geometria piana quali quelle espresse nell'illustrazione della figura 1. Omettiamo considerazioni pur interessanti sulla assoluta inadeguatezza del termine "irrazionale", come se certi enti del pensiero, quali punti, segmenti, e relative misure, non fossero pienamente razionali, o intuitivi, o i numeri reali detti appunto irrazionali non fossero anch'essi esattamente dei rapporti (ratio), naturalmente rapporti tra gli oggetti "giusti", e cioè segmenti. Ovvero, chissà mai perché dovrebbero essere rapporti tra numeri interi, e chissà mai perché si dovrebbe pretendere che due segmenti arbitrariamente assegnati abbiano un sottomultiplo comune, quando è assolutamente manifesto che "in generale" l'uno non sarà un multiplo intero dell'altro. Insomma, ci sembra che irrazionale, almeno nell'accezione semantica che è stata poi annessa a tale termine, non sia che una cattiva traduzione (lo studio della cui origine ci riporterebbe a scritti latini della prima cristianità, quali quelli di S. Agostino, o Magno Aurelio Cassiodoro; ma anche in questo caso la verità rischia di essere meno semplice di quanto non si ritenga comunemente, vedi quanto se ne dirà nella nota 102) dell'alogoV (alogos) o arrhtoV (arrhetos) degli antichi Greci, che noi preferiamo interpretare, piuttosto che come "privo di rapporto" (o addirittura "illogico"), semplicemente come inesprimibile in modo esaustivo in un determinato linguaggio. E' questo un punto che sottolinea una volta di più l'abisso che corre tra la categorie del "pensato" e del "parlato", tra i "nomi" e le "cose", comprendendo tra di esse le "cose ideali", cioè i "pensieri". La triade fondamentale entro cui si muove tutta l'esperienza umana è: reale, pensato, parlato.

[47] Si pensi per esempio, per ogni numero naturale n, agli spazi In ordinati con l'ordinamento lessicografico (I designa l'intervallo chiuso [0,1] di R). Si tratta di spazi che hanno tutti la potenza del continuo, ma non sono isomorfi per valori distinti della "dimensione" n (bastreà poi privarli del minimo e del massimo).

[48] Non si può quindi neppure asserire che uno spazio continuo e completo abbia necessariamente la "potenza del continuo". Si consideri infatti uno spazio del tipo Rw, ordinato con l'ordinamento lessicografico, ove w è un qualsiasi numero ordinale avente cardinale superiore al continuo. Rw è sicuramente un continuo, e il suo "completamento" (che si ottiene aggiungendo allo spazio di partenza tutte le sue lacune) è evidentemente un continuo completo di cardinalità "grande" quanto si vuole.

[49] Naturalmente, uno spazio del tipo in discorso sarà in generale isomorfo a uno e uno soltanto degli intervalli [0,1], [0,1), (0,1], (0,1), di R, a seconda che abbia rispettivamente massimo e minimo, minimo ma non massimo, etc..

[50] Nella prima parte dei "Beiträge..." citati nella nota 39.

[51] «Con il termine "insieme" noi intendiamo ogni raggruppamento M in un tutto di determinati e ben distinti oggetti m della nostra intuizione o del nostro pensiero (che saranno chiamati gli "elementi" di M)». Si noti tra l'altro che per il fondatore della teoria degli insiemi, conseguentemente, un insieme non è mai "concreto", in qualche assonanza d'idee con quello che si dirà nell'ultimo paragrafo in ordine a Urmengen e Urelementen.

[52] Non vale cioè la proprietà antisimmetrica, abbiamo solamente riflessività e transitività.

[53] Quindi, gli oggetti della geometria, spazio, piano e retta ordinari, sarebbero "sede" di diverse strutture naturali di G-spazio (G un sottogruppo dei rispettivi gruppi AutSet(S) etc.), come oggi si direbbe.

[54] La specificazione di cui all'indice in basso sarà chiara quando si introdurrà l'analogo semigruppo SQ, a partire dalla retta temporale Q.

[55] Si noti che non appare difficile trasportare al caso dello spazio intero, 3-dimensionale, le considerazioni sopra esposte, mediante l'introduzione di una più ricca fenomenologia di "movimenti rigidi" quali le rotazioni, con l'effetto di avere anche lì un insieme Seg(S), e un insieme quoziente che sarà palesemente "naturalmente isomorfo" a SR. Vale a dire SS @ SR, con simbolismo che ci pare autoesplicativo.

[56] Un semigruppo si dice regolare se in esso vale la regola di cancellazione, a destra e a sinistra.

