Che cos'è la
geometria?
Un tentativo
di ... ritorno alle origini,
dopo un secolo
di nichilismo ontologico
Summary - This paper tries to give
an answer to the question: "What is Geometry?", opposing Kant's
"transcendental" foundation of mathematics to more than one century
of "ontological nichilism".
1.
La colomba leggiera, mentre
nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare
che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria.
(Kant, Critica della ragion pura[1],
Introduzione)
Nell'accingerci a cercare di rispondere
all'interrogativo di cui in titolo, sopravviene pressante il dubbio se sia più
ardito tale tentativo, oppure ... aver formulato la domanda stessa. E' palese
infatti che, a partire dalla "rifondazione" della matematica iniziata
negli ultimi decenni del secolo XIX (con Dedekind, Cantor, Hilbert, etc.), la geometria abbia
progressivamente perduto ruolo e identità, al punto che è oggi diventato
persino difficile individuare una "tradizione" nel definire i
programmi dei corsi fondamentali di geometria per gli studenti di matematica[2].
Un primo corso di geometria tratta ormai usualmente di "algebra
lineare", e il cambiamento di denominazione è già di per sé eloquente[3].
Quando si passa a un successivo, una rapida ricognizione mostra che è presente
un ventaglio di opzioni che, invece di essere un omaggio alla molteplicità, è
chiaro segno di confusione, e incertezza. Troviamo, a seconda dei gusti,
elementi di topologia, di geometria algebrica, di geometria differenziale, di
teoria delle forme quadratiche e di algebra multilineare, di geometria
combinatoria, etc..
Tale spiacevole situazione è senz'altro conseguenza
della bufera che si è abbattuta sui fondamenti tradizionali della matematica
grazie al contributo delle grandi "stelle" oggi venerate nel
firmamento dei cultori della materia, sicché è davvero difficile resistere alla
relativa soggezione psicologica. Un'analisi completa della questione dovrebbe
comprendere pertanto uno studio (necessariamente critico, e non apologetico)
delle convinzioni filosofiche generali di quei personaggi, e della manifesta
influenza (negativa) esercitata su di essi dal darwinismo (si notino sospette
coincidenze di tempi[4]),
allo scopo di esplicitare le ragioni che renderebbero impossibile ai nostri
giorni, a detta dei più, riproporre la "medesima" risposta alla
domanda in titolo che sarebbe stata data da Aristotele, Cartesio e Kant.
Cioè, bisognerebbe:
A
- Discutere innanzitutto la corretta interpretazione epistemologica delle cosiddette
"geometrie non euclidee", che alquanto arditamente vengono definite
addirittura un "colpo mortale" inferto alla filosofia kantiana, e
costituiscono generalmente il "pretesto" utilizzato per
l'eliminazione del ruolo dell'intuizione
geometrica (in primis di questa,
poscia di ogni specie di intuizione; sull'etimologia del termine si veda la
nota 78) nei fondamenti.
«In
un certo senso possiamo affermare che la scoperta della geometria non euclidea
inferse un colpo mortale alla filosofia kantiana, paragonabile alle conseguenze
che la scoperta di grandezze incommensurabili ebbe per il pensiero pitagorico»[5].
Fa
eco a tale autentica "sciocchezza filosofica"[6]
il noto testo divulgativo di Herbert Meschkowski[7]:
«l'esistenza
della geometria non euclidea rende impossibile all'uomo moderno di restare
fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant».
Tra
l'altro, questi convincimenti nascono da un fraintendimento del pensiero di
Kant, come scrive bene Piero Martinetti[8]:
«Questo
ci permette di toccare di passaggio l'importante questione delle speculazioni
metageometriche che, secondo alcuni, hanno segnato la condanna definitiva della
teoria kantiana. [...] In realtà già Kant aveva preveduto una Scienza di tutte le forme possibili dello
spazio e spesso parla di altre forme possibili dell'intuizione. Ciò vuol
dire che le intuizioni pure non sono necessità logiche; sono necessarie per la
nostra intuizione, ma potrebbero esservene delle altre».
Troviamo assai illuminante al riguardo la
riflessione di Georg Simmel che Martinetti riporta a conferma della precedente
opinione[9].
«Gli assiomi geometrici sono così poco necessari
logicamente come la legge causale; si possono pensare spazi, e quindi
geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la
geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente
necessari per la nostra esperienza, perché essi solamente la costituiscono.
Helmholtz errò quindi completamente nel considerare la possibilità di
rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi
euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da
Kant affermato. Infatti l'apriorità kantiana significa solo universalità e
necessità per il mondo della nostra esperienza, una validità non logica,
assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie
anti-euclidee varrebbero a confutare l'apriorità dei nostri assiomi solo quando
qualcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio
pseudo-sferico, o a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale
non valesse l'assioma delle parallele».
B - Evidenziare l'insufficienza, a priori e a posteriori, dei tentativi fondazionali di logicisti, formalisti,
intuizionisti, etc., che apparentiamo
in un'unica categoria nella misura in cui essi sono tutti indebitamente
"riduzionisti", ovvero non aderenti a una descrizione dualistica della natura degli oggetti
matematici.
La nostra accezione del termine
"riduzionismo" sarà più chiara nel seguito, ma possiamo qualificare
subito con l'aggettivo "aritmetizzante" la caratteristica comune alle
fondazioni in oggetto, che vedono il fondamento solo nel tempo, e
nell'operazione meccanica di iterazione. Infatti anche per Brouwer, il
caposcuola dell'intuizionismo (sostantivo che sembrerebbe avvicinare al
kantismo almeno tale minoritaria prospettiva fondazionale), il fondamento della
matematica risiede in una «"sovraintuizione" dello scorrere continuo
del tempo», pur riconoscendo che:
«la matematica ha un contenuto suo proprio che le
proviene direttamente e senza mediazione dall'intuizione ed è come tale
indipendente tanto dall'esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione
logica. In questo senso, la logica non è che una veste che per scopi di
comunicazione viene imposta a
contenuti che ne sono del tutto indipendenti».
Pure Brouwer non sembra sfuggire all'influenza
dell'interpretazione impostasi sulle geometrie non euclidee, ma solo
successivamente alla pubblicazione dei relativi articoli di Klein ("Über
die sogennante Nicht-Euklidische Geometrie" Mathematischen Annalen, 1871, vol. 4; idem, Zweiter Aufsatz, vol. 6). Il ritardo di quasi mezzo secolo
con il quale la comunità matematica si avvede improvvisamente del "valore
filosofico" della loro "scoperta" è significativo.
«[secondo Brouwer] i principi della geometria non
[sono] "sintetici a priori", dal momento che a suo parere la mente
umana potrebbe applicare all'esperienza qualunque tipo di geometria essa
scegliesse. Gli unici veri principi a priori e sintetici sono collegati alla
"sovraintuizione" di cui si diceva prima nell'unità e nella pluralità
del tempo»[10].
C - Infine, e sembrerebbe fuori contesto, analizzare
l'influenza che in detta temperie ha esercitato il successo della teoria della
relatività, dal momento che è stata la sua affermazione, pur se molti
matematici non sembrano rendersene conto, l'elemento decisivo per il
consolidamento di un "pregiudizio filosofico" che riteniamo lecito
contestare, senza uscire dal campo del "rigore" scientifico[11].
Conviene terminare questa parte introduttiva con una
citazione che dovrebbe eliminare ogni scetticismo sull'effettiva presenza di
"pregiudizi" che hanno condizionato lo sviluppo della scienza fisica
e matematica nel XX secolo. Secondo Kurt Gödel, che ne fu indubbiamente
protagonista:
«a causa dei pregiudizi filosofici dell'epoca, ...
un concetto di verità matematica obiettiva ... era accolto con il massimo
sospetto e rifiutato da molti come privo di senso»[12].
Ci sembra interessante riportare al riguardo anche il
parere di Imre Toth, che riconosce la "natura politica" di certe
rivoluzioni, parlando in particolare proprio ... delle geometrie non euclidee.
«Questa presa di coscienza della sua libertà da
parte del soggetto trascendentale della Matematica non è un atto di invenzione
Matematica, come quello della scoperta di un teorema o della dimostrazione di
un teorema, ma è un atto principalmente politico. Ciò che si chiama la rivoluzione non euclidea fu dunque una
rivoluzione nel senso proprio della parola, cioè una rivoluzione di natura
politica»[13].
Sappiamo bene che si tratta di considerazioni
sgradevoli alle orecchie di molti colleghi, ma se non si decide di andare a
prendere in considerazione anche
siffatti elementi, ecco che la storiografia che ne scaturirà sarà
inevitabilmente incompleta[14],
e soprattutto "astratta".
2.
Tempo e spazio
sono pertanto due fonti del conoscere, dalle quali possono essere attinte a
priori varie conoscenze sintetiche, come segnatamente ce ne dà uno splendido
esempio la matematica pura, rispetto alla conoscenza dello spazio e dei suoi
rapporti. Essi cioè sono, tutte due, forme pure di tutte le intuizioni
sensibili; e così rendono possibili proposizioni sintetiche a priori.
(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 7, p.
79)
Non è naturalmente fattibile sviluppare i punti
precedenti, sia pure sommariamente, in un contesto limitato come il presente,
talché ci limiteremo ad accennare alle linee principali di una fondazione
dualistica della matematica, quindi, del duplice concetto di "numero",
basato sulle forme della ragione pura spazio
e tempo. Esse equivalgono
tecnicamente alla coppia di opposti (sorta di antinomia della ragione pura) continuo e discreto. Sarà infatti evidentemente opportuno rispondere alla
domanda più generale: "che cos'è la
matematica?", poiché soltanto dalla contemplazione dell'universale
sarà possibile comprendere meglio gli elementi antitetici che lo costituiscono,
e la conoscenza di uno di essi sarà accresciuta per contrasto da quella
dell'altro. Solamente così si potrà dare adeguato[15]
seguito all'interrogativo del titolo, che significa chiedere secondo noi cos'è
"metà" della matematica (la metà rimanente essendo evidentemente
l'aritmetica). Le due domande
capitali potrebbero essere allora riformulate in termini più tecnici nel
seguente modo:
- Che cos'è un numero reale? (indicheremo la loro
totalità con il consueto simbolo R,
anzi con R+, visto che ci
occuperemo principalmente di numeri positivi)[16].
- Che cos'è un numero naturale? (indicheremo la loro
totalità con il consueto simbolo N,
specificando che tra i numeri naturali non
includeremo lo zero).
Tanto per anticipare il nostro punto di vista, non
vogliamo con ciò significare che i "numeri" di queste due famiglie
siano per noi gli Urelementen (o le
relative totalità gli Urmengen),
conformemente alla significativa distinzione introdotta da Zermelo[17],
e troppo rapidamente "dimenticata" pure nell'esposizione di moderne
teorie degli insiemi che recano il suo nome, secondo approcci in cui si parla
solamente di "insiemi" e non anche di "elementi"[18].
Non proporremo neppure che una fondazione dualistica adeguata debba prendere le
mosse dalla considerazione di numeri
(sottinteso adesso: naturali) e punti,
ossia gli elementi di quello che chiameremo lo spazio ordinario, e denoteremo con il simbolo S. Tale
"concetto puro", dal quale deriva, per astrazione successiva, quello
di retta ordinaria, simbolo R
(attenzione a corsivi che indicheranno in alcune occasioni differenze
filosofiche rilevanti!), sarà sì uno dei nostri Urmengen, ma il secondo non sarà N, bensì un'inusuale, per quanto ne sappiamo, retta temporale, simbolo Q[19]. La prima corrisponderà
all'intuizione del continuo, la seconda all'intuizione del discreto. I numeri, delle due specie sopra citate,
detti anche numeri come misura e
numeri come quantità, proverranno in
realtà da un unico procedimento di "misura", applicato però una volta
ai segmenti (liberi) di R, un'altra
agli analoghi intervalli (liberi; o
segmenti temporali liberi) di Q. Insomma, alla base della
matematica punti e istanti, né il "nulla", né
"pure forme", né "combinazioni di segni", e neanche punti e
numeri, come afferma chi più si avvicina alla fondazione "perenne"
che cercheremo di descrivere.
La pertinenza dei seguenti pareri alla questione ci
sembra evidente. Si notino l'esteso arco di tempo che vanno a coprire, e la
loro repentina ... interruzione.
Cominciamo con Aristotele, secondo il quale (Metafisica, XI, 1061):
«Il matematico considera ciò che deriva
dall'astrazione. Egli [...] trattiene soltanto la quantità e il continuo, che
in certe cose ha una sola dimensione, in altre due, in altre tre, e considera
le proprietà di queste cose in quanto sono quantità e in quanto sono continue,
e non le considera sotto nessun altro rispetto»[20].
Passiamo
poi per un altro non matematico, Aurelio Agostino, che nei Confessionum Libri Tredecim coglie la differenza tra gli enti e il
linguaggio che li esprime assai meglio di quanto non abbiano saputo fare i
logicisti (nominalisti) cui accenneremo in fine di paragrafo (cfr. pure la nota
71). Lo stesso vale per la distanza abissale tra il "reale" e il
"pensato", sulla quale spesso torneremo, che pare rimanere
altrettanto fuori dalla portata del pensiero degli empiristi.
«La memoria contiene anche i rapporti e le
innumerevoli leggi dell'aritmetica e della geometria, senza che nessun senso
corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di
voce né di odore, né si gustano o si palpano. Udii i suoni delle parole che le
designano quando se ne discute, ma altro sono le parole, altro le cose: le
prime suonano diversamente in greco e in latino, le seconde non appartengono né
al greco né al latino né ad altra lingua. Vidi le linee sottilissime tracciate
dagli artigiani, simili a fili di ragnatela; ma altro sono le linee
geometriche, altro le loro rappresentazioni riferitemi dall'occhio della carne:
ognuno le conosce riconoscendole dentro di sé, senza pensare a un corpo
qualsiasi. Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo i numeri che
calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt'altra cosa. Non sono
nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente» (Libro
X, cap. XII).
Secondo Proclo di Costantinopoli[21]:
«[i Pitagorici] ben sapevano che tutta la mathesis
così chiamata, è una reminiscenza insita nelle anime, non venuta dal di fuori
come le immagini delle cose sensibili che s'imprimono nell'immaginazione [...]
come risvegliata dall'apparire di fatti, e sospinta dall'interno dalla stessa
riflessione rivolta in se stessa [...] Questa è dunque la mathesis:
reminiscenza delle idee eterne che sono nell'anima».
Passiamo poi direttamente a Bacone, che non è un
"matematico", ma che anche sulla matematica mostra di possedere delle
idee molto chiare.
«Mathematics is either pure or mixed. To the pure
belong the sciences employed about quantity wholly abstracted from matter and
physical axioms. This has two parts - geometry and arithmetic; the one
regarding continued, and the other discreet quantity [...] without the help of
mathematics many parts of nature could neither be sufficiently comprehended,
clearly demonstrated, and dexterously fitted for use»[22].
Insomma,
fin qui tutti riconoscono l'esistenza di una "logica primordiale", o
"matematica universale", nascosta tra le pieghe (a mo' di «tacit
knowledge», per usare un'espressione di Michael Polanyi; vedi la nota 71) di
qualunque formula o discorso scientifico-filosofico. Cartesio descrive nel
seguente modo[23] la
matematica che trascende come autentica "meta-matematica" quella
comune, la quale, impregnata della prima, ne assorbe i contorni semantici.
«E
quantunque io qui sia per dire molte cose intorno alle figure e ai numeri,
perché esempi tanto evidenti e tanto certi non si possono prendere da
nessun'altra disciplina, chiunque tuttavia avrà attentamente considerato il mio
intendimento, facilmente vedrà che qui niente ho pensato di meno che alla
matematica comune, ma che espongo una cert'altra disciplina, di cui quelle cose
sono involucro piuttosto che parti. Tale disciplina infatti deve contenere i
primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si
possono trar fuori da qualsiasi soggetto; e, a dirla apertamente, io son
persuaso che essa sia più importante di ogni altra cognizione a noi data
umanamente, essendo quella che è fonte di tutte le altre».
Ogni
sapienza, per quanto antica, continua un po' più avanti il filosofo francese,
non può farne a meno, essa è come l'anima per il corpo.
«Ma
pensando in seguito donde pertanto venisse che un tempo i primi autori della
filosofia non volessero ammettere allo studio della sapienza alcuno che non
avesse conoscenze di matematica, quasi che questa disciplina sembrasse più
facile di ogni altra e massimamente necessaria per ammaestrare e preparare la
mente alla conquista di altre scienze più importanti, ben mi accorsi che essi
conoscevano una specie di matematica molto diversa da quella comune ai nostri
tempi».
Ci sembra che, in relazione alla matematica,
Cartesio colga bene anche l'antinomia della ragione pura discreto (ordine, quantità)
/ continuo (misura) che ne è alla base:
«Toutes les sciences, qui ont pour but la recherche
de l'ordre et de la mesure se rapportent aux mathématiques»[24].
A una mathesis
universalis, ancora caratterizzata da un duplice fondamento, si riferisce
pure Leibnitz:
«Mathesis universalis est scientia de quantitate in
universum, seu de ratione aestimandi [...] hinc fit ut mathesis universalis sit
scientia de mensurae repetitione seu de numero»[25].
Terminiamo ovviamente con Kant, secondo la
presentazione che ne dà Piero Martinetti, e riassumiamo brevemente. Noi siamo
in possesso di verità universali e necessarie che valgono per la realtà che ci
è nota nell'esperienza (altrimenti non sarebbero conoscenze) e che tuttavia per
la loro natura ci rinviano a una fonte diversa dall'esperienza che la
trascende. Gli atti di conoscenza sono sempre atti di sintesi condizionati
dalla presenza di "elementi umani" che ne costituiscono
l'indispensabile supporto, sicché non possono mai pervenire a produrre una
«riproduzione ideale della realtà in un'unità logica perfetta», ma soltanto
«una forma simbolica e provvisoria dell'unità». Tempo e spazio sono forme
unificatrici a priori, alla cui azione congiunta si deve l'organizzazione della
realtà da parte dell'intelletto umano. La matematica è una costruzione
sintetica a priori, che:
«nasconde sotto vari nomi (postulati, assiomi,
definizioni, ecc.) queste intuizioni sintetiche che sono il suo vero punto di
partenza; né, traviata da preconcetti, è giunta in generale ancora a perfetta chiarezza
circa il loro numero e il loro contenuto» (loc.
cit. nella nota 8, p. 45).