[57] Un semigruppo (supponiamo pure abeliano e regolare, per evitare talune difficoltà tecniche) si dice ordinato se in esso è definita una relazione d'ordine totale £ soddisfacente la seguente proprietà: " x, x', y, y' Î A, (x £ x')Ù(y £ y') Þ x+y £ x'+y'.

[58] Un semigruppo abeliano regolare ordinato si dice archimedeo se esso risulta tanto positivamente quanto negativamente archimedeo, con ovvio (si spera) significato dei termini (un elemento x di un semigruppo abeliano regolare ordinato si dice positivo se x < x+x, e negativo se x > x+x). E' più comune trattare soltanto la teoria dei gruppi ordinati, in particolare dei gruppi ordinati archimedei, ma noi riteniamo che sia indispensabile conoscere anche solo i rudimenti della teoria nel caso dei semigruppi, per ragioni che in questo lavoro rimarranno sufficientemente evidenziate. Si noti che è possibile che un semigruppo abbia per esempio la parte positiva non archimedea e la parte negativa archimedea, o viceversa.

[59] Ci è inevitabile andare con la mente all'episodio delle due donne che ricorrono al giudizio del re biblico Salomone per l'attribuzione di un bambino, da ciascuna reclamato come proprio (I Re, 3:16-28). L'"uno" dell'aritmetica è un ente assolutamente indivisibile, a differenza dell'unità dei numeri razionali o reali, o di un segmento di R, che è "infinitamente suddivisibile". Anzi, potremmo asserire che nessun altro concetto ideale come quello di segmento sembra godere della proprietà che ogni parte ottenuta per suddivisioni successive è per sua stessa natura della medesima "specie" dell'elemento indiviso (l'osservazione è ispirata ad un'analoga di Edmund Husserl, Terza ricerca delle Logische Untersuchungen, 1900-1901, seconda edizione riveduta 1913, Sesta ricerca: 1921; trad. it. Ricerche logiche, due voll., Il Saggiatore, Milano, 1968; la Terza e Quarta ricerca sono apparse anche a sé, in L'intero e la parte, Il Saggiatore, Milano 1977).

[60] L'attenzione posta verso coppie di segmenti anche tra loro incommensurabili può essere considerata la novità all'origine della speculazione greca sulla geometria (razionalizzazione della geometria, o geometria di precisione), del tutto lontana dalle "applicazioni pratiche" che caratterizzano le matematiche elaborate da altre culture, almeno per quanto finora conosciuto.

[61] Per esempio Hermann Weyl: «Una scienza non può, nella individuazione e definizione del proprio campo di indagine, andare oltre una rappresentazione isomorfa di esso. In particolare, ogni scienza rimane del tutto indifferente circa l'essenza dei propri oggetti. [...] La nozione di isomorfismo segna la ovvia insormontabile frontiera della conoscenza» (loc. cit. nella nota 26, pp. 31-32). Tale passo meriterebbe una disanima ben più attenta di quanto non sia possibile fare qui. Noteremo soltanto che esso presuppone quale sola possibilità di riconoscimento degli enti oggetto della conoscenza una definizione assiomatico-formale, sicché rischia di dover essere inteso nel seguente modo: l'unica scienza è la matematica; la matematica è indifferente a questioni filosofiche essenziali quali la natura ideale dei propri oggetti di studio; l'unico modo di fare matematica è di rifiutare i concetti di Urmenge e Urelemente. Ben strano punto di vista per un "intuizionista", o almeno una persona che ha condiviso quelle posizioni, e in seguito è loro rimasta comunque vicina (cfr. pure la nota 97). Vero è che nella parte della citazione che abbiamo omesso Weyl riconosce la possibilità di un intervento della «diretta percezione intuitiva», aggiungendo subito però che «l'intuizione non è uno stato felice e ininterrotto etc.». Insomma, dobbiamo confessare che (anche nel presente caso) la "filosofia" di Weyl ci appare ambigua, e contraddittoria.

[62] Naturalmente, si potrà dar senso anche a frazioni geometriche che abbiano al numeratore e al denominatore dei segmenti ordinari, anziché liberi, passando semplicemente alle rispettive classi di equivalenza. E' manifesto però il vantaggio che si guadagna muovendosi, a livello di definizioni preliminari, in un ambiente dotato di una struttura algebrica.

[63] Che Q+ non coincida con R+ è conseguenza per esempio della non numerabilità della retta, visto che Q+ è un insieme numerabile, per il teorema di Cantor ricordato nella nota 41.

[64] Avendo in mente la nota 55, è appena il caso di sottolineare che alla SS @ SR non corrisponde però un'analoga V(S) @ V(R): la differenza tra segmenti e vettori (nel passaggio dai "vettori applicati" ai "vettori liberi" in ambiente pluridimensionale si utilizzano unicamente le traslazioni, e non pure le rotazioni) consiste anche in ciò.