E ancora:
«Al tempo corrisponde il calcolo (aritmetica) [...] allo spazio la geometria. Una scienza come la matematica [...] è costituita da
atti di sintesi a priori [...] cioè
di collegamenti intuitivi e necessari che sono il fondamento della nostra
visione delle cose nell'unità del tempo e dello spazio [...] Ogni atto di
conoscenza è [...] una sintesi; lo spirito ricostituisce nell'atto del
conoscere dai frammenti dispersi del senso l'unità della realtà ultima» (loc. cit. nella nota 8, p. 48)[26].
Ci pare si possa asserire
che viene riconosciuta così l'esistenza di talune "capacità" innate nell'intelletto umano,
riconducibili in ultima analisi al saper
fare di conto (studio della quantità,
collegata peraltro all'ordine), e al saper misurare (stabilire cioè
"rapporti" tra certi enti geometrici, grandezze, uno di essi fissato come unità di misura; e proprio dal
latino ratio, rapporto, vengono i
termini "ragione", "razionale").
Concludiamo questo excursus storico-filosofico sottolineando quanto appaiano modeste a
fronte delle precedenti le moderne descrizioni dell'attività matematica. Da
quelle "circolari" di natura sociologica, che si rifanno al concetto
(usato spesso a sproposito) di "comunità scientifica", secondo le
quali è matematica ciò che viene ritenuto tale dalla categoria di persone
individuate in un dato momento storico e in un dato "gruppo sociale",
come i "matematici", a quelle più o meno confuse, poetiche, o empiriche,
che "vedono" la matematica dispiegata nella struttura dell'universo,
o confondono la matematica con le sue applicazioni,
oppure perfino di matrice "filologica", giacché sapere per esempio
che per i Greci matematica significava "oggetto di studio e di
insegnamento" in nulla ancora ci illumina per i nostri scopi. Di livello
superiore (in negativo) si collocano invece secondo noi osservazioni del tipo:
«Mathematics is the science that draws necessary conclusions)», di Benjamin
Peirce[27],
o la famosa definizione di Bertand Russell: «Mathematics may be defined as the
subject in which we never know what we are talking about, nor whether what we
are saying is true»[28],
le quali tutte non riescono a isolare nessuna delle caratteristiche precipue di
questa materia.
3.
Prima di procedere oltre, sarà bene discutere
tecnicamente, ovviamente con il senno del poi, dei due attributi fondamentali
discreto e continuo[29],
anche perché, per la nostra esperienza, essi non sono di solito ben spiegati
negli usuali corsi di matematica (né nei libri che abbiamo avuto tra le mani in
tanti anni di insegnamento). La confusione pare soprattutto d'obbligo quando si
deve decidere di quale struttura i due termini devono essere considerati
aggettivi qualificativi[30].
E' usuale trovare "continuo" riferito a insiemi (la cardinalità del
continuo), o a spazi topologici (i connessi compatti), mentre la giusta categoria di competenza è per noi quella
degli spazi ordinati, che indicheremo
con il simbolo S0. Naturalmente, tali spazi hanno pure una struttura
topologica naturale, mediante l'introduzione della topologia d'ordine, ma va notato che la relativa corrispondenza Ob(SO)
® Ob(Top), con simbolismo autoevidente
(banale stenografia), non è
funtoriale.
Def. 1 - Uno spazio ordinato è una
coppia ordinata (X,r), formata da un insieme X e
da una struttura d'ordine totale r su X (indicheremo spesso lo spazio ordinato
con il solo simbolo X, e la struttura d'ordine con l'usuale simbolo £ ).
Def. 2 - Uno spazio ordinato X si
dice discreto se soddisfa la proprietà:
-
Per " x, y Î X, con x < y, esistono soltanto un numero
finito di elementi z Î X tali che x < z < y.
Def. 3 - Uno spazio ordinato X si
dice continuo se esso contiene almeno due elementi[31]
e risulta ovunque non discreto, ossia
se per il relativo ordine vige la seguente proprietà:
-
Per " x, y Î X, con x < y, esiste almeno un elemento z
Î X tale che x < z < y.
La
precedente definizione di continuità (per la quale si usa invece abitualmente
il termine "densità"[32])
ci sembra la più adeguata a illustrare l'intuizione di cui trattasi, anche se
essa è ancora tanto lontana dal descrivere il "continuo geometrico"
quanto vedremo nel prossimo paragrafo[33].
Cominciamo in questo ad occuparci del più semplice caso del discreto. E'
evidente che in un siffatto spazio X con almeno due elementi, pur non essendo X
necessariamente "bene ordinato", è sempre possibile introdurre la
funzione "successivo" di un elemento x Î X, diverso dall'eventuale
massimo di X, s : X' ® X (X' designando appunto X
privato dell'eventuale massimo). In uno spazio continuo, che possiede
certamente infiniti elementi, non è possibile parlare del successivo di un
elemento.
Per gli spazi discreti vale il seguente facile:
Teorema 1 (classificazione
del discreto).
Ogni spazio discreto appartiene a una, e una soltanto, delle seguenti
"famiglie":
(i)
X è finito, ammette minimo e massimo (se non è vuoto), ed è isomorfo a un
segmento iniziale[34]
sn di N, con l'ordinamento indotto da quello naturale;
(ii)
X è infinito, ammette minimo ma non massimo, ed è isomorfo a N;
(iii)
X è infinito, ammette massimo ma non minimo, ed è anti-isomorfo a N[35];
(iv)
X è infinito, non ammette né minimo né massimo, ed è isomorfo a Z[36].
[Allo stesso
modo che per (i), neppure a (iv) si accompagna un analogo caso
"duale", relativo alla presenza di un anti-isomorfismo che associa
invece (ii) e (iii). E' chiara la motivazione di tale assenza nel caso finito,
mentre nell'altro la ragione è da individuarsi nel fatto che i due spazi
ordinati (Z,£) e (Z,£op) sono isomorfi, tramite la
corrispondenza x ® -x. Ciò non si verifica per
gli spazi (N,£) e (N,£op), che non sono isomorfi (il primo è un insieme bene ordinato, il secondo
no).]
Dal
teorema di classificazione si può ottenere un'informazione importante su uno
spazio discreto X: esso è in ogni caso finito
o numerabile. Inoltre, è bene
ordinato se e soltanto se appartiene a una delle prime due famiglie (i) e (ii).
Quando uno spazio ordinato è finito esso è sempre bene ordinato e discreto, e
tanto isomorfo quanto anti-isomorfo a uno "spazio canonico" sn (va da sé, con
l'ordinamento naturale indotto dall'ordinamento naturale di N).
A
nostro parere la retta temporale Q viene "intuita"
come uno spazio discreto del tipo (iv), ma ogni
famiglia elencata nel teorema di classificazione appare comunque collegata alla
nozione comune di "tempo". Spazi discreti del tipo (ii) corrispondono
alla descrizione del futuro, quelli
del tipo (iii) del passato, mentre
(iv) raffigurerebbe, ripetiamo, tutto
il tempo, passato e futuro. Anche il
caso (i) (prescindendo dall'insieme vuoto, che costituisce una struttura a sé,
sempre un po' particolare: il non-tempo,
o la non-vita) ammette
un'interpretazione temporale, rappresentando gli istanti di una singola esistenza (limitata). Il singleton s1 potrebbe considerarsi un
"modello" dell'istante presente,
laddove s2 avrebbe la medesima
funzione per il minimo segmento temporale, ma di tutto ciò parleremo meglio nel
paragrafo 8.
Più
difficile è ovviamente la discussione degli spazi continui, perché non esiste
una loro classificazione semplice come la precedente. La retta ordinaria R, con
uno dei due suoi ordinamenti naturali (versi) è sicuramente un continuo privo
di minimo e di massimo, ma si sa bene oggi, grazie ai celebri lavori di Cantor
sulla teoria degli insiemi, che esistono altri simili continui ad essa non
isomorfi[37]. Vale la
pena dedicare alla circostanza qualche attenzione, anche perché esprimeremo
considerazioni diverse da quelle usuali nel presente contesto.
4.
Partiamo
dalla retta ordinaria R. Essa non è
uno spazio ordinato in modo naturale, in quanto ammette due ordinamenti (tra loro opposti), o versi di R, che possono dirsi entrambi "naturali".
Sceltone arbitrariamente uno, R potrà essere considerata uno spazio ordinato
("retta orientata"), ed è chiaro che tale spazio viene concepito come
un continuo privo di minimo e di massimo. Scelti due punti distinti a, b Î R, e supposto per esempio a < b
nell'ordinamento fissato, il "punto medio" m del segmento = {x Î R ê a £ x £ b}[38] è infatti tale che a < m
< b.
Si
introduca adesso il sottoinsieme D(a,b) di R costituito da
detto punto medio, poi dai punti medi m', m'' rispettivamente dei segmenti , , etc.,
considerando cioè i nuovi punti medi dei segmenti , , , , e così via (D sta palesemente per
l'iniziale greca di dicotomia). Ecco
che abbiamo a che fare con uno spazio ordinato, privo di minimo e di massimo (a
e b non sono elementi di D(a,b)), che non è discreto,
anzi è continuo. E' però manifestamente un continuo numerabile, potendosi per
esempio scegliere la sua numerazione m, m', m'', punto medio di ,... . Addirittura D(a,b) risulta in qualche
modo l'unico continuo numerabile (a
meno di isomorfismi in SO; parleremo di morfismi ed isomorfismi
d'ordine), a norma del seguente:
Teorema 2 (classificazione
del continuo numerabile). Ogni spazio continuo numerabile X privo di minimo e di massimo è
isomorfo a D(a,b)[39].
Dim. Si introduca una
numerazione x1, x2, x3, ... di X[40],
e si costruisca il desiderato isomorfismo f : D(a,b) ® X in modo progressivo e costruttivo. Si
ponga cioè:
f(m)
= x1,
f(m')
= primo elemento di X (nella data numerazione) che sta alla sinistra di x1
f(m'')
= primo elemento di X che sta alla destra di x1
f(punto
medio di ) = primo elemento di X che sta alla sinistra di f(m')
f(punto
medio di ) = primo elemento di X compreso (in senso stretto) tra
f(punto medio di ) e f(m)
etc..
La
chiave della dimostrazione consiste nel fatto che tutti gli elementi di X vengono fuori prima o poi alla destra della
precedente tabella, laddove tutti gli elementi di D(a,b) compaiono invece,
"ordinatamente", alla sinistra, q.e.d..
[La precedente
argomentazione dimostra che ad ogni numerazione di X si può univocamente
associare un isomorfismo d'ordine tra D(a,b) e X, ossia che si può
descrivere una corrispondenza F : IsoSet(N,X) ® IsoSO(D(a,b),X). E' evidente che F è suriettiva, e che un isomorfismo d'ordine non proviene da una sola numerazione.
Per quanto riguarda la cardinalità del codominio di F, potremmo dedurre da qui che essa è non
superiore a quella del dominio di F, che ha la potenza del
continuo. Ciò era d'altronde chiaro a
priori, indipendentemente dall'introduzione della corrispondenza F, dal momento che tale insieme si può pensare
quale sottoinsieme di IsoSet(D(a,b),X), che ha la stessa
cardinalità di IsoSet(N,X),
o di AutSet(N,N). La cardinalità dell'insieme in
parola è invero esattamente uguale alla potenza del continuo, come presto
saremo in grado di stabilire.]
Prima
di andare avanti, osserviamo che l'isomorfismo costruito nella precedente
dimostrazione è ben lungi dall'essere unico, o in qualche misura
"canonico". Per ogni numerazione di X se ne determina uno, e poiché i
primi k elementi della numerazione, per un qualsiasi numero naturale k, possono
essere scelti in modo assolutamente arbitrario, ecco che valgono allora teoremi
del seguente tipo:
Teorema 3. Due continui di I specie X
e Y, numerabili, senza minimo e senza massimo, non solo risultano sempre tra
loro isomorfi, ma addirittura, comunque considerata una "catena"
finita di elementi di X (ovvero, un insieme finito di k elementi di X tali che
x1 < x2 <...< xk), e un'analoga
catena finita di elementi di Y, y1 < y2 <...< yk,
si può trovare un isomorfismo (d'ordine) tra X e Y soddisfacente alle
condizioni f(x1) = y1, etc..
Ci
sembra importante sottolineare che detta non canonicità impedisce di trasferire
da uno spazio ordinato a un altro, seppure isomorfi, caratteristiche
addizionali precipue della "natura" specifica degli elementi del
primo, ma non del secondo. In un "generico" spazio continuo X,
ammettiamo numerabile e senza minimo e massimo, non sarà possibile operare per
esempio alcun "confronto naturale" tra segmenti (una struttura
naturale di preordine su cui
torneremo nel paragrafo 5), nonostante ciò si possa in D(a,b), e malgrado X sia ad esso isomorfo
(ripetiamo, nella categoria SO). Allo stesso modo, in D(a,b) non si potrà introdurre una somma
ancora "naturale" tra classi di equivalenza di segmenti (ed enunciare
l'assioma archimedeo), sebbene ciò sia lecito per i segmenti di sottospazi di R
che a D(a,b) risultano isomorfi in
quanto numerabili. Del resto, a volte neanche un "isomorfismo
canonico" consente una piena identificazione filosofica tra due strutture
diverse, come vedremo in un caso paradigmatico nel paragrafo 8.
Osserviamo
poi che il precedente teorema di classificazione non è un caso particolare di un teorema più generale, vale a dire,
non si può formulare una simile affermazione per continui di cardinalità
superiore al numerabile. In altre parole, lo scheletro della categoria SO,
pur limitandosi al caso di spazi ordinati senza minimo e senza massimo, è assai
"più grande" dello scheletro della categoria degli insiemi Set
(i due scheletri coincidono soltanto per gli insiemi al più numerabili). Gli
spazi Rn, per ogni numero
naturale n, con l'ordinamento lessicografico, costituiscono sicuramente dei
continui non numerabili, senza minimo e senza massimo, che risultano non
isomorfi per valori distinti della "dimensione" n.
Tornando
alla questione che più ci interessa, è chiaro che D(a,b) non esaurisce i punti del segmento aperto ]a,b[ (un simbolismo che è più
usuale in Analisi matematica, quando si ha a che fare con numeri reali, anziché
in Geometria), perché mancano per esempio i punti t', t'' risultanti
dall'operazione di tricotomia del
segmento , come illustrata nella seguente figura (che fa ricorso ad
altre proprietà della retta, ma in special modo alla sua possibilità di immersione nel piano da dirsi pure
ordinario; quindi, da caratteristiche della retta derivanti da proprietà della
geometria piana).
(Figura 1)
[Vogliamo
spiegare tale costruzione, anche perché si anticiperanno così alcune delle
considerazioni che si dovranno fare nel paragrafo 5, dedicato alla descrizione
del procedimento di misura che conduce al concetto di numero reale. Si
considera un qualsiasi segmento della retta ordinaria
R (pensata immersa nel piano ordinario P come una sua retta arbitraria). Dal
punto a si traccia la perpendicolare P alla retta R, e su questa perpendicolare
si considera il segmento uguale ad . Quindi lo si riporta tre volte di seguito, costruendo i
segmenti , , . Sulla retta Q, perpendicolare ad R nel punto b, si
considerano i punti b', b'', b''', corrispondenti rispettivamente di a', a'',
a''' per proiezione perpendicolare. Si prende infine in esame la diagonale del rettangolo
abb'''a'''. Essa interseca il segmento nel punto y', il
segmento nel punto y'', e le
proiezioni perpendicolari di y', y'' sulla retta R, che abbiamo detto
rispettivamente t' e t'', forniscono la desiderata "tricotomia" del
segmento , ossia: º º (il significato di
tale "uguaglianza" º verrà spiegato appunto nel
paragrafo 5), e ÈÈ = (in altre parole, se
sull'asse perpendicolare si rappresenta il numero intero n, su quello di
partenza appare il suo inverso 1/n).]
Introdotto
adesso il sottoinsieme W(a,b) del segmento costituito da tutti i
punti di ]a,b[ ottenibili per successive n-tomie
del segmento (per ogni numero
naturale n ³ 2), è noto sin dai primordi
della geometria greca che neppure W(a,b) esaurisce tutti i
punti di ]a,b[. Però W(a,b) è anch'esso un
continuo numerabile[41]
privo di minimo e di massimo, sicché sarà sempre isomorfo a D(a,b) in virtù del teorema 2. Invece, l'intero
]a,b[, o l'intero R, due spazi manifestamente isomorfi in forza della
costruzione delineata nella successiva figura, non sono isomorfi a D(a,b).
(Figura 2)
[Per il punto
medio m di si costruisce la
semicirconferenza tangente C di centro c, iscritta al quadrato di lato . Dato un qualsiasi punto p all'interno del segmento, si determina il punto p* su C situato
sulla retta verticale uscente da p. Infine, si costruisca p' Î R come illustrato, quale intersezione di R
con la retta passante per c e per p*. E' evidente che, al variare di p
all'interno di , il corrispondente punto p' descrive tutti i punti di R, ciascuno una volta sola. In particolare, m' =
m; i punti tra m e b, b escluso, corrispondono a tutti quelli alla destra di m,
come in figura; i punti tra a e m, a escluso, corrispondono a quelli alla
sinistra di m[42].]
Questo
appena enunciato è naturalmente il famoso teorema di non numerabilità di
Cantor, al quale preferiamo però arrivare in una maniera differente dal solito
"procedimento antidiagonale".
La
retta ordinaria R (orientata) è un continuo che soddisfa il seguente intuitivo[43]:
PC - Postulato di
completezza.
Comunque assegnato un sottoinsieme L di R limitato
(ossia, contenuto in un segmento di R), esiste un minimo segmento di R che lo contiene.
Il
postulato si può naturalmente enunciare per qualsiasi spazio ordinato (anche
non necessariamente continuo)[44],
il quale allora potrà dirsi "completo", ed è ben noto che risulta
equivalente agli altri seguenti "postulati", che enunciamo
direttamente nel caso di R, come abbiamo fatto prima per PC.
PC2'
- Dato un qualsiasi sottoinsieme non vuoto L' di punti di R che sia superiormente limitato, tale cioè che
esista un maggiorante m per tutti i
punti di L' (x < m, per ogni x Î L'), esso ammette un estremo superiore E(L), ovvero un minimo maggiorante (un maggiorante che
sia più piccolo di ciascun maggiorante di L).
PC2''
- Analogo di PC2' per i sottoinsiemi L'' di R inferiormente limitati.