[65] R non ha del resto singoli elementi privilegiati (tutti i punti sono "uguali" tra loro, un effetto secondo noi della transitività del gruppo delle traslazioni), mentre R sì. Allo stesso modo, Seg(R) e SR non hanno singoli elementi privilegiati, essenzialmente perché il citato gruppo degli automorfismi di SR agisce in maniera transitiva (strettamente 1-transitiva) su SR.

[66] Corrado Mangione, loc. cit. nella nota 10, p. 369. Non è detto naturalmente che questa sia l'autentica motivazione per esempio di Weierstrass: data la tradizionale rivalità tra Berlino e Göttingen, da dove spiravano i "venti nuovi" sotto l'influenza di Gauss (cfr. la nota 71), ci sarebbe da ritenere al contrario che l'aritmetizzazione sia stata piuttosto ... una reazione dell'Analisi per sottrarsi a una sgradita filosofia della Geometria (con il risultato di rendere però ancora più soddisfatti ... gli "avversari"). La tentazione di costruire invece un unico schema interpretativo progressivo appare invece irresistibile per la storiografia di qualsiasi orientamento ideologico (compreso il nostro).

[67] Le costruzioni di Dedekind, Cantor, etc., permangono quali "modelli" della teoria dei numeri reali, vale a dire, particolari "esempi" di campi ordinati archimedei completi, secondo linee di sviluppo che ci appaiono però "ambigue" sotto il profilo fondazionale, in quanto mescolanti senza esigenze di coerenza "filosofie" diverse: l'aritmetica non è "puramente formale".

[68] Gli entusiasti della "modernità" dimenticano però che una fondazione di tipo logico-insiemistico della matematica, se elimina apparentemente all'origine il riferimento a concetti che possono essere ritenuti di natura vagamente empirico-psicologica, indica perà come «basi più vere ed adeguate della nuova pratica matematica» (loc. cit. nella nota 10, p. 359) un terreno ben più infido della diretta percezione intuitiva degli enti della geometria ordinaria. Per usare una metafora di Hermann Weyl, «la roccia solida» sulla quale sembra fondato l'edificio della matematica è in realtà costituita da «sabbia» (Il Continuo.., loc. cit. nella nota 30, Introduzione).

[69] Carl B. Boyer, loc. cit. nella nota 5, p. 642. Ripetiamo il nostro leit motif: la rinuncia pregiudiziale al ruolo fondante dell'intuizione appare essere una caratteristica dominante sia della matematica che della fisica del XX secolo.

[70] Principles of Mathematics, 1903, da non confondersi con i successivi Principia Mathematica, scritti in collaborazione con Alfred North Whitehead, 1910-1913.

[71] Ci sembra di poter asserire che tale atteggiamento sia stato presente pure in Gauss (cfr. le note 6 e 66). In una lettera (1844) ad Heinrich Christian Schumacher, il grande geometra di Göttingen parla infatti dell'incompetenza matematica dei filosofi a lui contemporanei: «non vi fanno rizzare i capelli sulla testa con le loro definizioni?». Il giudizio negativo si estende anche ai tempi antichi (escludendo per fortuna Aristotele): «Leggete nella storia della filosofia antica quelle che i grandi uomini di quell'epoca, Platone ed altri (escludo Aristotele) davano come spiegazioni». Gauss peraltro non risparmia le sue critiche neppure a Kant: «anche con lo stesso Kant le cose non vanno molto meglio; secondo me, la sua distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche è una di quelle cose che cadono nella banalità o sono false». Russell sembra imitare ancora una volta il "maestro" dei matematici post-moderni (cfr. la nota 112) quando se ne esce con affermazioni del tipo: «I think philosophy has suffered four misfortunes in the world's history - Plato, Aristotle, Kant, and Hegel. If they were eliminated, philosophy would have done very well» (da una trasmissione radiofonica andata in onda durante il periodo in cui l'inglese stava scrivendo A History of Western Philosophy, 1945). La critica di Russell alla filosofia dello spazio di Kant consiste tutta in fondo sulla battuta che, se il grande filosofo prussiano fosse nato tra le montagne della Svizzera anziché nella piatta Königsberg, allora avrebbe senz'altro elaborato una teoria diversa! Non mancano echi di anti-kantismo neppure in Weyl (che sembra scrivere avendo ben presente la menzionata lettera di Gauss): «La distinzione kantiana fra i giudizi analitici e quelli sintetici è esposta in modo così oscuro da rendere quasi impossibile un confronto con il concetto preciso di validità formale nella logica matematica» (loc. cit. nella nota 26, p. 22). Il fatto è che Weyl si aspetta forse una "definizione" linguistica di concetti che le parole servono invece soltanto ad "evocare" nell'intelletto dell'interlocutore. Molto più interessante allora il già citato Michael Polanyi (§ 2) quando scrive: «we can know more than we can tell» (The Tacit Dimension, New York, Anchor Books, 1967). Una scontata replica rinnoverebbe le accuse di psicologismo e soggettivismo (in una simile occasione Alonzo Church ebbe a obiettare seccamente a Paul Finsler che: «questi concetti "restrittivi" hanno almeno il merito di essere comunicabili in modo rigoroso da una persona all'altra»; da J.W. Dawson Jr, loc. cit. nella nota 12), ma il punto di vista "trascendentale" ci sembra al di là dei detti limiti, comunque sempre preferibili al nudo e vuoto formalismo.