PC2
- Dato un qualsiasi sottoinsieme non vuoto limitato
L di punti di R (un insieme L superiormente e inferiormente limitato), esso
ammette sia un estremo superiore E(L), sia un estremo inferiore e(L).
Si
sa bene oggi che si possono trovare numerose altre forme istruttive di PC. Per
esempio, uno spazio continuo e completo è necessariamente connesso (nella
topologia d'ordine associata), mentre viceversa uno spazio ordinato connesso è
necessariamente continuo e completo se non è un singleton, o il vuoto[45].
Oppure, l'intersezione di una successione monotona decrescente Ê Ê ... di segmenti di R è certamente non vuota
(un segmento di R, oppure un punto). Interessante è anche l'enunciato del
postulato proposto da Dedekind: detta "lacuna" di uno spazio ordinato
X una coppia ordinata (U,V) di sottospazi non vuoti e disgiunti di X, tali che
U < V e UÈV = X, X riuscirà completo
se e soltanto se non ammette lacune.
Ciò
premesso, vale il seguente importante:
Teorema 4. Un continuo numerabile X
non può mai soddisfare il postulato di completezza.
Dim. Supponiamo, senza
restrizione di generalità, che X non abbia né minimo né massimo. Per il teorema
di classificazione 2, esso sarà necessariamente isomorfo a D(a,b), ed è chiaro che D(a,b) non
soddisfa il postulato di completezza. Per esempio, l'insieme di tutti i punti
di D(a,b) che precedono il punto t' di cui alla
figura 1, è superiormente limitato in D(a,b), ma non vi possiede
manifestamente estremo superiore.
Corollario 5 (Teorema di non
numerabilità).
La retta ordinaria R non è numerabile.
Aggiungiamo
un istruttivo commento. Dato un continuo numerabile X, supponiamo ancora senza
minimo e senza massimo, abbiamo visto che si può costruire un isomorfismo f tra
D(a,b) e X, ottenendo così una lacuna dello
spazio X a partire dalla lacuna di D(a,b) corrispondente al
punto t' della figura 1, diciamola (U°,V°): U° = {x Î D(a,b) ½ x < t'}, V° = {x Î D(a,b) ½ x > t'}. Orbene, al variare di f (o meglio, della
numerazione di X che determina f) si dterminano in tal modo tutte le lacune di X. Data infatti una
lacuna (U, V) di X, sia U che V saranno continui e numerabili, e pertanto
isomorfi a D(a,b). Ma sono continui
numerabili pure U°, V°, sicché potremo costruire isomorfismi d'ordine g, h
rispettivamente tra U° e U, e tra V° e V. E' chiaro che, "combinando"
tra loro g ed h, si ottiene un unico isomorfismo d'ordine f tra D(a,b) e X, il quale trasformerà la lacuna
(U°,V°) di D(a,b) nella lacuna (U,V) di
X, che era stata peraltro scelta in maniera arbitraria.
Ci
sembra che il ragionamento precedente risponda perfettamente, e costruttivamente, alle domande:
"Come mai un continuo numerabile presenta necessariamente lacune? Come si costruiscono tutte le relative lacune?", al
punto che appare lecito affermare che ogni
"intuizione dell'irrazionale", che è assolutamente connaturata a una
dottrina trascendentale dello spazio, non è altro che una conseguenza della
possibilità di effettuare ... la semplice tricotomia di un segmento di R[46].
Una verità questa che dovrebbe
contribuire ad eliminare un po' dell'aureola di "mistero" che
circonda i numeri irrazionali, a meno di non voler considerare
"irrazionale", e quindi in qualche misura anti-intuitiva (una
contraddizione in termini, dalla nostra prospettiva), l'operazione di tricotomia, in aggiunta a quella di
dicotomia.
[Dal quanto
sopra consegue anche che la corrispondenza tra AutSO(D(a,b),D(a,b)) e l'insieme ]a,b[-D(a,b), che associa a un automorfismo d'ordine
f il punto che potremo chiamare f(t'), con leggero ma significativo abuso di
linguaggio, è suriettiva, sicché AutSO(D(a,b),D(a,b)) deve avere potenza
superiore al continuo, e quindi infine risultare uguale alla potenza del
continuo, tenuto conto di quanto osservato in precedenza riguardo alla
cardinalità dell'insieme IsoSet(D(a,b),X), che è la stessa di quella
dell'insieme (gruppo) in discorso. Si applica qui naturalmente il teorema di
Cantor-Dedekind-Schröder-Bernstein, con denominazione eccessiva ma storicamente
esatta.]
Concludiamo
il paragrafo constatando che neppure il "continuo completo" può
ritenersi un continuo geometrico (o,
se si preferisce, lineare), dal
momento che con questa definizione siamo ancora lontani da un teorema di
classificazione (o addirittura di unicità, se consideriamo la consueta ipotesi
di assenza di minimo e di massimo). Esistono infatti tanti spazi continui e
completi non reciprocamente isomorfi, anche con lo stesso cardinale[47],
e la loro totalità ha cardinali crescenti[48].
Per raggiungere lo scopo, dovremo aggiungere a continuità e completezza per
esempio la condizione che la topologia associata all'ordine sia separabile (ovvero, che esista un
sottoinsieme al più numerabile Y Í X denso in X, tale cioè che ciascun elemento di X sia un punto di
accumulazione di Y; parleremo in tal caso di uno "spazio ordinato
separabile"). La topologia della retta ordinaria è separabile (una
conseguenza del "postulato di Archimede": D(a,b) è denso in ), e si può finalmente dimostrare che sussiste il seguente:
Teorema 6 (classificazione
del continuo geometrico). Uno spazio ordinato continuo, completo, separabile, privo di minimo e
di massimo, è necessariamente isomorfo (in SO) alla retta ordinaria
(orientata)[49]. In
particolare, un siffatto spazio ha la potenza del continuo.
5.
Lo spazio non è un concetto
empirico, ricavato da esperienze esterne. [...] Lo spazio è una
rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le
intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia
spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun
oggetto.
(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 2: 1-2, pp. 66-67)
Facciamo adesso un passo sostanzialmente indietro,
cioè ritorniamo a un livello più semplice, mostrando come si possa pervenire a
definire il concetto di numero reale nell'unico
modo naturale, facendo cioè ricorso all'intuizione
geometrica. Essa è stata "descritta" da Euclide, Hilbert, etc., ma mai in modo al tempo stesso
"completo" e "adeguato". Scontata tale osservazione nel caso
di Euclide (per entrambe le specificazioni: quanto alla completezza non si
stenta a crederlo, ma troviamo non adeguata per esempio la sua enunciazione del
V postulato), vedremo nel paragrafo 7 in che senso la riteniamo pertinente
anche per Hilbert.
Utilizziamo
il verbo descrivere perché (sarà ormai chiaro) per noi i "postulati",
o gli "assiomi" (si tende oggi a non distinguere tra i due termini, o
non si riesce a farlo come si converrebbe), sono semplicemente, almeno in un
primo momento (cfr. ciò che se ne dirà in sede di conclusione), asserti
"elementari" relativi a proprietà di enti concepiti in maniera
"chiara e distinta" nel nostro pensiero. Un'eco della filosofia
cartesiana ci sta bene, e del resto essa era presente nella definizione di
insieme fornita da Cantor[50],
circostanza di solito non messa in luce come si dovrebbe (infatti, vi si fa
ricorso al principio delle idee chiare e distinte di Cartesio, e non a criteri
linguistici, o formali):
«Unter einer "Menge" verstehen wir jede
Zusammenfassung M von bestimmten
wohlunterschiedenen Objekten m
uns[e]rer Anschauung oder unseres Denkens (welche die "Elemente" von M genannt werden) zu einem Ganzen»[51].
Quanti punti ci sono sulla retta dipende quindi per
esempio da quanti noi siamo in grado, o "costretti", a percepirne,
spesso non immediatamente, ma in seguito a ragionamento (intervento di
"giudizi analitici"), in conseguenza cioè di altre proprietà che si
presentano assolutamente "necessarie" alla descrizione dell'ente
quale esso "appare".
Veniamo adesso all'annunciata
questione centrale di questa sezione, la costruzione geometrica dei numeri
reali. Il punto di partenza è la retta ordinaria R, che adesso non sarà neppure
necessario supporre orientata. Si introduce quindi l'insieme Seg(R) dei segmenti di R, i sottoinsiemi
individuati da un'arbitraria coppia (non ordinata) di punti distinti, che si
chiamano estremi del segmento. I
segmenti sono sottoinsiemi della retta che, in quanto alla loro
"natura", sono concepiti "rigidi", ma il termine non deve
indurre in equivoco: non c'è nessun riferimento alla "realtà
materiale", quella di cui si sta parlando è una "realtà ideale".
Essi, come i punti, non sono manifestamente dei "numeri", sebbene si
possano sempre "confrontare" tra loro, e in qualche caso (segmenti contigui,
cioè con un solo vertice comune) "sommare". La possibilità della
citata operazione di confronto si esplicita attraverso la constatazione che
l'intuizione dello spazio riconosce in Seg(R) l'esistenza di una relazione r di preordine
totale naturale[52],
collegata alla relazione d'ordine non
totale d'inclusione (inclusione
insiemistica, di origine perciò puramente "logica") e al concetto di traslazione. Un segmento sarà minore o uguale
di un segmento se esiste una traslazione
t di R tale che t() è incluso in , mentre naturalmente una traslazione di R rimane definita
come una particolare corrispondenza biunivoca t di R in sé (o, se si
preferisce, un automorfismo di R in SO; si fissi adesso arbitrariamente
un verso di R), che induce un morfismo d'ordine (automorfismo) anche in Seg(R):
£ Þ t() £ t(), per ogni coppia di segmenti di R. Cioè preordine totale
naturale su Seg(R) e traslazioni sono concetti strettamente interconnessi, uno
definisce l'altro, senza possibilità, ci sembra, di poter decidere quale dei
due "venga prima". Dovendo scegliere, ci piace pensare che la nostra
mente "veda" nel gruppo AutSO(R) un sottogruppo
strettamente 1-transitivo grazie a cui effettua il riconoscimento di chi tra
due segmenti sia "più piccolo" di un altro[53],
sed de hoc satis.
La
relazione di preordine appena descritta non è manifestamente una relazione
d'ordine, e induce conseguentemente su Seg(R) una relazione d'equivalenza non
banale (per la quale nel linguaggio comune, e della geometria classica, si usa
il termine uguaglianza, che rischia
l'introduzione di un ulteriore fraintendimento, data l'affinità semantica tra
uguaglianza e identità), che permette di costruire il relativo insieme
quoziente SR[54], i cui elementi diremo segmenti liberi (o astratti) di R. SR possiede adesso una
relazione d'ordine naturale, ma il bello è che esso ammette anche una struttura algebrica naturale, che era
finora assente da tutti gli enti geometrici considerati (che erano soltanto
sostegni di strutture d'ordine e topologiche). Si può definire infatti la somma
di due segmenti liberi semplicemente giustapponendo due loro rappresentanti, prendendone
l'unione insiemistica, e infine la relativa classe di equivalenza:
un'operazione mentale che corrisponde evidentemente alla "somma" di
due "cammini", se si vuol fare un analogo nello spazio. SR è quindi il sostegno di un
semigruppo (una struttura algebrica semplice la cui operazione richiediamo
soddisfi unicamente la proprietà associativa) abeliano (additivamente scritto)
alquanto particolare, che secondo noi riassume in sé tutte le proprietà
geometriche delle quali abbiamo bisogno al fine di stabilire il procedimento di
misura[55].
Tale semigruppo risulta assai "simile" ad N, poiché è privo di elemento neutro, regolare[56],
ordinato[57], archimedeo[58],
etc., con alcune differenze però
fondamentali. N è un discreto, SR è un continuo; N ammette un minimo che genera l'intera
struttura, SR non ammette minimo e
generatore; conseguenze del fatto che SR viene ad essere concepito
come un semigruppo divisibile (per
ogni numero naturale n ed ogni segmento libero u, l'equazione nx = u ammette
una e una sola soluzione x Î SR), mentre N ovviamente non è divisibile[59].
Finalmente, in che modo si
effettua la misura per i segmenti liberi della "retta spaziale" (ma
la stessa cosa sarebbe dire dello "spazio", cfr. la nota 55)?
Considerato l'insieme delle coppie ordinate di segmenti liberi di R, in simboli
SR´SR, e due di tali coppie,
(u,v), (u',v'), tutto sta nel definire una relazione d'equivalenza mR in SR´SR che corrisponda all'idea
linguisticamente espressa con le parole: u ha come misura rispetto a v la
stessa di u' rispetto a v'.
La procedura logica è
abbastanza naturale, tanto è vero che è la medesima utilizzata già da Euclide
nel Libro V degli Elementi. Si itera
u un certo numero arbitrario m di volte (m un elemento di N), analogamente v un certo numero n di volte, fino a produrre mu =
u+u+... m volte, e nv = v+v+... n volte. Si fa altrettanto con u' e v'
rispettivamente, in modo da produrre cioè pure mu' e nv'. Orbene, se risulta mu
< nv, deve essere anche mu' < nv'; se risulta invece mu > nv, deve
essere anche mu' > nv'; infine, se accade che sia mu = nv, deve essere anche
mu' = nv'. Nell'ultimo caso u e v si dicono tra loro commensurabili, e la misura di u rispetto a v, in simboli = classe di
equivalenza della coppia ordinata (u,v), si può rappresentare semplicemente con
la frazione , e si dice un numero
reale razionale (ribadiamo che consideriamo sempre, per il momento, numeri
positivi)[60].
Abbiamo
ottenuto così che la totalità dei numeri
reali positivi, indicata con il simbolo R+,
è un ben preciso insieme quoziente di SR´SR, cioè: R+ Ì P(SR´SR), il relativo insieme delle
parti (x = non significa altro
che (u,v) Î x). Potremo proporre cioè
l'identità:
R+ = SR´SR/mR,
che
individua R+ non soltanto
a meno di isomorfismi, come sembrerebbe secondo taluni inevitabile[61].
Volendo, sarebbe lecito scrivere anche (con leggero abuso di notazione) mR : SR´SR ® R+,
mR((u,v)) essendo la misura di u rispetto a v (nient'altro
che la classe di equivalenza di (u,v) rispetto a mR). Vale a dire, i numeri reali positivi sono semplicemente
frazioni geometriche, che hanno quali
numeratore e denominatore degli elementi di SR[62].
E'
ovvio che si potrà porre 1 = , 2 = , etc., qualunque
sia u, cioè che esiste un'immersione naturale di N in R+, non
tale però da costringerci a considerare i numeri naturali un caso particolare
di numeri reali (su ciò ritorneremo nel paragrafo 8). Analogamente, si porrà = , = , etc., ed ecco che
anche Q+ si ottiene come
un semplice sottoinsieme (proprio[63])
di R+. Ma, ribadiamo, R+ "nasce" tutto
intero, e non per generazione dal basso. Insomma, il verso giusto è top ® down, e non down ® top,
la valenza filosofica delle due impostazioni (le suggestioni concettuali da cui
dipendono) non sfuggirà di certo al lettore.
Per
riassumere, dunque, un punto non è un segmento, un segmento non è un segmento
libero, un segmento libero non è un numero (reale positivo). Un numero è una
classe di coppie ordinate di segmenti liberi. Una volta introdotto il relativo
insieme, i passi successivi (non tutti ugualmente agevoli) sono (senza badare
alla sequenza logica naturale, e senza pretese di completezza): la
dimostrazione di un "lemma chiave", per provare che, nell'insieme
delle frazioni che rappresentano un dato numero reale, ce n'è sempre una (e una
soltanto) con numeratore o denominatore fissati in modo arbitrario;
l'introduzione di una struttura d'ordine totale in R+; l'introduzione di una struttura algebrica interna di
somma e di prodotto tra numeri reali, e di un prodotto esterno tra numeri reali
e segmenti; l'illustrazione di un isomorfismo (canonico) tra i gruppi Aut(SR(+)) e R+(*), il gruppo moltiplicativo
di R+, gli automorfismi in
parola essendo inerenti alla categoria di competenza, che è quella dei
semigruppi abeliani regolari ordinati; l'illustrazione di un isomorfismo (non
canonico) tra i due semigruppi additivi R+(+)
e SR(+); etc., fino a descrivere: il passaggio dai segmenti ai segmenti
ordinati (orientati), e quindi dai segmenti liberi ai vettori; la somma di
vettori come somma di cammini orientati (niente incomprensibile regola della
diagonale, per cui si ricorre a volte a motivazioni ... fisiche); i numeri
reali con segno quali rapporti di vettori, con denominatore non nullo; la regola dei segni -1*-1 = 1 (di solito esposta in maniera
astratta, o assurda, prendendo il caso del prodotto ... di due debiti, o
persino "intimidatoria"; il poeta Wystan Hugh Auden rammenta la
canzoncina che gli insegnavano a scuola: «Minus times minus is plus / The
reasons for this we need not discuss»); e così via, pervenendo da ultimo alla
piena comprensione della struttura di campo ordinato archimedeo completo di R, all'introduzione degli spazi
vettoriali reali V(R), ma anche V(P) e V(S)[64],
all'interpretazione della dimensione geometrica mediante il concetto di base
lineare, alla dimostrazione dell'isomorfismo (canonico) tra il gruppo abeliano
additivo V(R)(+) e il gruppo abeliano moltiplicativo delle traslazioni di R, etc.. Le "coordinatizzazioni
cartesiane" stabiliranno un insieme di isomorfismi (in SO) tra
retta ordinaria (orientata) ed insieme dei numeri reali R, due insiemi che, pur risultando isomorfi, non saranno però
canonicamente isomorfi: nessuna delle coordinatizzazioni di R può dirsi
privilegiata rispetto a un'altra[65].
La confusione corrente tra spazio ordinario (geometrico) S e spazio numerico R3 (da stabilire poi se affine o vettoriale), è un
ulteriore sintomo dell'attuale decadenza della "consapevolezza
geometrica".
Ecco
così rapidamente delineate le strutture portanti di un "programma" di
Geometria, che non è seguito in nessun corso di cui sappiamo (tanto meno oggi
con "modulini" tenuti da "professorini" diversi, perciò
sostanzialmente "incoerenti" tra di loro; tutti sembrano poi avere
premura di parlare di tensori di curvatura, gruppi di omotopia, invarianti
delle varietà algebriche, saltando a pie' pari le "basi"), né in
nessun libro che conosciamo.
6.
Prima di procedere oltre, sarà bene dedicare qualche
commento a modi alternativi di introdurre il fondamentale concetto illustrato
nel paragrafo precedente. E' ben noto come, verso l'ultimo terzo
dell'Ottocento, sulla spinta delle interpretazioni metageometriche
dell'"esistenza" di geometrie non euclidee, alcune
"scuole", diventate presto maggioritarie, abbiano cercato di
eliminare dalla nozione di numero reale ogni riferimento a proprietà ed enti di
natura geometrica, considerati questi provenienti da un «momento intuitivo e
vago della fondazione»[66].
Dopo una (conseguente e coerente) accentuazione del riduzionismo,
concretizzatasi in una fase di "logicizzazione" della stessa
aritmetica, tale tendenza fu la necessaria premessa ideologica all'enunciazione
prima, e all'affermazione poi, del punto di vista denominato
"formalista" nei fondamenti della matematica, che va addirittura al
di là del monofondamento aritmetico[67],
e costituisce ancora oggi la principale filosofia della matematica[68].
Nelle parole successive è chiaramente enunciato il
programma della cosiddetta "aritmetizzazione dell'analisi":
«concepire i numeri reali come strutture concettuali, invece che come grandezze
intuitive ereditate dalla geometria euclidea»[69].
Un numero reale irrazionale diventa, secondo la visione aritmetizzante, o una
particolare coppia ordinata di insiemi di numeri razionali (le lacune, o
sezioni, di cui si diceva nel paragrafo 4), o una classe di equivalenza di
particolari successioni di tali numeri, insomma qualcosa che presuppone a
fondamento della propria "esistenza" un concetto di numero "più
semplice" (con l'effetto, tra l'altro, che non si può a rigore neppure
stabilire la relazione di inclusione Q
Ì R,
che invece nel nostro approccio è pienamente giustificata), laddove nella
genesi geometrica da noi illustrata i numeri razionali "nascono"
insieme ai numeri irrazionali senza alcuna differenza di "specie" tra
i due tipi di grandezze.
L'intento "riduzionista" delle costruzioni
in oggetto è evidente: secondo Corrado Mangione si tratta di «sostituire al continuo geometrico il
continuo "aritmetico"» (loc.
cit. nella nota 10, p. 361 corsivo nel testo; notiamo per inciso che
l'espressione "continuo aritmetico" non ha per noi nessun senso).
L'autore menzionato cita poi con compiacimento Bertrand Russell, quando ne I princìpi della matematica[70]
sostiene il seguente discutibile punto di vista, espressione di un rozzo e
superficiale anti-kantismo[71].
«Si supponeva un tempo, e qui sta la vera forza
della filosofia della matematica di Kant, che la continuità avesse un
riferimento essenziale allo spazio e al tempo [...] Secondo quest'ipotesi la
filosofia dello spazio e del tempo precedeva quella della continuità [...]
Tutto ciò è mutato per opera dei matematici moderni. Ciò che si chiama
l'aritmetizzazione della matematica ha fatto vedere che tutti i problemi
presentati, a questo riguardo, dallo spazio e dal tempo, sono già presenti
nell'aritmetica pura. [...] [Sicché risulta ora possibile] dare una definizione
generale di continuità, senza fare appello a quella massa di pregiudizi non
analizzati che i kantiani chiamano "intuizione"» (cap. XXXII).
Quello
che segue è un esempio dell'usuale interpretazione del lavoro di Dedekind[72].
«In
the introduction to this paper he points out that the real number system can be
developed from the natural numbers: "I see the whole of arithmetic as a
necessary, or at least a natural, consequence of the simplest arithmetical act,
of counting, and counting is nothing other that the successive creation of the
infinite sequence of positive whole numbers in which each individual is defined
in terms of the preceding one"».
Quest'unica
"intuizione discreta" (tale è manifestamente il passaggio al
"successivo"), cioè l'iterazione, sarebbe dunque a fondamento del
continuo geometrico. Con riferimento alla concezione del matematico tedesco di
un numero irrazionale quale una sezione del campo razionale, val la pena di
sottolineare allora che la stessa precisa idea si trova già ... in Euclide! Né
poteva essere altrimenti, dal momento che l'oggetto del pensiero che si sta
descrivendo, cioè la retta geometrica R, è sempre
lo stesso. Data infatti una coppia ordinata (u,v) di segmenti liberi
corrispondente a un dato numero irrazionale, l'insieme N´N
delle coppie ordinate di numeri naturali si ripartisce
esattamente nell'insieme formato dalle coppie (m,n) tali che mu < nv (i.e., il "numero razionale" > appartiene alla
classe superiore della sezione costituita dal numero irrazionale ), e dal suo complementare, ossia l'insieme delle coppie
(m,n) tali che mu > nv (mu non potrà mai uguagliare nv per ipotesi).
La
quinta definizione del libro V degli Elementi
di Euclide[73] collega
precisamente la misura di u rispetto a v con la menzionata "sezione"
di N´N,
nel senso che due coppie ordinate di segmenti tra loro incommensurabili
individuano lo stesso numero irrazionale se e soltanto se ad esse rimane
associata la medesima sezione. In termini per noi oggi più chiari, si può
stabilire una corrispondenza naturale F tra (SR´SR)' (simbolo con cui
indichiamo il sottoinsieme di SR´SR costituito dalle coppie di
segmenti tra loro incommensurabili) e l'insieme delle sezioni di N´N,
chiamiamolo Sez(N´N)[74],
e la relazione di equivalenza mR non è altro che quella
associata alla funzione F. Ne deriva che esiste
un'immersione naturale dell'insieme dei numeri irrazionali in Sez(N´N),
mentre, viceversa, il fatto che la funzione in parola sia pure suriettiva (ogni
sezione corrisponda a un numero irrazionale), e quindi che F sia un isomorfismo (canonico), risulta una
banale conseguenza di PC (per la verità, il caso inverso non è discusso
esplicitamente in Euclide). Ovvero, i numeri reali secondo Euclide non sono
esattamente le sezioni ma sono "isomorfi" alle sezioni, e l'autentica
"origine" delle seconde rimane geometrica e non aritmetica. Con tale
opinione siamo perfettamente in consonanza con alcune voci autorevoli citate
nel seguente importante brano[75].
«Max
Simon remarks (Euclid und die sechs
plamimetrischen Bücher, p. 110), after Zeuthen, that Euclid's definition of
equal ratios is word for word the same as Weierstrass' definition of equal
numbers. So far from agreeing in the usual view that the Greeks saw in the
irrational no number, Simon thinks it
is clear from Eucl. V that they possessed a notion of number in all its
generality as clearly defined as, nay almost identical with, Weierstrass'
conception of it. Certain it is that there is an exact correspondence, almost
coincidence, between Euclid's definition of equal ratios and the modern theory
of irrationals due to Dedekind» (corsivi nel testo).
Sentendoci quindi autorizzati a ritenere l'approccio
aritmetizzante soltanto apparentemente diverso da quello naturale geometrico, sottolineiamo
che nel paragrafo precedente abbiamo utilizzato la descrizione offerta da
Euclide per la fondamentale equivalenza mR in esame, che permette di
stabilire quando due frazioni e sono uguali in termini
dei segmenti che vi appaiono quali numeratori e denominatori. Pur non essendoci
dubbi sulla correttezza contenutistica del procedimento che definisce in questa
maniera l'insieme numerico dei reali (supponiamo ancora positivi), si potrebbe
però volendo porre la questione se quella euclidea ne sia l'illustrazione più adeguata. Tale interrogativo venne
formulato da Galileo Galilei, in un'opera pressoché ignorata[76].
Verso i suoi ultimi anni, lo scienziato dedicò infatti un breve scritto al
Libro V degli Elementi di Euclide[77],
fornendo degli spunti di meditazione che, in quanto a filosofia della
matematica, o, se si preferisce, a didattica della matematica, possono essere
considerati attuali anche ai giorni nostri (o meglio, specialmente ai giorni
nostri!). Sinteticamente, per Galileo è in primo luogo evidente che il problema
relativo al quando due coppie di grandezze debbano considerarsi tra loro
proporzionali, pur appartenendo alla sfera di quei concetti che sono da
ritenersi alla base di atti comuni ad ogni umano intelletto («avendo il lettore
concepito già nell'intelletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze
[...] mi sforzerò di secondare con la difinizione delle proporzioni il concetto
universale degli uomini anche ineruditi nella geometria»), non possa essere
riconosciuto come un dato primitivo ("immediato"), e sia invece
necessario discuterlo con attenzione. Inoltre, l'autore pensa che la
definizione proposta da Euclide, ancorché logicamente ineccepibile, non
risponda completamente alle esigenze di chiarezza inerenti all'importanza della
questione. Tutti e tre i protagonisti del dialogo galileiano confessano in
effetti tale insoddisfazione: Sagredo («Questa e' una certa ambiguità che io o'
sempre avuta nella mente intorno alla quinta difinizione del quinto libro
d'Euclide [...] non restai con quella chiarezza che avrei desiderato nella
predetta proposizione»); Simplicio («Non ebbi mai il più duro ostacolo di
questo in quella poca di geometria che io studiai già nelle scuole da
giovanetto»); e infine lo stesso Salviati-Galileo («Io poi confesso che per
qualche anno dopo aver istudiato il V libro d'Euclide, restai involto con la
mente nella stessa caligine»). Lo scienziato pisano applica allora alla
definizione euclidea di proporzione un criterio che dovrebbe essere tenuto
sempre presente (non solo in matematica), relativo alla necessità di operare
una distinzione tra asserzioni le quali, pur "logicamente
equivalenti", si presentino in una sequenza temporale naturale in momenti
diversi della riflessione razionale, tanto da potersi considerare l'una come
una derivazione dell'altra, ma non viceversa.
«Per dare una difinizione delle suddette grandezze
proporzionali la quale produca nell'animo del lettore qualche concetto
aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una
delle loro passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si
stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche
[...] Così fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non
disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette,
il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le
parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli
opposti uguali a due retti. Quand'anche così avesse detto, sarebbero state
buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un'altra passione del cerchio, più
intelligibile della precedente e più facile da formarsene concetto, chi non
s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella più chiara e più
evidente come difinizione, per cavar poi da essa quell'altre più recondite e
dimostrarle come conclusioni?»[78].
Galileo si pone insomma, in relazione alla
definizione V del Libro V degli Elementi di Euclide, sostanzialmente le stesse
domande che più tardi formulerà in analoga circostanza De Morgan[79]:
«What right had Euclid, or any one else, to expect
that the preceding most prolix and unwieldy statement should be received by the
beginner as the definition of a relation the perception of which is one of the
most common acts of his mind, since it is performed on every occasion where
similarity or dissimilarity of figure is looked for or presents itself? If the
preceding question should be clearly answered, how can the definition of
proportion ever be used; or how is it possible to compare every one of the
infinite number of multiples of A
with every one of the multiples of B?».
Ma mentre De Morgan cercò soprattutto di chiarire, e
quindi di giustificare, l'approccio euclideo alla questione[80],
Galileo propose una propria definizione di uguali proporzioni da opporre a
quella dell'antico maestro[81].
Non possiamo qui entrare in dettaglio su come Galileo «ritenne di correggere
dal punto di vista didattico-intuitivo la definizione V»[82].
Basterà dire che egli illustra un procedimento che rimanda chiaramente, secondo
noi, al concetto di "frazione continua"[83],
ma ciò che rimane degno di nota è il fatto che egli fu spinto ad operare tale
correzione, e che il suo tentativo stimola noi a distanza di secoli a
comprendere le motivazioni che lo ispirarono (e ad imitare il suo coraggio nel
discutere i "tabù" del proprio tempo - Zeitgeist). Così, vengono alla mente altre possibili descrizioni
geometriche della relazione d'equivalenza mR, diverse sia da quella di
Euclide sia da quella di Galileo. Accenniamo soltanto alla possibilità di
appoggiarsi per la definizione di uguale proporzione alla geometria del piano
(all'immersione cioè di R nel piano ordinario P) e al "teorema di Talete",
che diverrebbe sotto questa prospettiva un criterio di proporzionalità e non un
teorema.
(Figura 3)
La situazione dovrebbe essere trascendentalmente
chiara. Date tre rette parallele R, S, T, e una comune perpendicolare P, si
considerano i due segmenti e su P ( < ), e due segmenti arbitrari e su R (tali però che < ,
> , > ). Ci si chiede quando sussiste la relazione di
proporzionalità : = : . Basta riportare b' su S, ottenendo b'' (b'' è tale cioè che
º ), tracciare la retta Q per a e b'', prendere l'intersezione
c'' tra Q e T. La proporzione è soddisfatta, per definizione, se, e soltanto se, c'' coincide con il punto che
si ottiene riportando c' su T (ossia, º ). Non è difficile dimostrare che questo criterio
"puramente geometrico" (e forse più vicino di tutti gli altri
discussi a uno dei «most common acts» dell'intelletto umano) implica quello di
Euclide, e ovviamente viceversa.
Con un siffatto approccio "statico",
contrapposto al metodo che si potrebbe dire "dinamico" sia di Euclide
che di Galileo, si esce dalla geometria della retta (che deve del resto essere
concepita parte di un successivo momento di astrazione), per porre la questione
dei fondamenti in relazione alle proprietà intuitive della geometria del piano
(direttamente legate ai processi mentali attraverso il meccanismo della
visione). Si ritrova per tale via, quale conseguenza abbastanza inaspettata,
almeno per chi sia cresciuto nutrito dai "dogmi" del pensiero
scientifico moderno, che la teoria delle parallele e il famoso V postulato di
Euclide, più che l'aritmetica e la logica, giocano un ruolo importante anche
nella genesi naturale del concetto di numero come misura. Una simile
conclusione suggerisce un'ulteriore parentesi dedicata alle geometrie non
euclidee, che sicuramente aleggiano a guisa di fantasmi dietro tutte le nostre
considerazioni, smontandone a priori
la stessa proponibilità.
7.
Prima di presentare la costruzione
"gemella" di quella del paragrafo 5, cioè nel caso del tempo anziché
dello spazio, operiamo l'annunciata incursione in un ambito alquanto lontano da
quello oggetto della nostra indagine fondazionale, che risulterà però viepiù
interessante, o almeno lo si spera, in quanto avrà l'effetto di evidenziare,
come annunciato, alcuni dei motivi per cui riteniamo "non adeguata"
la descrizione proposta da Hilbert nei Grundlagen
der Geometrie[84](1899).
Rammentiamo che Hilbert introduce tre tipi di oggetti (punti, rette,
piani), e che divide gli assiomi in 5 gruppi. Il primo consiste degli
"Assiomi di collegamento" (o di appartenenza o di incidenza), il
secondo comprende gli "Assiomi di ordinamento", il terzo gli
"Assiomi di congruenza" (per segmenti e angoli). Nel quarto è
presente un unico assioma, relativo al parallelismo[85],
mentre nel quinto si trovano infine i cosiddetti "Assiomi di
continuità" (il postulato di Archimede e quello che abbiamo chiamato di
completezza nel paragrafo 5).
Il parallelismo assume quindi una collocazione del tutto a parte dagli
altri assiomi, laddove si può invece secondo noi sostenere che esso appartiene
agli assiomi di congruenza e continuità (un unico gruppo di assiomi), che
dovrebbero peraltro stabilire quale punto di partenza l'esistenza della
relazione di preordine naturale tra segmenti dello spazio ordinario di cui
abbiamo parlato.
La forma del "V postulato di Euclide" che abbiamo in mente è
suggerita da un'antica sua ... dimostrazione, che ci viene riferita da un
commentatore arabo del IX secolo, al-Nirizi[86],
il quale la riprende da un certo Aganis, un matematico greco sicuramente
successivo a Proclo, di cui non sappiamo nulla di più[87].
Il disegno che segue schematizza il facile
ragionamento che "dimostra", a nostro parere, perché l'intelletto
umano "vede" il punto di intersezione tra la retta R e la semiretta T
(R è una qualsiasi retta del piano ordinario, a un suo punto, P la
perpendicolare ad R uscente da a, b un qualsiasi punto su P, distinto da a, S
la perpendicolare a P uscente da b, T diciamo una semiretta, con vertice in b,
"interna" alla semistriscia di cui in figura).
(Figura 4)
Esplicitiamo la semplice argomentazione. Sia x un
qualsiasi punto della semiretta T, e x' la sua proiezione perpendicolare su P.
Sia y un punto su T, susseguente ad x nel verso naturale di T (adesso esiste un
unico verso naturale di T, che è una semiretta), tale che il segmento sia uguale al
segmento , e sia ancora y' la proiezione perpendicolare di y su P.
"E' chiaro" che, così procedendo, si ottiene una successione di
segmenti contigui di P, , , ..., la cui unione, per il postulato di Archimede, finirà a
un certo momento per contenere il segmento . Come dire che esisterà un punto su P, nella figura è stato
indicato con z', tale che É . z' risulterà naturalmente la proiezione perpendicolare di
un certo punto z Î T, ossia la perpendicolare
per z' a P interseca T in z. La conclusione deriva dall'osservare che la retta
R deve allora anch'essa intersecare la retta T (nella figura il relativo punto
è stato indicato con c), dal momento che, "entrando" nel triangolo
z'zb, essa ne deve pure "uscire"[88].
Facile comprendere perché la precedente
dimostrazione non funzioni nel caso
di una geometria non euclidea (iperbolica). Pur essendo i segmenti , , ... "uguali" (congruenti) per costruzione, non
risultano tali le loro proiezioni perpendicolari su P, , , ..., anzi esse andranno forse (quando T non interseca R)
progressivamente riducendosi in modo che la "serie" ÈÈ... converga (senza superare
), e non diverga. Facile pure comprendere però quale sia il
"postulato" sottinteso che la mente umana applica nel riconoscere
(anche inconsciamente) la validità del menzionato ragionamento. L'operazione di
proiezione perpendicolare è compatibile con il preordine naturale dei segmenti
(e quindi in particolare trasforma coppie di segmenti "uguali" in
coppie di segmenti "uguali"). In parole più sofisticate, ecco il
"V postulato" come si potrebbe-dovrebbe enunciare.
Assioma della
parallela.
Date due rette incidenti R e S (come in figura), detta
p : S ® R la proiezione
perpendicolare della seconda sulla prima, p è un morfismo d'ordine (una volta
che si siano scelti su R ed S versi "concordi") che induce
un'applicazione p° tra Seg(S) e Seg(R), la quale è pure un morfismo d'ordine[89]
(rispetto al preordine naturale di cui sono dotati tali insiemi).