[72] http://www.math.uwaterloo.ca/~snburris/htdocs/scav/dedek/dedek.html. La citazione comprende un brano da Stetigkeit..., loc. cit. nella nota 33.

[73] Riportiamo per comodità del lettore (ma anche per apprezzare i vantaggi offerti dal moderno linguaggio simbolico) tale famosa definizione, secondo la traduzione che ne viene fornita in: The thirteen books of Euclid's Elements, Sir Thomas L. Heath, Dover Publications Inc., New York, 1956, vol. II, p. 114. «Magnitudes are said to be in the same ratio, the first to the second and the third to the fourth, when, if any equimultiples whatever be taken of the first and third, and any equimultiples whatever of the second and fourth, the former equimultiples alike exceed, are alike equal to, or alike fall short of, the latter equimultiples respectively taken in corresponding order».

[74] Che corrisponderà poi banalmente a Sez(Q+), tramite la suriezione naturale N´N ® Q+.

[75] Riportato nel testo citato nella nota 73, vol. II, p. 124.

[76] Anzi, secondo Lucio Lombardo Radice e Beniamino Segre, «La mentalità squisitamente operativa di Galileo si manifesta, per quel che riguarda la teoria delle proporzioni, in senso positivo nel "compasso", in senso negativo nel Principio di giornata aggiunta (giornata quinta) [...] E' una importante controprova del fatto che Galileo non ama le questioni critiche sottili, non ha la mentalità del matematico puro. Dal punto di vista della matematica teorica, infatti, una delle cose più belle è la definizione euclidea di proporzionalità [...] La definizione generale delle grandezze proporzionali proposta da Salviati è quanto mai insoddisfacente [...] In verità, non ci sembra neppure una definizione, perché in definitiva presuppone noto quel che si deve definire (implicito in quel "simile" non altrimenti definito)» ("Galileo e la matematica", in Saggi su Galileo Galilei, Comitato Nazionale per le manifestazioni celebrative del IV centenario della nascita di Galileo Galilei, Barbera, Firenze, 1967).

[77] Principio di giornata aggiunta (Giornata quinta) ai Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze, "Sopra le definizioni delle proporzioni d'Euclide". Faremo qui riferimento all'edizione Boringhieri, Torino, 1958.

[78] Naturalmente, per operare tale scelta (in senso letterale, quindi, un'operazione di "intelligenza", da inter + legere, con l'inter che rafforza l'idea di raccogliere, scegliere, presente in legere, oltre ovviamente al nostro "leggere", d'onde in latino il verbo intellegere, o anche intelligere; un'etimologia più discutibile propone invece intus + legere, cioè leggere, o guardare dentro, che riavvicinerebbe l'intelligenza all'intuizione, che una comune pseudoetimologia fa provenire da intus + ire, ossia andare dentro, mentre il termine deriva invece da intueor, intueri, ossia in + tueri, che vale "guardare dentro" - i romani rendevano l'idea anche con la perifrasi animo percipere, assai istruttiva dal nostro punto di vista) non si potrà fare ricorso a criteri esclusivamente matematici, come ben sottolinea Federigo Enriques in un suo ragguardevole passo: «Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di là delle stesse matematiche [...] Distinguere una logica della ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non è comune fra i matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione [...] La discussione sulle definizioni mostra in molti casi quale senso logico più largo venga ad assumere il giudizio razionale» (loc. cit. nella nota 25, p. 148).

[79] Loc. cit. nella nota 73, p. 122.

[80] Il brano infatti così prosegue: «To the first question we reply that not only is the test proposed by Euclid tolerably simple, when more closely examined, but that it is, or might be made to appear, an easy and natural consequence of those fundamental perceptions with which it may at first seem difficult to compare it».

[81] Non a caso Galileo prediligeva come geometra Archimede piuttosto che Euclide.

[82] Secondo Attilio Frajese, Attraverso la storia della matematica, Veschi, Roma, 1962, p. 158.