(Figura 5)
Ossia, dati i quattro punti
x, y, z, t su S come in figura, dalla £ si deve poter
dedurre, posto x' = p(x) etc., p°() = £ p°() = .
Riteniamo infatti il
precedente asserto propriamente inerente alla "natura" della retta,
che non è soltanto la linea più breve
tra due punti. E' appena il caso di aggiungere che, dato un segmento Î Seg(S), si ha necessariamente:
p°() = < [90],
e che il rapporto tra p°() e è una costante che
definisce il coseno dell'angolo a tra R ed S. Nel caso invece
di una geometria iperbolica, avente curvatura K = , la precedente disuguaglianza rimane valida (la
"contrazione" di una proiezione perpendicolare è un "teorema
assoluto"), ma la relazione tra segmento proiettante e proiettato diventa
assai più complicata. Se indichiamo con a il punto di intersezione tra S ed R,
e con x, h le rispettive misure dei segmenti , rispetto a una comune
unità di misura, sussiste, come noto, l'identità: tgh() = tgh()*cos(a), e se si raddoppia per esempio x, non risulta conseguentemente raddoppiato h (potremmo dire che una "retta"
della geometria iperbolica non è "lineare"), la differenza tra tgh() e tgh()*cos(a) riuscendo uguale alla seguente complicata
espressione:
tgh() - - tgh()*cos(a) + *cos(a) =
= *cos(a) - .
Abbiamo riportato in maniera
estremamente sintetica le nostre osservazioni, ma speriamo siano state lo
stesso sufficienti a "illuminare" su possibili modi diversi di
trattare l'intera questione dei "fondamenti della geometria"[91].
8.
Il tempo non è un concetto
empirico, ricavato da una esperienza. La simultaneità o la successione non
cadrebbe neppure nella percezione, se non vi fosse a priori a fondamento la
rappresentazione del tempo. Solo se presupponiamo il tempo, è possibile
rappresentarsi che qualcosa sia nello stesso tempo (simultaneamente), o in
tempi diversi (successivamente). Il tempo è una rappresentazione necessaria,
che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può rispetto ai fenomeni in
generale, sopprimere il tempo, quantunque sia del tutto possibile toglier via
dal tempo tutti i fenomeni. Il tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è
possibile la realtà dei fenomeni. Questi possono sparir tutti, ma il tempo
stesso (come condizione universale della loro possibilità), non può esser
soppresso. [...] Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice,
universale, ma una forma pura dell'intuizione sensibile.
Il tempo non è altro che la
forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato
interno. [...] Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in
generale. [...] Il tempo è dunque unicamente condizione soggettiva della nostra
(umana) intuizione [...].
(Kant, CRP, Estetica trascendentale, § 4: 1-2-4; § 6: b-c, pp. 73-76)
In conclusione della
parte "tecnica" del presente lavoro ci occupiamo del caso
dell'aritmetica, e quindi, in accordo con il nostro punto di vista, del tempo,
considerando pertanto per ultimo ciò che in realtà viene per primo,
conformemente all'osservazione di Heidegger:
«Tutto ciò che è in
senso essenziale [...] si mantiene ovunque nascosto quanto più a lungo
possibile. Nondimeno, rispetto al suo vigere dispiegato, esso rimane quello che
viene prima di tutto, cioè il più principale [...] ciò che, rispetto al suo
sorgere e imporsi, è primo diventa manifesto solo più tardi a noi uomini.
All'uomo, l'origine principale si mostra solo da ultimo»[92].
E'
evidente ormai in che modo si possono costruire i perfetti analoghi dei
ragionamenti presentati nel paragrafo 5 a partire però dalla retta temporale Q, che è uno spazio discreto (senza minimo e
senza massimo), i cui elementi sono gli "istanti" (o "monadi di
tempo"[93]).
Apriamo
una breve parentesi per dire che siamo ben consapevoli che l'opinione secondo
la quale l'intuizione del tempo sia discreta non è universalmente condivisa,
ciò nonostante essa ci sembra l'unica soluzione possibile tenuto conto
dell'"esperienza mentale", e di conferme offerte implicitamente dal
linguaggio comune, in cui è lecito parlare di "istante successivo",
mentre non ha alcun senso ovviamente parlare di "punto successivo" a
uno dato[94]. Possiamo
iniziare una panoramica di illustri opinioni contrarie alla nostra cominciando
da quella di Aristotele:
«risulta
necessario che anche il tempo sia continuo» (Fisica, VI, 4)[95],
passando
poi per Bernhard Bolzano:
«Si
deve, certo, convenire che due istanti qualsiasi sono separati da un insieme
infinito di istanti tra essi compresi»[96],
e
terminando con Hermann Weyl:
«Esempi
particolarmente importanti di sistemi continui sono lo spazio e il tempo»[97].
Replichiamo
in breve dicendo solamente che riteniamo simili pareri conseguenti a una
"confusione" delle due forme spazio e tempo in una sola, come accade
per esempio soprattutto in fisica (nella "pratica" della fisica),
tramite la definizione di velocità. Essendo infatti questa grandezza uguale a
spazio/tempo, ecco che sembra possibile derivare l'identità spazio = tempo,
quando si ponga la velocità uguale a 1[98].
La conseguenza è che entrambi i termini vengono allora concepiti a tutti gli effetti riducibili (in quanto
risultati di "misure") all'unico concetto di numero reale,
dimenticando però in tal guisa: primo, che qualunque risultato di misura non
può che essere un numero razionale; secondo, che se potrebbe avere senso
parlare di una misura spaziale uguale a , o a p, ecco che appare assai meno
sensata una frase del tipo "vediamoci fra p minuti".
In
altre parole, è usuale imbattersi nella pretesa che R e Q siano "isomorfi" (come spazi
ordinati), mentre la considerazione di un simile isomorfismo conduce secondo
noi a manifesti "paradossi", tra i quali sono rimasti famosi nella
storia della filosofia quelli di Zenone[99].
Lasciando
da parte tale pur importante questione, procediamo con la costruzione che
abbiamo in vista. Si introdurrà, speculare a Seg(R), l'insieme Seg(Q), facendo bene attenzione al fatto che un
segmento temporale (se si preferisce: intervallo) dovrà contenere almeno due istanti, i suoi estremi, che
rappresentano l'inizio e la fine di un qualsiasi "atto"
(soprattutto: di pensiero). Anche adesso Seg(Q) risulta il supporto di una
struttura naturale di preordine totale, la cui interpretazione è immediata:
poiché ogni segmento temporale consiste di un numero finito di istanti, il
segmento , avente per estremi due istanti distinti a, b, sarà minore o uguale di un
altro simile segmento se, e soltanto se, il
numero (un numero naturale non inferiore a 2) degli istanti che lo compongono è
minore o uguale del numero degli istanti che compongono .
E'
chiaro quindi quale sia la relazione di equivalenza indotta su Seg(Q) da tale relazione di preordine, e che cosa
diventi infine il relativo insieme quoziente, che indicheremo ovviamente con il
simbolo SQ. Questo insieme sarà uno
spazio ordinato discreto avente minimo ma non massimo, una struttura naturale
di semigruppo abeliano (additivo) compatibile con l'ordine, etc.[100].
Insomma,
in conformità alla filosofia che guida queste riflessioni, non si dovrebbe
avere nessuna riserva nel proporre infine l'identità[101]:
N = SQ.
Il
procedimento di misura corrisponde attualmente all'individuazione di una
relazione d'equivalenza mQ in SQ´SQ che abbia le
caratteristiche prescritte dall'intuizione temporale. Non c'è bisogno delle
complicazioni in cui quella spaziale si è imbattuta nel caso di SR, dal momento che non esistono in SQ coppie di segmenti tra loro
incommensurabili[102].
Perciò, verosimilmente, il procedimento di misura relativo alla retta temporale
resta quasi inavvertito, fino al punto che può rimanere addirittura
"invisibile", e come tale pure, benché fondamentale, la presenza di Q. E' comunque palese che si ottiene adesso,
in perfetta analogia con l'identità
precedente:
Q+ = SQ´SQ/mQ.
Ecco
quindi che i numeri razionali compaiono sotto due aspetti: quantità (o grandezze) di natura temporale e di natura
spaziale, coerentemente del resto con la possibilità (inevitabile?!) di
"immergere" la retta temporale nella retta spaziale[103],
come mostrato nella seguente figura.
(Figura 6)
A
partire da due punti distinti, arbitrariamente scelti, a e b, si considera la
sequenza b', b'', dei punti tali che º º º ... , e l'analoga sequenza
-b,
-b', -b'', ... dei punti "simmetrici" di quelli della prima rispetto
al punto a. Si pensi se si vuole ad R ordinata nel verso in cui a precede b,
cioè nella seguente figura da sinistra verso destra.
Si
tratta di "banalità" sulle quali non insistiamo. Sottolineiamo invece
che la differenza con il caso spaziale è evidente. Esiste adesso un minimo di SQ, l'unità, o "cronone"[104].
Essa genera per somma tutti i segmenti temporali (liberi). C'è quindi la
possibilità di una "misura assoluta" di un segmento temporale, la
misura rispetto a un cronone, che sarà sempre un numero naturale (un numero
razionale "improprio"). Il cronone non è però l'istante, ed ecco
spiegato (secondo noi) un equivoco perdurante. Quando si effettua la misura
assoluta di un segmento temporale consistente di n istanti, il risultato non è
n, bensì ... n-1, perché la somma di un segmento temporale costituito da m
istanti con uno che ne contiene n, produce un segmento temporale consistente di
m+n-1 istanti, e non m+n (come nel caso spaziale, per poter essere sommati due
segmenti vanno traslati e pensati contigui, e quindi con un estremo in comune).
Sulla
stessa linea di pensiero, nel momento in cui si va ad aggiungere al dato
semigruppo SQ l'elemento neutro, lo zero,
si deve procedere nel medesimo modo quando si aggiunge il vettore nullo a SR. Esso è un'unica classe di
equivalenza di coppie ordinate di punti di R, la "diagonale" DR Ì R´R, l'insieme di tutte le
coppie ordinate "equivalenti" (x,x) (x un qualsiasi punto di R)[105].
Lo zero aritmetico sarà analogamente l'insieme di tutte le coppie (a,a), dove a è un qualunque istante. In altre parole, non si può effettuare la misura di un
segmento temporale rispetto allo zero,
che è un segmento temporale (libero) formato da un unico istante. Infatti,
malgrado venga voglia di dire che il risultato di tale misura sia precisamente
il numero naturale n di istanti contenuti in , la somma 0+0+... n volte fa sempre 0, e non [106].
Non ci dilunghiamo su una fenomenologia
(dell'intelletto, e non dello spirito[107])
che ciascuno può elaborare da sé senza alcuna difficoltà, in quanto essa è in
effetti semplice e ... antica, in conformità all'opinione che ciò che è vero
non può essere nuovo, e ciò che è nuovo non può essere vero. Ci preme semmai:
1 - Sottolineare che, se ci si riflette bene, non
siamo di fronte a nessun "giro vizioso", del tipo rilevato da Hilbert
allorché «liquidò il programma logicista senza batter ciglio», nel suo
intervento al III congresso internazionale dei matematici svoltosi ad
Heidelberg nel 1904, obiettando sostanzialmente «che il lungo e complicato
sviluppo della logica comportava già la presenza dei numeri interi, anche se
non li nominava espressamente; per questa ragione il tentativo di costruire il
concetto di numero sulla logica si riduceva a un ragionamento circolare»[108].
2 - Proporre un confronto tra la precedente
costruzione e i tentativi di "riduzione" del concetto di numero
naturale alla teoria degli insiemi, effettuati prima da Frege (un numero
naturale come classe di insiemi finiti tra loro equipotenti), ma soprattutto da
John (János, Johann) von Neumann.
Come ben noto, il secondo introdusse la serie degli
"ordinali finiti" nel seguente modo[109]:
0 = Æ,
1 = {Æ},
2 = 1È{1} = {Æ,{Æ}} = {Æ,1} ={0,1},
3 = 2È{2} = {Æ,{Æ},{Æ,{Æ}}} = {Æ,1,2} = {0,1,2},
...
n + 1 = nÈ{n} = {0,….,n},
da cui, automaticamente, la catena di
disuguaglianze:
0 < 1 < 2 < 3 < ...,
la quale si riduce non solo alla catena di
inclusioni insiemistiche (i numeri sono insiemi!):
0 Ì 1 Ì 2 Ì 3 Ì ... ,
ma anche alla catena di appartenenze:
0 Î 1 Î 2 Î 3 Î ... .
Peccato però (per l'ideatore, e gli estimatori, di
un simile "gioco", assolutamente lontano a nostro parere
dall'autentica genesi mentale del concetto di numero), che la somma 1+1 non corrisponda all'unione insiemistica
1È1. Tale somma insiemistica, iterata a partire
da un dato insieme, non può mai produrre nulla di nuovo, mentre 1+1+1+...
produce tutti i numeri. La precedente
costruzione dell'aritmetica propone, non troppo per scherzo, una fondazione
basata soltanto sul concetto di insieme
vuoto, e poiché l'aritmetica fonderebbe a sua volta la geometria,
attraverso il concetto di numero reale costruito in maniera aritmetizzante,
ecco che l'intera matematica verrebbe ad essere letteralmente fondata sul vuoto, il che rimanda
all'affermazione di Kant citata in epigrafe al paragrafo 1. Riportiamo infine,
come esempio del modo con cui viene interpretata (giustamente) la costruzione
di von Neumann, alcune osservazioni di Edgar James Delpero[110] (che si collocano sulla
sponda opposta alla nostra in quanto a "giudizi di valore", ma sono
peraltro coerenti).
«Il nostro scopo dimostrativo è ricavare l'uno da
zero, in altre parole il tutto dal nulla [...] La riduzione dell'aritmetica
alla teoria degli insiemi, e dunque dei numeri al nulla, è stata compiuta da
Gottlob Frege nel 1884, e semplificata da John von Neumann nel 1923. [..] Non c'è
però nessun motivo per fermare la potenza generativa del nulla, che costruisce
gratuitamente sostanza a partire dalla pura forma [...] Ovviamente, una volta
innescato, il processo esplode in un Big Bang numerico che prosegue senza
sosta, generando via a via infinit[i] sempre più complicati, benché tutti
riducibili in ultima analisi al nulla»[111].
9.
Rideat me ista dicentem, qui
non eos videt, et ego doleam ridentem me.
(Aurelio Agostino, Confessionum Libri Tredecim, L. X, 12)
Abbiamo esposto nei paragrafi precedenti i risultati
di una "investigazione delle leggi dell'intelletto" relativa a un
preteso duplice fondamento della
matematica costituito dalle "intuizioni" contrapposte del discreto e
del continuo, e alla genesi del concetto di numero mediante un'unica operazione di misura a partire o
dalla retta temporale, o dalla retta spaziale. Tre sono dunque gli Urmengen, spazio, tempo, e se si
vuole ... l'insieme vuoto, e di due
diverse specie gli Urelementen, istanti e punti. Tale convinzione corrisponde alla seguente identità
fondazionale (nel solito simbolismo autoesplicativo):
Ob°(Set) = {Æ, Q, S},
che
volendo si può precisare in un senso più propriamente "matematico"
nelle due "ipostatizzazioni":
Q Þ SQ , S Þ SS,
due semigruppi abbastanza simili ma non troppo, che
ci sembrano l'espressione matematica delle forme pure kantiane.
In che modo interpretare allora gli sviluppi
della matematica "post-moderna"[112]?
Tutto da buttare via? (come riteneva forse verso la fine della vita Frege, che
pure ne era stato inizialmente conquistato, tanto da parlare, e secondo noi non
insensatamente, del sopravvento di un Morbus
mathematicorum recens). Evidentemente no, fatto salvo che non si confonda
il punto di arrivo (o una tappa successiva) con il punto di partenza di un
"itinerario"[113]
sempre più complesso, e che non si voglia riservare la caratteristica di
"rigore" solamente ad alcune
filosofie della matematica[114].
Queste parole rimandano a una concezione della materia come disciplina in
"divenire". Nella fase iniziale-fondazionale essa è (non può non
essere) una "investigazione delle leggi dell'intelletto"[115],
e quindi non può uscire dai limiti dell'antropocentrismo. In una seguente essa
si amplia fino a diventare lo «studio di tutte le possibilità di pensiero di
una mente infinita»[116].
Si potrebbe obiettare che il "pragmatismo"
di matrice anglosassone e il descritto "universalismo metafisico"
siano agli antipodi, e quindi difficilmente proponibili a contrassegnare una
medesima "scuola di pensiero". Eppure riteniamo che sia proprio così,
e che non esista nessuna incoerenza nella loro compresenza nell'attuale comune
concezione della matematica: i due estremi si possono infatti scambiare a
piacere secondo le circostanze. Al contrario, la posizione da noi illustrata ci
sembra individuare allora un aristotelico "medio proporzionale", e
l'immagine ci fa piacere. Si noti del resto che tutte le definizioni di
"categorie" di strutture sempre più generali, si fondano in ultima
analisi su qualche proprietà delle strutture "esistenti" al primo
livello (si rammenti l'osservazione di W. Kuyk riportata nella nota 30), in una
corrispondenza che garantisce il tanto ricercato criterio di "non
contraddittorietà" della matematica[117].
Volendo
infine trovare per forza un appunto da muovere all'analisi kantiana della
situazione, più che sulla descrizione e sul ruolo delle pure forme a priori
spazio e tempo, esso ci pare potrebbe basarsi sul prosieguo della citazione
apposta da Hilbert in epigrafe ai Grundlagen...
(cfr. la nota 84).
«Quantunque,
rispetto a tutti e tre questi elementi [intuizioni, concetti, idee], [la
conoscenza umana] abbia fonti conoscitive a priori, che a prima vista paiano
sdegnare i limiti di ogni esperienza, pure una critica compiuta ci convince,
che ogni ragione non può mai, nell'uso speculativo, spingersi con questi
elementi al di là del campo dell'esperienza possibile, e che la destinazione
propria di questa suprema facoltà della conoscenza è di servirsi di tutti i
metodi e dei loro principii per indagare nel suo intimo la natura secondo tutti
i principii possibili di unità, tra cui quello dei fini è il più importante, ma
non varcare mai quei limiti, di là dai quali per noi non c'è più se non lo
spazio vuoto».