[83] Galileo effettua cioè una scelta meditata tra gli infiniti test proposti da Euclide, selezionandone una totalità ordinata "a una dimensione", che dà luogo a un procedimento convergente (tale caratteristica è più significativa, con il senno di poi, della prima, dal momento che il discreto pluridimensionale è sempre isomorfo al discreto 1-dimensionale, a norma del teorema di numerabilità di Cantor). Un procedimento tale cioè che, se arrestato (come è inevitabile nel caso di numeri irrazionali), conduce comunque a un risultato (razionale) vicino quanto si possa desiderare al numero reale considerato in partenza. Galileo mostra quindi nel contesto pure una chiara consapevolezza del concetto di limite.

[84] Traduzione italiana: Fondamenti della geometria (con i supplementi di Paul Bernays), Feltrinelli, Milano, 1970. Curioso notare che il lavoro di Hilbert si apre con una citazione di Kant, «So fängt denn alle menschliche Erkenntnis mit Anschauungen an, geht von da zu Begriffen un endigt mit Ideen» («Così, dunque, ogni conoscenza umana comincia con intuizioni, passa indi a concetti e finisce con idee», CRP, Dialettica Trascendentale, Appendice, Dello scopo finale della dialettica naturale della ragione umana, vol. II, p. 539), mentre poi tutto il successivo sviluppo si pone decisamente in direzione opposta al pensiero del grande concittadino dell'autore (Kant e Hilbert erano nati entrambi a Königsberg).

[85] Che viene enunciato nella forma: «Siano a una qualsiasi retta ed A un punto fuori di a: allora c'è, nel piano definito da A e da a, al massimo una retta che passa per A e che non interseca la a» (loc. cit. nella nota 84, p. 29; l'assioma in parola, unito a quelli di congruenza, stabilisce l'esistenza di una e una sola parallela ad a passante per A). Notiamo en passant che Hilbert usa una convenzione opposta alla nostra per l'uso di maiuscole e minuscole in relazione a rette e punti.

[86] Tale commento ci è noto attraverso la versione latina di Gerardo da Cremona. Per tali notizie ci riferiamo al bel testo di Roberto Bonola, La geometria non-euclidea - Esposizione storico-critica del suo sviluppo, Zanichelli, Bologna, 1906; Reprint 1975, pp. 6-11.

[87] Ci informa Bonola (loc. cit. nella nota 86) che secondo taluni studiosi egli va identificato con Gemino (matematico del I secolo AC nominato da Proclo), ma tale ipotesi è (secondo noi giustamente) rifiutata da altri.

[88] Tale asserto è oggi noto come "assioma di Pasch", dal nome del matematico tedesco Moritz Pasch che lavorò sui fondamenti della geometria, influenzando a quel che pare lo stesso Hilbert.

[89] Ovviamente, nella categoria degli spazi totalmente preordinati, di cui SO è una sottocategoria propria, ma "piena".

[90] Rammentiamo che, in una qualsiasi struttura di preordine, x < y significa x £ y, e y non minore o uguale di x (y non "equivalente" ad x), non basterebbe scrivere x ¹ y.

[91] Che, volendo distinguere, suggeriremmo di chiamare "geometria ordinaria", o "intuitiva", o "elementare", tutte specificazioni che preferiamo nettamente a "geometria euclidea". Sia perché questa espressione riconduce in qualche misura ad operazioni storico-filologiche estranee alle finalità in discussione, sia perché il termine viene oggi usato tecnicamente con riferimento a strutture di tipo metrico, mentre nello spazio ordinario non esiste alcuna metrica naturale, ma soltanto una classe di metriche "simili", dipendenti dalla scelta di un segmento che funga da unità di misura. La differenza sembra marginale, ma è invece secondo noi sostanziale: lo spazio ordinario non è descritto né dalle attuali definizioni di spazio affine (troppo generale) né di spazio (affine) euclideo (troppo restrittiva).

[92] "La questione della tecnica", in Martin Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976.

[93] Che potrebbero essere sensatamente contrapposte ad analoghe "monadi di spazio" (o "punti"), sia nella descrizione dello spazio ordinario (categoria del pensato), sia in una concezione "granulare" dello spazio fisico materiale (teoria dell'"etere discreto", nella categoria del reale; cfr. la nota 98).

[94] Il linguaggio ha comunque degli evidenti "limiti" in ordine a considerazioni di questo tipo, come si riconoscerà nella nota 106.

[95] Altra nostra importante divergenza con Aristotele è che il tempo non ci appare indissolubilmente legato al divenire della res extensa (il movimento, o il cambiamento), bensì a un fenomeno di natura spirituale, la "durata" dell'umana coscienza (caratterizzata in un senso cartesiano dal pensiero, o res cogitans).