Ecco,
forse qui Kant sottovaluta i limiti dell'esperienza possibile del pensiero (o
dello "spirito"), e l'imperscrutabilità dei confini di quello di una
"mente infinita", con qualche eco (negativa), ci sembra,
dell'osservazione più tardi fatta propria da Hegel, in ordine a un'ipotizzabile
coincidenza del reale e del razionale[118],
il primo ambito essendo invece a nostro parere contenuto nel secondo[119],
ma enormemente, riteniamo, di esso più "ristretto"[120],
e con ciò crediamo che possa finalmente bastare...
* * * * * * *
Umberto
Bartocci, settembre 2005
Dipartimento di Matematica dell'Università degli
Studi di Perugia
bartocci@cartesio-episteme.net
* * * * * * *
(http://www.hkbu.edu.hk/~ppp/Kant_gallery.html)
[1] Qui ci riferiremo sempre
all'edizione italiana in due volumi, Laterza, Bari, 1924, ristampa della
seconda edizione (Classici della filosofia moderna a cura di Benedetto Croce e
Giovanni Gentile), tradotta da Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice.
D'ora in avanti semplicemente CRP.
[2] Mi riferisco principalmente
alla situazione italiana, ma ritengo che essa sia più o meno simile a quella di
altri paesi.
[3] L'effetto è che si comincia
... dalla fine, come si spiegherà meglio nell'ultimo paragrafo (appunto!).
[4] La prima opera di Darwin
(vedi la nota 112) fu pubblicata nel 1859; al 1872 si debbono i primi contributi
alla cosiddetta aritmetizzazione dell'analisi (vedi paragrafo 6).
[5] Carl B. Boyer, A History of Mathematics, John Wiley
& Sons, New York, 1968; trad. it. Storia
della matematica, I.S.E.D.I., Torino, 1976; Oscar Mondadori, Milano 1980,
1990, pp. 621-622.
[6] Dietro cui c'è purtroppo il
pensiero di Gauss, che riteneva la geometria di origine empirica, e voleva
verificare con esperimenti ottici se lo "spazio reale" fosse euclideo
oppure no, a parte tutto così confondendo irreversibilmente le categorie del reale
e del pensato (cfr. anche le note 93, 98, 104; a proposito delle opinioni
filosofiche di Gauss cfr. la nota 71).
[7] Herbert Meschkowski, Mutamenti nel pensiero matematico,
Boringhieri, Torino, 1973, p. 87.
[8] Lezioni su Kant, svolte presso l'Università di Torino tra il 1924 e
il 1927; Feltrinelli, Milano, 1968, p. 47.
[9] Kant - Sechzehn Vorlesungen, gehalten an der Berliner Universität,
1904 (ripreso da Piero Martinetti, loc.
cit. nella nota 8, p. 47). L'osservazione di Simmel ci sembra analoga a
un'altra di Otto Liebmann, che spiega nel seguente modo l'«idealità
trascendentale» dello spazio e del tempo: «essi sono e valgono solo nel mondo
delle nostre rappresentazioni, per il nostro senso, e quello degli esseri
simili a noi; [...] cessando di esistere questi, essi cessano di essere così
come sono» (Kant und die Epigonen,
Stuttgart 1865, rist. Berlin 1912; ancora da P. Martinetti, loc. cit., p. 42). Tali descrizioni
rimangono naturalmente a distanza abissale dal chiarire le modalità
fisiologiche con cui tali "forme pure" siano insediate
nell'intelletto, anche se la moderna informatica comincia a farci comprendere
qualcosa (analogia con un "sistema operativo", e quindi software, non hardware).
[10] Le ultime due citazioni
provengono da Corrado Mangione, "La logica nel ventesimo secolo", in Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico,
a cura di Ludovico Geymonat, vol. VIII, Garzanti, Milano, 1972; nuova edizione
1976, p. 199 e p. 247.
[11] A proposito di
"rigore" in matematica si veda la nota 43. Il discorso sulla relatività
sarebbe lungo, e non possiamo che rimandare ad altri lavori dell'autore
reperibili nel sito http://www.cartesio-episteme.net/. Qui basterà rammentare
che la relatività fu "santificata" prima delle sue (pretese) evidenze sperimentali, e che non deve
essere trascurato il ruolo che svolsero nella sua costruzione e successo
matematici puri quali Minkowski, Hilbert, Levi Civita, etc. («Physics in the shadow of Mathematics», scrive Lewis Pyenson,
tra i pochi storici della scienza che si accorgono di tale circostanza, in The Young Einstein - The advent of
relativity, Adam Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985, p. 101).
[12] Da un appunto contenuto
nella minuta di una lettera privata che si è fortunatamente conservata, ed è
riportato in John W. Dawson Jr, "L'accoglienza dei teoremi di
incompletezza di Gödel" (in Gödel's
Theorem in Focus, Stuart G. Shanker ed., Croom Helm, London, 1988; trad.
it. Il teorema di Gödel: una messa a
fuoco, Franco Muzzio, Padova, 1991).
[13]
http://matematica.uni-bocconi.it/toth/toth3.htm. L'autore in parola dimostra
anche piena consapevolezza del "valore filosofico" della matematica,
che in epoca di imperante pragmatismo viene sovente messo in secondo piano: «mi
sono reso conto fin dall'inizio che la matematica non si riduce al solo calcolo,
alla risoluzione di problemi o al ragionamento deduttivo: benché essi siano
sofisticati e degni di ammirazione, restano per me dei rompicapo, certo di alto
livello, altissimo anche, ma sempre dei rompicapo».
[14] E' assai più dannosa
l'incompletezza della storia che quella ... dell'aritmetica.
[15] Con tale impostazione
intendiamo implicitamente alludere alla concezione della scientia, o della veritas,
quale adaequatio, sia che si tratti
di adaequatio intellectus et rei,
secondo la nota definizione tomistica, o di adaequatio
rei ad intellectum, secondo la definizione che ne dà invece Nicola Cusano.
Il più comune riferimento alla definizione di S. Tommaso (che concerne la veritas, o veritas logica) rimanda alla Summa
Theologiae, I, Quaestio XXI, De Iustitia et Misericordia Dei, Art. 2 («veritas consistit in adaequatione intellectus et rei»), oppure,
nella stessa Parte I, alla Quaestio XVI,
De Veritate, Art. 2 («Isaac [Isaac ben
Solomon Israeli, medico e filosofo vissuto tra il IX e il X secolo.] dicit, in libro De Definitionibus, quod
veritas est adaequatio rei et intellectus»). La chiara anticipazione
kantiana di Cusano, che riguarda la scientia,
si trova nel Compendium (10, 34:20-21).
Non manca naturalmente chi suggerisce di modificare la definizione proposta dal
filosofo di Küs, uno dei "padri della modernità", con: adaequatio intellectus ad rem, trovando
l'altra di stampo eccessivamente antropocentrico. Ma è poi possibile, al di là
di un certo banale limite, modificare il proprio "sistema operativo"?
(cfr. la nota 9).
[16] Come si vedrà, però, la
nostra procedura comprende anche una "spiegazione naturale" del
significato del segno.
[17] "Untersuchungen über
die Grundlagen der Mengenlehre I", Mathematischen
Annalen, 65, 1908. L'articolo si trova
anche in traduzione inglese, "Investigations in the foundations of
set theory I", in From Frege to
Gödel - A Source Book in Mathematical Logic, 1879-1931, edited by Jean van
Heijenoort, Harvard University Press, 1967, pp. 199-215.
[18] Con l'effetto che l'unico
"oggetto" privo di elementi in una moderna teoria degli insiemi è
l'insieme vuoto, mentre gli insiemi in generale devono essere insiemi di
"elementi", che non sono necessariamente insiemi. Ecco apparire in
una veste precisa il "nichilismo" (metafisico, oppure ontologico, come
si preferisce) a cui si accennava dianzi, ma ne riparleremo nel paragrafo 8, a
proposito di von Neumann e della sua descrizione dell'aritmetica.
[19] Quello di retta è un termine forse inopportuno, ma
viene utilizzato in mancanza di meglio per rimarcare almeno l'analogia
unidimensionale (sottolineata pure da Kant, CRP,
p. 73). Le distinzioni tra R e Q sono evidenti, ma
mettiamone subito in evidenza una che rischia altrimenti di passare
inosservata: R si può immergere nel piano e nello spazio, Q non ammette alcuna forma intuitiva di
estensione (non replichiamo neppure a chi volesse porre l'"identità":
Q = R, e proponesse di conseguenza l'estensione R Ì R2, con x ® (x,0); cfr. la nota 99).
[20] Un chiarissimo accenno al
duplice e "naturale" fondamento della matematica sulle intuizioni del
discreto e del continuo che noi sceglieremo come chiave di volta di questo
articolo, e che danno origine alle due distinte (sebbene interagenti)
discipline chiamate aritmetica e geometria. Bisogna riconoscere però che
Aristotele così prosegue: «Poniamo un'unica e identica scienza di tutte queste
cose, la geometria», laddove noi useremmo invece il termine collettivo:
"matematica". A proposito di matematica e di Aristotele, val forse la
pena di ricordare che secondo Anatolio (vescovo di Laodicea, vissuto nella
seconda metà del III secolo DC): «Perché la matematica è chiamata così? I
Peripatetici [Ovvero, i seguaci di Aristotele.], che dicono che la retorica, la
poesia e la musica popolare possono essere praticate anche senza essere studiate,
ma che nessuno può capire le cose che vengono chiamate con il nome matematica
senza averle prima studiate, rispondono che per questa ragione la teoria di
queste cose è detta matematica» (vol. IV dell'Opera Omnia di Erone, Heronis
Alexandrini Opera quae supersunt Omnia, Leipzig, 1899, 160.8-162.2; la
citazione è ripresa da Lucio Russo, La
rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 222, in cui si
informa che: «vari brani di Anatolio sono stati pubblicati con le opere di
Erone perché erano nella raccolta bizantina che ci ha conservato le Definizioni di Erone»).
[21] Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, traduzione e note di
Maria Timpanaro Cardini, Giardini, Pisa, 1978, p. 57.
[22] L'Instauratio Magna (1623), espressione di un progetto grandioso sin
dal titolo, contiene, oltre al Novum organum sive indicia vera interpretatione naturae, anche De dignitate et
augmentis scientiarum, ovvero The Two Books of Francis Bacon, of The Proficience and
Advancement of Learning, Divine and Human (1605), da cui è ripresa la
citazione in oggetto (Book 2, VIII, 2).
[23] Règles utiles et claires pour la direction de l'Esprit en la recherche
de la Vérité, ovvero Regulae ad
directionem ingenii (pubblicate per la prima volta nella versione integrale
latina soltanto nel 1701, ad Amsterdam, negli Opuscula posthuma, physica et mathematica, costituenti il volume IX
dell'Opera omnia del grande
filosofo), Regola quarta.
[24] Loc. cit. nella nota 23.
[25] Mathematischen Schriften, ed. Gerhardt, 111, 53 (la citazione è
ripresa da Federigo Enriques, Le
matematiche nella storia e nella cultura, Lezioni pubblicate per cura di
Attilio Frajese, Zanichelli, Bologna, 1938, p. 140).
[26] Anche Hermann Weyl, pur non
seguendo un approccio kantiano, riconosce la dipendenza dell'aritmetica dal
tempo: «Circa il rapporto in cui il numero si trova con lo spazio e il tempo,
si può osservare che il tempo, come forma della pura consapevolezza,
costituisce un presupposto essenziale, e non accidentale, delle operazioni
mentali su cui si fonda il significato degli enunciati numerici»; «occorrono
speciali considerazioni per assicurare il fatto fondamentale che il risultato
del contare è indipendente dall'ordine» (Philosophie
der Mathematik und Naturwissenschaft, 1928; Philosophy of Mathematics and Natural Science, Princeton University
Press, 1949; trad. it. Filosofia della
matematica e delle scienze naturali, Boringhieri, Torino, 1967, p. 44 e p.
41).
[27] Linear associative
algebra, Washington, 1870, p. 1. In versioni preliminari del testo si
trova scritto: «Mathematics is the science that draws inferences»; «Mathematics
is the science that draws consequences». Poco più avanti (p. 3) l'autore
afferma che: «Mathematics, as here defined, belongs to every enquiry; moral as
well as physical. Even the rules of logic, by which it is rigidly bound could
not be deduced without its aid».
[28] Che non era affatto una
"battuta" in perfetto humor
inglese come molti ritengono. Il pensiero si trova in "Recent Work on the
Principles of Mathematics", International
Monthly, 1901, vol. 4, p. 84. Russell propose in seguito la definizione:
«Pure mathematics is the class of all the propositions wich have the form
"p implies q" where p and q are propositions containing one or more
variables, wich are the same in each proposition, and neither p nor q contains
a single constant except the logical constants» (The Principles of Mathematics, 1903; cfr. la nota 70).
[29] Non useremo un ordine
costante nel nominarli, anche se l'esistenza di un ordine naturale tra di essi
potrebbe essere argomentata: il tempo-discreto verrebbe "prima", per
una serie di considerazioni (se ne vedrà in seguito qualche esempio implicito)
non basate esclusivamente su un criterio di "semplicità", cui allude
già Proclo di Costantinopoli: «[Una scienza] che discende da ipotesi più
semplici è più esatta di quella che deriva da principii più complessi, e quella
che dice il "perché è così" è più esatta di quella che conosce solo
il "che è così" [...] l'aritmetica è più esatta della geometria,
perché i suoi principii si distinguono per la semplicità [...] e il principio
dell'aritmetica è l'unità» (loc. cit.
nella nota 21, Prologo, Parte II, Introduzione).
[30] Curioso riscontrare per
esempio che in un intero libro intitolato Il
discreto e il continuo (Willem Kuyk, Boringhieri, Torino, 1982), un'opera
del resto interessante e alquanto avanzata dal punto di vista
"tecnico", non è riportata nessuna delle definizioni ricercate (ci
sembra, neppure quella topologica sopra menzionata), ma solo considerazioni di
taglio insiemistico, assieme a un vago (ma in ogni caso secondo noi
epistemologicamente corretto) accenno del tipo: «dopo aver formato, attraverso
un complicato processo di apprendimento, i concetti di continuo (le
"entità" geometriche) e di discreto (le "entità" dei numeri
naturali), la mente umana gode di una grandissima libertà nell'operare con essi
come "materiale base" per la costruzione di "strutture"»
(p. 10). Né di più si rinverrebbe in Das
Kontinuum - Kritische Untersuchungen über die Grundlagen der Analysis
(Veit, Leipzig, 1918, e 1932; trad. it. Il
continuo - Indagini critiche sui fondamenti dell'analisi, Bibliopolis,
Napoli, 1977) di Hermann Weyl, nonostante il relativo capitolo II si intitoli
"Il concetto di numero e il continuo - Fondamenti del calcolo
infinitesimale", perché vi si fa unico riferimento all'uso cantoriano di
attribuire il termine continuo alla totalità dei numeri reali. Quindi,
occuparsi del continuo significa, da questa prospettiva, illustrare la
successiva meticolosa costruzione di tali numeri. Una costruzione non
geometrica, e pertanto secondo noi "non adeguata" (alle leggi
dell'intelletto), cfr. la nota 15.
[31] Tale condizione è
ovviamente introdotta al fine di evitare casi banali, di dover riconoscere cioè
continuo il vuoto o un singleton.
[32] Cfr. per esempio Joseph G.
Rosenstein, Linear Orderings,
Academic Press, New York-London, 1982, p. 25.
[33] Citiamo l'opinione dello
stesso Dedekind: «Le ultime parole illuminano chiaramente la via per la quale
si può giungere a un campo continuo ampliando il campo discontinuo R dei numeri
razionali» (Stetigkeit und irrationale
Zahlen, Braunschweig, Vieweg & Sohn, 1872; Essenza e significato dei numeri,
Continuità e numeri Irrazionali,
traduzione di Oscar Zariski, A. Stock,
Roma, 1926). Per noi, al contrario, il campo dei numeri razionali (che
indicheremo con Q) non sarà
"discontinuo", bensì continuo. Siamo di fronte a un esempio di quanto
un differente "atteggiamento filosofico" possa influenzare la
descrizione dei medesimi "fatti" matematici.
[34] Il segmento iniziale Sx
di un insieme bene ordinato S individuato da un elemento x Î S è costituito da tutti gli elementi y Î S tali che y < x (la corrispondenza x ® Sx è un isomorfismo d'ordine,
essendo l'insieme dei segmenti iniziali totalmente ordinato per inclusione).
Noi chiamiamo sn, per ogni numero naturale
n, il segmento iniziale Sn+1, di modo che n ® sn diventa una scelta canonica
per un insieme con n elementi. Si può introdurre volendo anche l'insieme s0 = S1, allo scopo
di includere pure il caso dell'insieme vuoto.
[35] Ovvero, è isomorfo allo
spazio ordinato "opposto" di N,
che è isomorfo a -N, l'insieme dei
numeri interi negativi, con
l'ordinamento ancora "naturale": ...< -3 < -2 < -1.
[36] L'insieme dei numeri interi
relativi, con la struttura d'ordine naturale:
...<
-3 < -2 < -1 < 0 < 1 < 2 < 3 <... .
[37] Si veda quanto se ne dirà
nel paragrafo 4.
[38] E' ovvio che la nozione di
segmento non dipende dal verso prescelto per R. Sottolineiamo che per noi un
segmento, senza altre specificazioni, sarà sempre un sottoinsieme di R
"chiuso" e "limitato".
[39] Il teorema in questione fu
enunciato e dimostrato da Cantor, nel par. 9 dei "Beiträge zur Begründung
der transfiniten Mengenlehre", Mathematischen
Annalen, 46, 1895 (vedi la p. 304 dei Gesammelte
Abhandlungen mathematischen und philosophischen Inhalts, Springer-Verlag,
Berlin-Heidelberg-New York, 1980, o la p. 123 di Contributions to the founding of the theory of transfinite numbers,
Open Court Publ., 1915; Dover Publ., New York, 1955). Esso si trova anche in
Joseph G. Rosenstein, Linear Orderings,
Academic Press, New York-London, 1982, pp. 26-27.
[40] E' appena il caso di
sottolineare che tale numerazione non avrà nulla a che fare con l'ordine di X,
vale a dire, non sarà vero in
generale che x1 < x2 etc..
[41] E' questo il risultato del
famoso teorema di numerabilità di Cantor.