[96] Paradoxien des Unendlichen, 1851, postumi; trad. it. I paradossi dell'infinito, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 69.

[97] Loc. cit. nella nota 26, p. 46. Strana in effetti, a nostro parere, tale affermazione, a fronte di quanto lo stesso autore aveva riconosciuto in relazione alla dipendenza concettuale tra aritmetica, ordine e tempo (cfr. ancora la nota 26).

[98] E' precisamente quello che si fa nella teoria della relatività ristretta, quando si pone uguale a 1 la velocità della luce. Il continuo quadridimensionale dello spazio-tempo di Minkowski-Einstein è secondo noi assolutamente non adeguato all'autentica natura di spazio e tempo, ma la questione ci porterebbe troppo al di là dei limiti del presente scritto. Diciamo soltanto che non vanno neppure confusi lo "spazio reale" e lo "spazio del pensiero", e che il primo ha presumibilmente una natura ... discreta, conformemente alla descrizione che ne viene offerta dalla fisica quantistica (cfr. la nota 93).

[99] Il non isomorfismo tra spazio e tempo (che del resto sono due forme pure, e non una sola), e il suo ruolo fondamentale in una "spiegazione" dei paradossi di Zenone assai diversa da quella corrente, è stato da noi ampiamente illustrato in un articolo reperibile in rete, "I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo" (Episteme, N. 8, settembre 2004), a cui non possiamo fare altro che rimandare il lettore interessato (avvertendo che naturalmente talune considerazioni in esso contenute sono state qui riprese).

[100] Le somiglianze e le differenze tra SR (o SS) e N sono state già illustrate nel paragrafo 5, e pertanto anche quelle tra SR e SQ.

[101] Una breve nota meriterebbe forse l'osservazione che una semiretta superiore di Q (chiusa o aperta non fa differenza) risulta ovviamente canonicamente isomorfa a SQ, ciò nondimeno la natura dei due enti non sembra tale da poterne proporre l'"identificazione" (il confronto e la somma di istanti non hanno senso, il confronto e la somma di segmenti liberi temporali sì; vero che si potrebbe associare a un istante il segmento che lo ammette come uno degli estremi, l'altro essendo l'"origine" della semiretta in questione, ma continuiamo malgrado tale possibilità a mantenere le nostre riserve sull'inopportunità di una confusione tra concetti la cui natura li rende chiaramente distinti alla nostra percezione).

[102] A meno di non voler chiamare adesso ... tra loro incommensurabili (e conseguentemente "irrazionale" il relativo "rapporto") due segmenti temporali liberi  e  (presi nell'ordine) tali che il primo non sia un multiplo intero del secondo. Ci sembra che si possa interpretare in questo modo un passo dei De Musica Libri Sex di S. Agostino, il che chiarirebbe (in un senso almeno per noi inaspettato) una questione cui si era accennato nella nota 46: «Appellemus ergo, si placet, illos qui inter se dimensi sunt, rationabiles; illos autem qui ea dimensione carent, irrationabiles» (L. I, 9). E' evidente infatti che tutto il discorso musicale verte sulla retta temporale, e non su quella spaziale.

[103] E' palese che tale possibilità è all'origine di quella "confusione metafisica" tra spazio e tempo alla quale stiamo cercando ... di resistere.

[104] Nulla a che vedere con il "cronone di Caldirola", o con questioni relative alla misura "fisica" del tempo, etc.. Ribadiamo (cfr. la nota 98) che non bisogna confondere la categoria del reale con quella del pensato.

[105] E' appena il caso di sottolineare che, nell'usuale procedimento di immersione del semigruppo abeliano regolare S in un gruppo, l'elemento neutro viene invece a corrispondere alla diagonale DS Ì S´S (omettiamo adesso per motivi tipografici la specificazione "R", che potrebbe del resto anche ben essere Q). E si potrebbe qui notare che, essendo S un gruppo abeliano regolare ordinato "totalmente positivo", si può costruire un ben preciso gruppo abeliano ordinato G quale risultato della "simmetrizzazione" di S, il quale non risulta però (non sapremmo dire quanto ciò sia a sorpresa) canonicamente isomorfo al gruppo V(R)(+), che in effetti non è un gruppo naturalmente ordinato, a meno che non si orienti R. Come dire pure, che mentre la simmetrizzazione Z di N è di uso comune, quella di S non lo è (come interpretare intuitivamente l'"opposto" di un segmento libero, se non si orienta R?). Sorvolando su tali sottigliezze, ci sembra però che, isomorfismi a parte (si rammenti la nota 61), la costruzione dello zero qui indicata sia la più "naturale" (ripetiamo, mediante il passaggio dai segmenti ai vettori applicati, e dai segmenti liberi ai vettori tout court). In ogni caso, quanto presentemente discusso appare essere all'origine di un'ulteriore notevole "confusione" (tra le altre da noi evidenziate), cioè quella tra segmenti temporali (liberi o no) e istanti (cfr. anche la nota 106).