[42] Abbiamo asserito che questo
ragionamento è assai semplice. A chi volesse rilevare un anacronismo,
obiettando che diventa tale soltanto con il senno del poi, vale a dire dopo i
noti sviluppi dell'analisi cantoriana del concetto di infinito, replicheremmo
che non sono tanto gli alti livelli raggiunti da certa matematica di fine
ottocento a stupirci, quanto piuttosto la precedente arretratezza.
[43] Intuitivo secondo noi al pari del postulato sull'esistenza del
punto medio, o della tricotomia. Sebbene enunciato con piena consapevolezza
soltanto da Dedekind in una forma equivalente (Stetigkeit..., loc. cit.
nella nota 33), non si può negare infatti che tale postulato sia un portato
dell'intuizione ordinaria dello spazio, e che come tale ad esso sia stato fatto
ricorso in gran parte delle argomentazioni geometriche precedenti ... il 1872
(ivi compreso ogni trattamento non formale, o non aritmetizzante, dei numeri
reali). Il rischio altrimenti è di ritenere, e di indurre a ritenere, che
antecedentemente alla fine del XIX secolo non esistesse matematica, o non
esistesse matematica "rigorosa", includendo quindi nel numero dei
"non rigorosi" anche Lagrange, Laplace, Cauchy, lo stesso Gauss, etc..
[44] Qui bisognerebbe aprire una
parentesi terminologica, dal momento che è usuale indicare tale asserto pure
come "postulato di continuità". Per noi la continuità rimane però
quella della definizione N. 3, e uno spazio ordinato completo nel senso del
presente PC potrebbe persino essere finito. Si pensi anche al caso dell'unione
di due segmenti disgiunti di R, che non è uno spazio ordinato continuo, ma è
completo.
[45] Si noti che la completezza
non è altrettanto collegata alla proprietà topologica di compattezza. Un
intervallo aperto di R è completo nella
sua struttura d'ordine pur non essendo compatto. L'esempio lascia comprendere
che la completezza non ha a che fare nel presente contesto con l'idea di
"non estendibilità" in una struttura della medesima specie (e in
relazione particolare a quella di partenza).
[46] Ci si potrebbe domandare
quindi se detta intuizione abbisogni oppure no di argomentazioni geometriche
pluridimensionali (tramite un'immersione di R nel piano ordinario P), con
conseguenti considerazioni di diagonali di quadrati, di pentagoni regolari, etc.. Essa appare in effetti
esclusivamente inerente alle proprietà dell'ordine 1-dimensionale, anche se la
"necessità" della tricotomia risulta evidente da considerazioni di
geometria piana quali quelle espresse nell'illustrazione della figura 1.
Omettiamo considerazioni pur interessanti sulla assoluta inadeguatezza del
termine "irrazionale", come se certi enti del pensiero, quali punti,
segmenti, e relative misure, non fossero pienamente razionali, o intuitivi, o i numeri reali detti appunto irrazionali
non fossero anch'essi esattamente dei rapporti (ratio), naturalmente rapporti tra gli oggetti "giusti", e
cioè segmenti. Ovvero, chissà mai
perché dovrebbero essere rapporti tra numeri interi, e chissà mai perché si
dovrebbe pretendere che due segmenti arbitrariamente assegnati abbiano un
sottomultiplo comune, quando è assolutamente manifesto che "in
generale" l'uno non sarà un multiplo intero dell'altro. Insomma, ci sembra
che irrazionale, almeno nell'accezione semantica che è stata poi annessa a tale
termine, non sia che una cattiva traduzione (lo studio della cui origine ci
riporterebbe a scritti latini della prima cristianità, quali quelli di S.
Agostino, o Magno Aurelio Cassiodoro; ma anche in questo caso la verità rischia
di essere meno semplice di quanto non si ritenga comunemente, vedi quanto se ne
dirà nella nota 102) dell'alogoV (alogos)
o arrhtoV (arrhetos) degli antichi Greci, che noi preferiamo interpretare,
piuttosto che come "privo di rapporto" (o addirittura
"illogico"), semplicemente come inesprimibile in modo esaustivo in un
determinato linguaggio. E' questo un punto che sottolinea una volta di più
l'abisso che corre tra la categorie del "pensato" e del
"parlato", tra i "nomi" e le "cose", comprendendo
tra di esse le "cose ideali", cioè i "pensieri". La triade fondamentale entro cui si muove tutta l'esperienza umana è: reale,
pensato, parlato.
[47] Si pensi per esempio, per
ogni numero naturale n, agli spazi In ordinati con l'ordinamento
lessicografico (I designa l'intervallo chiuso [0,1] di R). Si tratta di spazi che hanno tutti la potenza del continuo, ma
non sono isomorfi per valori distinti della "dimensione" n (bastreà
poi privarli del minimo e del massimo).
[48] Non si può quindi neppure
asserire che uno spazio continuo e completo abbia necessariamente la
"potenza del continuo". Si consideri infatti uno spazio del tipo Rw, ordinato con l'ordinamento
lessicografico, ove w è un qualsiasi numero
ordinale avente cardinale superiore al continuo. Rw è sicuramente un continuo,
e il suo "completamento" (che si ottiene aggiungendo allo spazio di
partenza tutte le sue lacune) è evidentemente un continuo completo di
cardinalità "grande" quanto si vuole.
[49] Naturalmente, uno spazio
del tipo in discorso sarà in generale isomorfo a uno e uno soltanto degli
intervalli [0,1], [0,1), (0,1], (0,1), di R,
a seconda che abbia rispettivamente massimo e minimo, minimo ma non massimo, etc..
[50] Nella prima parte dei
"Beiträge..." citati nella nota 39.
[51] «Con il termine
"insieme" noi intendiamo ogni raggruppamento M in un tutto di determinati e ben distinti oggetti m della nostra intuizione o del nostro
pensiero (che saranno chiamati gli "elementi" di M)». Si noti tra l'altro che per il fondatore della teoria degli
insiemi, conseguentemente, un insieme non è mai "concreto", in
qualche assonanza d'idee con quello che si dirà nell'ultimo paragrafo in ordine
a Urmengen e Urelementen.
[52] Non vale cioè la proprietà
antisimmetrica, abbiamo solamente riflessività e transitività.
[53] Quindi, gli oggetti della
geometria, spazio, piano e retta ordinari, sarebbero "sede" di
diverse strutture naturali di G-spazio (G un sottogruppo dei rispettivi gruppi
AutSet(S) etc.),
come oggi si direbbe.
[54] La specificazione di cui
all'indice in basso sarà chiara quando si introdurrà l'analogo semigruppo SQ, a partire dalla retta
temporale Q.
[55] Si noti che non appare
difficile trasportare al caso dello spazio intero, 3-dimensionale, le
considerazioni sopra esposte, mediante l'introduzione di una più ricca
fenomenologia di "movimenti rigidi" quali le rotazioni, con l'effetto di avere anche lì un insieme Seg(S), e un
insieme quoziente che sarà palesemente "naturalmente isomorfo" a SR. Vale a dire SS @ SR, con simbolismo che ci pare
autoesplicativo.
[56] Un semigruppo si dice
regolare se in esso vale la regola di cancellazione, a destra e a sinistra.
[57] Un semigruppo (supponiamo
pure abeliano e regolare, per evitare talune difficoltà tecniche) si dice
ordinato se in esso è definita una relazione d'ordine totale £ soddisfacente la seguente proprietà: " x, x', y, y' Î A, (x £ x')Ù(y £ y') Þ x+y £ x'+y'.
[58] Un semigruppo abeliano
regolare ordinato si dice archimedeo se esso risulta tanto positivamente quanto
negativamente archimedeo, con ovvio (si spera) significato dei termini (un
elemento x di un semigruppo abeliano regolare ordinato si dice positivo se x
< x+x, e negativo se x > x+x). E' più comune trattare soltanto la teoria
dei gruppi ordinati, in particolare dei gruppi ordinati archimedei, ma noi
riteniamo che sia indispensabile conoscere anche solo i rudimenti della teoria
nel caso dei semigruppi, per ragioni che in questo lavoro rimarranno
sufficientemente evidenziate. Si noti che è possibile che un semigruppo abbia
per esempio la parte positiva non archimedea e la parte negativa archimedea, o
viceversa.
[59] Ci è inevitabile andare con
la mente all'episodio delle due
donne che ricorrono al giudizio del re biblico Salomone per l'attribuzione di un bambino, da ciascuna reclamato come
proprio (I Re, 3:16-28).
L'"uno" dell'aritmetica è un ente assolutamente indivisibile, a
differenza dell'unità dei numeri razionali o reali, o di un segmento di R, che
è "infinitamente suddivisibile". Anzi, potremmo asserire che nessun
altro concetto ideale come quello di segmento sembra godere della proprietà che
ogni parte ottenuta per suddivisioni successive è per sua stessa natura della
medesima "specie" dell'elemento indiviso (l'osservazione è ispirata
ad un'analoga di Edmund Husserl, Terza ricerca delle Logische Untersuchungen, 1900-1901, seconda edizione riveduta 1913,
Sesta ricerca: 1921; trad. it. Ricerche
logiche, due voll., Il Saggiatore, Milano, 1968; la Terza e Quarta ricerca
sono apparse anche a sé, in L'intero e la
parte, Il Saggiatore, Milano 1977).
[60] L'attenzione posta verso
coppie di segmenti anche tra loro incommensurabili può essere considerata la
novità all'origine della speculazione greca sulla geometria (razionalizzazione
della geometria, o geometria di precisione), del tutto lontana dalle
"applicazioni pratiche" che caratterizzano le matematiche elaborate
da altre culture, almeno per quanto finora conosciuto.
[61] Per esempio Hermann Weyl:
«Una scienza non può, nella individuazione e definizione del proprio campo di
indagine, andare oltre una rappresentazione isomorfa di esso. In particolare,
ogni scienza rimane del tutto indifferente circa l'essenza dei propri oggetti.
[...] La nozione di isomorfismo segna la ovvia insormontabile frontiera della
conoscenza» (loc. cit. nella nota 26,
pp. 31-32). Tale passo meriterebbe una disanima ben più attenta di quanto non
sia possibile fare qui. Noteremo soltanto che esso presuppone quale sola
possibilità di riconoscimento degli enti oggetto della conoscenza una
definizione assiomatico-formale, sicché rischia di dover essere inteso nel
seguente modo: l'unica scienza è la matematica; la matematica è indifferente a
questioni filosofiche essenziali quali la natura ideale dei propri oggetti di
studio; l'unico modo di fare matematica è di rifiutare i concetti di Urmenge e Urelemente. Ben strano punto di vista per un
"intuizionista", o almeno una persona che ha condiviso quelle
posizioni, e in seguito è loro rimasta comunque vicina (cfr. pure la nota 97).
Vero è che nella parte della citazione che abbiamo omesso Weyl riconosce la
possibilità di un intervento della «diretta percezione intuitiva», aggiungendo
subito però che «l'intuizione non è uno stato felice e ininterrotto etc.». Insomma, dobbiamo confessare che
(anche nel presente caso) la
"filosofia" di Weyl ci appare ambigua, e contraddittoria.
[62] Naturalmente, si potrà dar
senso anche a frazioni geometriche che abbiano al numeratore e al denominatore
dei segmenti ordinari, anziché liberi, passando semplicemente alle rispettive
classi di equivalenza. E' manifesto però il vantaggio che si guadagna
muovendosi, a livello di definizioni preliminari, in un ambiente dotato di una
struttura algebrica.
[63] Che Q+ non coincida con R+
è conseguenza per esempio della non numerabilità della retta, visto che Q+ è un insieme numerabile,
per il teorema di Cantor ricordato nella nota 41.
[64] Avendo in mente la nota 55,
è appena il caso di sottolineare che alla SS @ SR non corrisponde però
un'analoga V(S) @ V(R): la differenza tra
segmenti e vettori (nel passaggio dai "vettori applicati" ai
"vettori liberi" in ambiente pluridimensionale si utilizzano
unicamente le traslazioni, e non pure le rotazioni) consiste anche in ciò.
[65] R non ha del resto singoli
elementi privilegiati (tutti i punti sono "uguali" tra loro, un
effetto secondo noi della transitività del gruppo delle traslazioni), mentre R sì. Allo stesso modo, Seg(R) e SR non hanno singoli elementi
privilegiati, essenzialmente perché il citato gruppo degli automorfismi di SR agisce in maniera
transitiva (strettamente 1-transitiva) su SR.
[66] Corrado Mangione, loc. cit. nella nota 10, p. 369. Non è
detto naturalmente che questa sia l'autentica motivazione per esempio di
Weierstrass: data la tradizionale rivalità tra Berlino e Göttingen, da dove
spiravano i "venti nuovi" sotto l'influenza di Gauss (cfr. la nota
71), ci sarebbe da ritenere al contrario che l'aritmetizzazione sia stata
piuttosto ... una reazione dell'Analisi per sottrarsi a una sgradita filosofia
della Geometria (con il risultato di rendere però ancora più soddisfatti ...
gli "avversari"). La tentazione di costruire invece un unico schema
interpretativo progressivo appare invece irresistibile per la storiografia di
qualsiasi orientamento ideologico (compreso il nostro).
[67] Le costruzioni di Dedekind,
Cantor, etc., permangono quali
"modelli" della teoria dei numeri reali, vale a dire, particolari
"esempi" di campi ordinati archimedei completi, secondo linee di
sviluppo che ci appaiono però "ambigue" sotto il profilo
fondazionale, in quanto mescolanti senza esigenze di coerenza
"filosofie" diverse: l'aritmetica non è "puramente
formale".
[68] Gli entusiasti della
"modernità" dimenticano però che una fondazione di tipo
logico-insiemistico della matematica, se elimina apparentemente all'origine il
riferimento a concetti che possono essere ritenuti di natura vagamente
empirico-psicologica, indica perà come «basi più vere ed adeguate della nuova
pratica matematica» (loc. cit. nella
nota 10, p. 359) un terreno ben più infido della diretta percezione intuitiva
degli enti della geometria ordinaria. Per usare una metafora di Hermann Weyl,
«la roccia solida» sulla quale sembra fondato l'edificio della matematica è in
realtà costituita da «sabbia» (Il
Continuo.., loc. cit. nella nota
30, Introduzione).
[69] Carl B. Boyer, loc. cit. nella nota 5, p. 642.
Ripetiamo il nostro leit motif: la
rinuncia pregiudiziale al ruolo fondante dell'intuizione appare essere una
caratteristica dominante sia della matematica che della fisica del XX secolo.
[70] Principles of Mathematics, 1903, da non confondersi con i
successivi Principia Mathematica,
scritti in collaborazione con Alfred North Whitehead, 1910-1913.
[71] Ci sembra di poter asserire
che tale atteggiamento sia stato presente pure in Gauss (cfr. le note 6 e 66).
In una lettera (1844) ad Heinrich Christian Schumacher, il grande geometra di
Göttingen parla infatti dell'incompetenza matematica dei filosofi a lui
contemporanei: «non vi fanno rizzare i capelli sulla testa con le loro
definizioni?». Il giudizio negativo si estende anche ai tempi antichi
(escludendo per fortuna Aristotele): «Leggete nella storia della filosofia
antica quelle che i grandi uomini di quell'epoca, Platone ed altri (escludo
Aristotele) davano come spiegazioni». Gauss peraltro non risparmia le sue
critiche neppure a Kant: «anche con lo stesso Kant le cose non vanno molto
meglio; secondo me, la sua distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche
è una di quelle cose che cadono nella banalità o sono false». Russell sembra
imitare ancora una volta il "maestro" dei matematici post-moderni
(cfr. la nota 112) quando se ne esce con affermazioni del tipo: «I think
philosophy has suffered four misfortunes in the world's history - Plato,
Aristotle, Kant, and Hegel. If they were eliminated, philosophy would have done
very well» (da una trasmissione radiofonica andata in onda durante il periodo
in cui l'inglese stava scrivendo A
History of Western Philosophy, 1945). La critica di Russell alla filosofia
dello spazio di Kant consiste tutta in fondo sulla battuta che, se il grande
filosofo prussiano fosse nato tra le montagne della Svizzera anziché nella
piatta Königsberg, allora avrebbe senz'altro elaborato una teoria diversa! Non
mancano echi di anti-kantismo neppure in Weyl (che sembra scrivere avendo ben
presente la menzionata lettera di Gauss): «La distinzione kantiana fra i
giudizi analitici e quelli sintetici è esposta in modo così oscuro da rendere
quasi impossibile un confronto con il concetto preciso di validità formale
nella logica matematica» (loc. cit.
nella nota 26, p. 22). Il fatto è che Weyl si aspetta forse una
"definizione" linguistica di concetti che le parole servono invece
soltanto ad "evocare" nell'intelletto dell'interlocutore. Molto più
interessante allora il già citato Michael Polanyi (§ 2) quando scrive: «we can
know more than we can tell» (The Tacit
Dimension, New York, Anchor Books, 1967). Una scontata replica rinnoverebbe
le accuse di psicologismo e soggettivismo (in una simile occasione Alonzo
Church ebbe a obiettare seccamente a Paul Finsler che: «questi concetti
"restrittivi" hanno almeno il merito di essere comunicabili in modo
rigoroso da una persona all'altra»; da J.W. Dawson Jr, loc. cit. nella nota 12), ma il punto di vista
"trascendentale" ci sembra al di là dei detti limiti, comunque sempre
preferibili al nudo e vuoto formalismo.
[72]
http://www.math.uwaterloo.ca/~snburris/htdocs/scav/dedek/dedek.html. La
citazione comprende un brano da Stetigkeit...,
loc. cit. nella nota 33.
[73] Riportiamo per comodità del
lettore (ma anche per apprezzare i vantaggi offerti dal moderno linguaggio
simbolico) tale famosa definizione, secondo la traduzione che ne viene fornita
in: The thirteen books of Euclid's
Elements, Sir Thomas L. Heath, Dover Publications Inc., New York, 1956,
vol. II, p. 114. «Magnitudes are said to be in the same ratio, the first to the
second and the third to the fourth, when, if any equimultiples whatever be
taken of the first and third, and any equimultiples whatever of the second and
fourth, the former equimultiples alike exceed, are alike equal to, or alike
fall short of, the latter equimultiples respectively taken in corresponding
order».
[74] Che corrisponderà poi
banalmente a Sez(Q+),
tramite la suriezione naturale N´N ® Q+.
[75] Riportato nel testo citato
nella nota 73, vol. II, p. 124.