[106] Bisogna riconoscere a questo proposito che il linguaggio comune utilizza espressioni quali "pensiamoci un istante", con ciò confondendo, a nostro parere, l'istante con il cronone, ossia il minimo segmento di SQ.

[107] Ci piace citare, sebbene non sia strettamente necessario, l'hegeliana "Scienza dell'esperienza della coscienza" (sottotitolo della Fenomenologia dello Spirito), un concetto che (si ritrova anche in Husserl ed) è in piena armonia con i nostri "dualismi". Può riconoscersi infatti che il tempo corrisponde in qualche modo allo spirito ("flusso" dell'umana coscienza), così come lo spazio alla materia, o meglio, a spirito e materia anch'essi in quanto "pensati", oggetti cioè di riflessione da parte dell'intelletto. Il tempo esprime una condizione necessaria per avere consapevolezza (pensata) della propria esistenza, nel "presente continuo" del cogito cartesiano è implicita la durata dell'atto (concordiamo con Cartesio nel ritenere l'estensione un attributo indispensabile della materia, mentre ci sembra che sia piuttosto il tempo, e non il pensiero, l'analogo attributo fondamentale dello spirito; del resto il filosofo francese riconosce che «ogni sostanza ha un attributo principale, [...] quello dell'anima è il pensiero, come l'estensione è quello del corpo», Principia Philosophiae, Parte I, N. 53). Per contro, lo spazio appare una condizione necessaria per l'esperienza del mondo esterno, della materia, della possibilità di concepire qualsiasi oggetto, o corpo, appunto "materiale". Ciò sommariamente premesso, non è allora assurdo congetturare che l'opposizione al dualismo spazio-tempo possa avere quale autentico obiettivo l'altro più profondo dualismo tra "materia" e "spirito". In altre parole, che sia siffatto ultimo dualismo quello che certo pensiero riduzionista post-moderno vuole eliminare.

[108] Morris Kline, Mathematics: The Loss of Certainty, Oxford University Press, 1980; trad. it. Matematica la perdita della certezza, Mondadori, Milano, 1985, pp. 268-269.

[109] "Zur Einführung der transfiniten Zahlen", Acta Litterarum ac Scientiarum Regiae Universitatis Hungaricae Francisco-Josephinae, Sectio Scientiarum Mathematicarum, 1923, 1, pp. 199-208. L'articolo si trova anche in traduzione inglese, "On the introduction of transfinite numbers", in From Frege to Gödel..., loc. cit. nella nota 17, pp. 346-354.

[110] In "Zero", reperibile alla pagina web: http://www.matematicamente.it/delpero/Zero.pdf.

[111] Avremmo da ridire sull'equiparazione del tentativo insiemistico di Frege con il nichilismo di von Neumann (la teoria degli insiemi in sé non è "nichilista"), e sull'affermazione che il procedimento in discussione si fonda esclusivamente sulla "pura forma".

[112] Con questo aggettivo ci piace indicare tutto il periodo dalla "rivoluzione darwinista" in poi, e quindi dal 1859, l'anno in cui fu pubblicata l'opera On the Origin of Species by Means of Natural Selection: or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life (in breve The Origin of Species), cui si aggiunse presto (1871) The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. Ribadiamo il nostro parere, l'influenza del darwinismo su certe concezioni, sia della matematica che della fisica, è appariscente.

[113] Un itinerario tanto della storia della "specie", quanto del singolo individuo, in conformità al principio per cui "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi" (un principio di origine darwinista, ma che si può usare altrettanto bene per alludere alla progressiva manifestazione dello "spirito" nel mondo, oppure, se si preferisce, della Vernunft in der Geschichte). Come dire che, dal punto di vista di una didattica adeguata, nella formazione di ogni "matematico" (in senso generico e non specialistico, poiché ciascun intelletto è in parte matematico, conformemente all'opinione di Frege: «Every good mathematician is at least half a philosopher, and every good philosopher is at least half a mathematician») bisognerà concedere tempo sufficiente al primo momento, pena la perdita di un'autentica comprensione di quello che si sta facendo (vedi anche la nota 115). Tale mancanza è, secondo la nostra esperienza, comune a tanti pur valenti matematici, come il provocatorio interrogativo di Leon Henkin sembra confermare: «Do mathematicians really know what they are talking about?» (titolo reperibile in rete di una sua recente conferenza). Non vogliamo aprire qui una parentesi sui "guasti" provocati dal pragmatismo di stampo anglo-sassone, ma è palese che la maggior parte dei matematici si accontenta oggi di avere una certa chiarezza degli oggetti da trattare tramite la brutale elencazione delle proprietà formali di cui essi godono, e poi di operare praticamente su di essi con il tanto apprezzato e ricercato "rigore formale". La questione della "natura" degli oggetti matematici viene pessimisticamente intesa dai più come un "capitolo vuoto" della filosofia della matematica. Si può lavorare in questa materia per un'intera vita senza formulare mai nessuna idea al riguardo, anzi sviluppare la convinzione che sia preferibile non interessarsi troppo a una questione che "non è matematica". Strano che persone altrimenti assai capaci sembrino accontentarsi di pseudo-spiegazioni, del tipo ignotum per ignotius, quali per esempio quella offerta da Ivan Niven (Numeri razionali e numeri irrazionali, Zanichelli, Bologna, 1965, p. 30): «un numero razionale è un numero che sia esprimibile come il rapporto di due interi». L'autore è in effetti di coloro che sostengono che: «Il miglior modo di imparare la matematica è facendo della matematica».

[114] Curioso per esempio che nella maggior parte dei testi che si occupano di queste cose si menzionino formalismo, intuizionismo, logicismo, etc., ma mai ... il "kantismo". La matematica post-moderna ha senz'altro apportato contributi essenziali alla chiarificazione dei fondamenti di questa disciplina, sebbene alla luce di una filosofia "non adeguata". Quanto avvenuto costringe a interrogarsi su come mai ciò abbia potuto verificarsi, e a porre il controfattuale storico se un peraltro motivato "immobilismo filosofico" (conforme all'opinione del logico tedesco Karl von Prantl, autore di una Geschichte der Logik im Abendlande in 4 volumi, 1885-1890, quale essa risulta dalla seguente indiretta citazione: «Immanuel Kant thought that there was nothing else to invent after the work of Aristotle, and a famous logic historian called Carl Prantl claimed that any logician who said anything new about logic was "confused, stupid or perverse"», http://www.answers.com/topic/aristotelian-logic) sarebbe stato in grado di produrre altrettanto.

[115] Con ovvio rimando all'opera An Investigation of the laws of thought di George Boole (1854). Se l'insegnamento della matematica non è conforme alle leggi dell'intelletto, ecco che essa continuerà a rimanere invisa ai più, che non vi si riconosceranno (ma questo non è ovviamente l'unico elemento per cui la matematica è detestata da molti).

[116] Secondo un'espressione del logico-matematico Gaisi Takeuti, citata in: Rudy Rucker, Infinity and the Mind - The Science and Philosophy of the Infinite, Birkhäuser, 1982, Prefazione.

[117] Che rimane appunto al di fuori di una concezione della matematica restrittivamente intesa (si rammentino le note 61 e 78): ma perché mai il campo d'azione del pensiero matematico dovrebbe essere limitato dai confini che alcuni filosofi "scettici" (almeno nei fatti) hanno preteso di imporgli, in un momento di "crisi" generale della scienza e dell'Europa?

[118] «Was vernünftig ist, das ist wirklich, während was wirklich ist, das ist vernünftig» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlin, 1820, Vorrede, § 17).

[119] E' questo un "principio" metafisico che appare bene illustrato dalle parole di Spinoza: «Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum» (Ethica Ordine Geometrico Demonstrata, Parte II, Prop. 7; tralasciamo ovviamente di discuterne le possibili molteplici interpretazioni), che viene messo in dubbio dalla fisica post-moderna (si rammenti la nota 112). Secondo il premio Nobel Richard P. Feynman: «What I am going to tell you about is what we teach our physics students [...] and you think I'm going to explain it to you so you can understand it? No, you are not going to be able to understand it. [...] It is my task to convince you not to turn away because you don't understand it. You see, my physics students don't understand it either. That is because I don't understand it. Nobody does. [...] It's a problem that physicists have learned to deal with: They've learned to realize that whether they like a theory or they don't like a theory is not the essential question. Rather, it is whether or not the theory gives predictions that agree with experiment. [...] The theory of quantum Electrodynamics describes Nature as absurd from the point of view of common sense. And it agrees full with experiment. So I hope you can accept Nature as She is - absurd» (QED - The strange theory of light and matter, Princeton University Press, 1985, pp. 9-10, corsivi nel testo).

[120] L'interpretazione del famoso pensiero esposto nella prefazione dei Lineamenti della Filosofia del Diritto (cfr. la nota 118) è una questione complessa, in cui non ardiamo addentrarci. Essa va quindi ben al di là di quella "letterale" da noi esaminata, che pure si prestava opportunamente alla citazione nel contesto in esame.