[76] Anzi, secondo Lucio
Lombardo Radice e Beniamino Segre, «La mentalità squisitamente operativa di
Galileo si manifesta, per quel che riguarda la teoria delle proporzioni, in
senso positivo nel "compasso", in senso negativo nel Principio di
giornata aggiunta (giornata quinta) [...] E' una importante controprova del
fatto che Galileo non ama le questioni critiche sottili, non ha la mentalità
del matematico puro. Dal punto di vista della matematica teorica, infatti, una
delle cose più belle è la definizione euclidea di proporzionalità [...] La
definizione generale delle grandezze proporzionali proposta da Salviati è quanto
mai insoddisfacente [...] In verità, non ci sembra neppure una definizione,
perché in definitiva presuppone noto quel che si deve definire (implicito in
quel "simile" non altrimenti definito)» ("Galileo e la
matematica", in Saggi su Galileo
Galilei, Comitato Nazionale per le manifestazioni celebrative del IV
centenario della nascita di Galileo Galilei, Barbera, Firenze, 1967).
[77] Principio di giornata
aggiunta (Giornata quinta) ai Discorsi e
Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze, "Sopra le
definizioni delle proporzioni d'Euclide". Faremo qui riferimento
all'edizione Boringhieri, Torino, 1958.
[78] Naturalmente, per operare
tale scelta (in senso letterale,
quindi, un'operazione di "intelligenza", da inter + legere, con l'inter che rafforza l'idea di
raccogliere, scegliere, presente in legere,
oltre ovviamente al nostro "leggere", d'onde in latino il verbo intellegere, o anche intelligere; un'etimologia più
discutibile propone invece intus + legere, cioè leggere, o guardare dentro,
che riavvicinerebbe l'intelligenza all'intuizione, che una comune
pseudoetimologia fa provenire da intus
+ ire, ossia andare dentro, mentre il
termine deriva invece da intueor, intueri, ossia in + tueri, che vale
"guardare dentro" - i romani rendevano l'idea anche con la perifrasi animo percipere, assai istruttiva dal
nostro punto di vista) non si potrà fare ricorso a criteri esclusivamente
matematici, come ben sottolinea Federigo Enriques in un suo ragguardevole
passo: «Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di
compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere
che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione,
che lo porta al di là delle stesse matematiche [...] Distinguere una logica della
ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non è comune fra i
matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a
concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della
deduzione o della definizione [...] La discussione sulle definizioni mostra in
molti casi quale senso logico più largo venga ad assumere il giudizio
razionale» (loc. cit. nella nota 25,
p. 148).
[79] Loc. cit. nella nota 73, p. 122.
[80] Il brano infatti così
prosegue: «To the first question we reply that not only is the test proposed by
Euclid tolerably simple, when more closely examined, but that it is, or might
be made to appear, an easy and natural consequence of those fundamental
perceptions with which it may at first seem difficult to compare it».
[81] Non a caso Galileo
prediligeva come geometra Archimede piuttosto che Euclide.
[82] Secondo Attilio Frajese, Attraverso la storia della matematica,
Veschi, Roma, 1962, p. 158.
[83] Galileo effettua cioè una
scelta meditata tra gli infiniti test
proposti da Euclide, selezionandone una totalità ordinata "a una
dimensione", che dà luogo a un procedimento convergente (tale
caratteristica è più significativa, con il senno di poi, della prima, dal
momento che il discreto pluridimensionale è sempre isomorfo al discreto
1-dimensionale, a norma del teorema di numerabilità di Cantor). Un procedimento
tale cioè che, se arrestato (come è inevitabile nel caso di numeri
irrazionali), conduce comunque a un risultato (razionale) vicino quanto si
possa desiderare al numero reale considerato in partenza. Galileo mostra quindi
nel contesto pure una chiara consapevolezza del concetto di limite.
[84] Traduzione italiana: Fondamenti della geometria (con i
supplementi di Paul Bernays), Feltrinelli, Milano, 1970. Curioso notare che il
lavoro di Hilbert si apre con una citazione di Kant, «So fängt denn alle
menschliche Erkenntnis mit Anschauungen an, geht von da zu Begriffen un endigt
mit Ideen» («Così, dunque, ogni conoscenza umana comincia con intuizioni, passa
indi a concetti e finisce con idee», CRP,
Dialettica Trascendentale, Appendice, Dello scopo finale della dialettica
naturale della ragione umana, vol. II, p. 539), mentre poi tutto il successivo
sviluppo si pone decisamente in direzione opposta al pensiero del grande
concittadino dell'autore (Kant e Hilbert erano nati entrambi a Königsberg).
[85] Che viene enunciato nella
forma: «Siano a una qualsiasi retta ed A un punto fuori di a: allora c'è, nel
piano definito da A e da a, al massimo una retta che passa per A e che non
interseca la a» (loc. cit. nella nota
84, p. 29; l'assioma in parola, unito a quelli di congruenza, stabilisce
l'esistenza di una e una sola parallela ad a passante per A). Notiamo en passant che Hilbert usa una
convenzione opposta alla nostra per l'uso di maiuscole e minuscole in relazione
a rette e punti.
[86] Tale commento ci è noto
attraverso la versione latina di Gerardo da Cremona. Per tali notizie ci
riferiamo al bel testo di Roberto Bonola, La
geometria non-euclidea - Esposizione storico-critica del suo sviluppo,
Zanichelli, Bologna, 1906; Reprint 1975, pp. 6-11.
[87] Ci informa Bonola (loc. cit. nella nota 86) che secondo
taluni studiosi egli va identificato con Gemino (matematico del I secolo AC
nominato da Proclo), ma tale ipotesi è (secondo noi giustamente) rifiutata da
altri.
[88] Tale asserto è oggi noto
come "assioma di Pasch", dal nome del matematico tedesco Moritz Pasch
che lavorò sui fondamenti della geometria, influenzando a quel che pare lo
stesso Hilbert.
[89] Ovviamente, nella categoria
degli spazi totalmente preordinati, di cui SO è una sottocategoria
propria, ma "piena".
[90] Rammentiamo che, in una
qualsiasi struttura di preordine, x < y significa x £ y, e y non minore o uguale di x (y non
"equivalente" ad x), non basterebbe scrivere x ¹ y.
[91] Che, volendo distinguere,
suggeriremmo di chiamare "geometria ordinaria", o
"intuitiva", o "elementare", tutte specificazioni che
preferiamo nettamente a "geometria euclidea". Sia perché questa
espressione riconduce in qualche misura ad operazioni storico-filologiche
estranee alle finalità in discussione, sia perché il termine viene oggi usato
tecnicamente con riferimento a strutture di tipo metrico, mentre nello spazio ordinario non esiste alcuna metrica naturale, ma soltanto una classe di
metriche "simili", dipendenti dalla scelta di un segmento che funga
da unità di misura. La differenza
sembra marginale, ma è invece secondo noi sostanziale: lo spazio ordinario non
è descritto né dalle attuali definizioni di spazio affine (troppo generale) né
di spazio (affine) euclideo (troppo restrittiva).
[92] "La questione della
tecnica", in Martin Heidegger, Saggi
e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976.
[93] Che potrebbero essere
sensatamente contrapposte ad analoghe "monadi di spazio" (o
"punti"), sia nella descrizione dello spazio ordinario (categoria del
pensato), sia in una concezione "granulare" dello spazio fisico
materiale (teoria dell'"etere discreto", nella categoria del reale;
cfr. la nota 98).
[94] Il linguaggio ha comunque
degli evidenti "limiti" in ordine a considerazioni di questo tipo,
come si riconoscerà nella nota 106.
[95] Altra nostra importante
divergenza con Aristotele è che il tempo non ci appare indissolubilmente legato
al divenire della res extensa (il
movimento, o il cambiamento), bensì a un fenomeno di natura spirituale, la
"durata" dell'umana coscienza (caratterizzata in un senso cartesiano
dal pensiero, o res cogitans).
[96] Paradoxien des Unendlichen, 1851, postumi; trad. it. I paradossi dell'infinito, Feltrinelli,
Milano, 1965, p. 69.
[97] Loc. cit. nella nota 26, p. 46. Strana in effetti, a nostro parere,
tale affermazione, a fronte di quanto lo stesso autore aveva riconosciuto in
relazione alla dipendenza concettuale tra aritmetica, ordine e tempo (cfr.
ancora la nota 26).
[98] E' precisamente quello che
si fa nella teoria della relatività ristretta, quando si pone uguale a 1 la
velocità della luce. Il continuo quadridimensionale dello spazio-tempo di
Minkowski-Einstein è secondo noi assolutamente non adeguato all'autentica
natura di spazio e tempo, ma la questione ci porterebbe troppo al di là dei
limiti del presente scritto. Diciamo soltanto che non vanno neppure confusi lo
"spazio reale" e lo "spazio del pensiero", e che il primo
ha presumibilmente una natura ... discreta, conformemente alla descrizione che
ne viene offerta dalla fisica quantistica (cfr. la nota 93).
[99] Il non isomorfismo tra
spazio e tempo (che del resto sono due
forme pure, e non una sola), e il
suo ruolo fondamentale in una "spiegazione" dei paradossi di Zenone
assai diversa da quella corrente, è stato da noi ampiamente illustrato in un
articolo reperibile in rete, "I paradossi di Zenone sul movimento e il
dualismo spazio-tempo" (Episteme,
N. 8, settembre 2004), a cui non possiamo fare altro che rimandare il lettore
interessato (avvertendo che naturalmente talune considerazioni in esso
contenute sono state qui riprese).
[100] Le somiglianze e le
differenze tra SR (o SS) e N sono state già illustrate nel paragrafo 5, e pertanto anche
quelle tra SR e SQ.
[101] Una breve nota meriterebbe
forse l'osservazione che una semiretta superiore di Q (chiusa o aperta non fa differenza) risulta
ovviamente canonicamente isomorfa a SQ, ciò nondimeno la natura
dei due enti non sembra tale da poterne proporre l'"identificazione"
(il confronto e la somma di istanti non hanno senso, il confronto e la somma di
segmenti liberi temporali sì; vero che si potrebbe associare a un istante il
segmento che lo ammette come uno degli estremi, l'altro essendo
l'"origine" della semiretta in questione, ma continuiamo malgrado
tale possibilità a mantenere le nostre riserve sull'inopportunità di una
confusione tra concetti la cui natura li rende chiaramente distinti alla nostra
percezione).
[102] A meno di non voler
chiamare adesso ... tra loro incommensurabili (e conseguentemente
"irrazionale" il relativo "rapporto") due segmenti
temporali liberi e (presi nell'ordine)
tali che il primo non sia un multiplo intero del secondo. Ci sembra che si
possa interpretare in questo modo un passo dei De Musica Libri Sex di S. Agostino, il che chiarirebbe (in un senso
almeno per noi inaspettato) una questione cui si era accennato nella nota 46:
«Appellemus ergo, si placet, illos qui inter se dimensi sunt, rationabiles;
illos autem qui ea dimensione carent, irrationabiles» (L. I, 9). E' evidente
infatti che tutto il discorso musicale verte sulla retta temporale, e non su
quella spaziale.
[103] E' palese che tale
possibilità è all'origine di quella "confusione metafisica" tra
spazio e tempo alla quale stiamo cercando ... di resistere.
[104] Nulla a che vedere con il
"cronone di Caldirola", o con questioni relative alla misura
"fisica" del tempo, etc..
Ribadiamo (cfr. la nota 98) che non bisogna confondere la categoria del reale
con quella del pensato.
[105] E' appena il caso di
sottolineare che, nell'usuale procedimento di immersione del semigruppo
abeliano regolare S in un gruppo, l'elemento
neutro viene invece a corrispondere alla diagonale DS Ì S´S (omettiamo adesso per
motivi tipografici la specificazione "R", che potrebbe del resto
anche ben essere Q). E si potrebbe qui notare
che, essendo S un gruppo abeliano regolare
ordinato "totalmente positivo", si può costruire un ben preciso
gruppo abeliano ordinato G quale risultato della "simmetrizzazione"
di S, il quale non risulta però (non sapremmo
dire quanto ciò sia a sorpresa) canonicamente isomorfo al gruppo V(R)(+), che
in effetti non è un gruppo naturalmente ordinato, a meno che non si orienti R.
Come dire pure, che mentre la simmetrizzazione Z di N è di uso comune,
quella di S non lo è (come interpretare
intuitivamente l'"opposto" di un segmento libero, se non si orienta
R?). Sorvolando su tali sottigliezze, ci sembra però che, isomorfismi a parte
(si rammenti la nota 61), la costruzione dello zero qui indicata sia la più
"naturale" (ripetiamo, mediante il passaggio dai segmenti ai vettori
applicati, e dai segmenti liberi ai vettori tout
court). In ogni caso, quanto presentemente discusso appare essere
all'origine di un'ulteriore notevole "confusione" (tra le altre da
noi evidenziate), cioè quella tra segmenti temporali (liberi o no) e istanti
(cfr. anche la nota 106).
[106] Bisogna riconoscere a
questo proposito che il linguaggio comune utilizza espressioni quali
"pensiamoci un istante", con ciò confondendo, a nostro parere,
l'istante con il cronone, ossia il minimo segmento di SQ.
[107] Ci piace citare, sebbene
non sia strettamente necessario, l'hegeliana "Scienza dell'esperienza
della coscienza" (sottotitolo della Fenomenologia
dello Spirito), un concetto che (si ritrova anche in Husserl ed) è in piena
armonia con i nostri "dualismi". Può riconoscersi infatti che il
tempo corrisponde in qualche modo allo spirito ("flusso" dell'umana
coscienza), così come lo spazio alla materia, o meglio, a spirito e materia
anch'essi in quanto "pensati", oggetti cioè di riflessione da parte
dell'intelletto. Il tempo esprime una condizione necessaria per avere
consapevolezza (pensata) della propria esistenza, nel "presente
continuo" del cogito cartesiano
è implicita la durata dell'atto (concordiamo
con Cartesio nel ritenere l'estensione
un attributo indispensabile della
materia, mentre ci sembra che sia piuttosto il tempo, e non il pensiero, l'analogo attributo fondamentale dello
spirito; del resto il filosofo francese riconosce che «ogni sostanza ha un
attributo principale, [...] quello dell'anima è il pensiero, come l'estensione
è quello del corpo», Principia
Philosophiae, Parte I, N. 53). Per contro, lo spazio appare una condizione
necessaria per l'esperienza del mondo esterno, della materia, della possibilità
di concepire qualsiasi oggetto, o corpo, appunto "materiale". Ciò
sommariamente premesso, non è allora assurdo congetturare che l'opposizione al
dualismo spazio-tempo possa avere quale autentico obiettivo l'altro più profondo
dualismo tra "materia" e "spirito". In altre parole, che
sia siffatto ultimo dualismo quello che certo pensiero riduzionista
post-moderno vuole eliminare.
[108] Morris Kline, Mathematics: The Loss of Certainty,
Oxford University Press, 1980; trad. it.
Matematica la perdita della certezza, Mondadori, Milano, 1985, pp. 268-269.
[109] "Zur Einführung der transfiniten Zahlen", Acta Litterarum ac Scientiarum Regiae Universitatis Hungaricae
Francisco-Josephinae, Sectio Scientiarum Mathematicarum, 1923, 1, pp.
199-208. L'articolo si trova anche in traduzione inglese, "On the
introduction of transfinite numbers", in From Frege to Gödel..., loc.
cit. nella nota 17, pp. 346-354.
[110] In "Zero",
reperibile alla pagina web: http://www.matematicamente.it/delpero/Zero.pdf.
[111] Avremmo da ridire
sull'equiparazione del tentativo insiemistico di Frege con il nichilismo di von
Neumann (la teoria degli insiemi in sé non è "nichilista"), e
sull'affermazione che il procedimento in discussione si fonda esclusivamente
sulla "pura forma".
[112] Con questo aggettivo ci
piace indicare tutto il periodo dalla
"rivoluzione darwinista" in poi, e quindi dal 1859, l'anno in cui fu
pubblicata l'opera On the Origin of
Species by Means of Natural Selection: or the Preservation of Favoured Races in
the Struggle for Life (in breve The
Origin of Species), cui si aggiunse presto (1871)
The Descent of Man, and Selection in
Relation to Sex. Ribadiamo il nostro parere, l'influenza del darwinismo su
certe concezioni, sia della matematica che della fisica, è appariscente.
[113] Un itinerario tanto della
storia della "specie", quanto del singolo individuo, in conformità al
principio per cui "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi" (un
principio di origine darwinista, ma che si può usare altrettanto bene per alludere
alla progressiva manifestazione dello "spirito" nel mondo, oppure, se
si preferisce, della Vernunft in der
Geschichte). Come dire che, dal punto di vista di una didattica adeguata,
nella formazione di ogni "matematico" (in senso generico e non
specialistico, poiché ciascun intelletto è in parte matematico, conformemente
all'opinione di Frege: «Every good mathematician is at least half a
philosopher, and every good philosopher is at least half a mathematician»)
bisognerà concedere tempo sufficiente al primo momento, pena la perdita di
un'autentica comprensione di quello che si sta facendo (vedi anche la nota
115). Tale mancanza è, secondo la nostra esperienza, comune a tanti pur valenti
matematici, come il provocatorio interrogativo di Leon Henkin sembra
confermare: «Do mathematicians really
know what they are talking about?» (titolo reperibile in rete di una sua
recente conferenza). Non vogliamo aprire qui una parentesi sui
"guasti" provocati dal pragmatismo di stampo anglo-sassone, ma è
palese che la maggior parte dei matematici si accontenta oggi di avere una
certa chiarezza degli oggetti da trattare tramite la brutale elencazione delle
proprietà formali di cui essi godono, e poi di operare praticamente su di essi
con il tanto apprezzato e ricercato "rigore formale". La questione
della "natura" degli oggetti matematici viene pessimisticamente
intesa dai più come un "capitolo vuoto" della filosofia della
matematica. Si può lavorare in questa materia per un'intera vita senza
formulare mai nessuna idea al riguardo, anzi sviluppare la convinzione che sia
preferibile non interessarsi troppo a una questione che "non è
matematica". Strano che persone altrimenti assai capaci sembrino
accontentarsi di pseudo-spiegazioni, del tipo ignotum per ignotius, quali per esempio quella offerta da Ivan
Niven (Numeri razionali e numeri
irrazionali, Zanichelli, Bologna, 1965, p. 30): «un numero razionale è un
numero che sia esprimibile come il rapporto di due interi». L'autore è in
effetti di coloro che sostengono che: «Il miglior modo di imparare la
matematica è facendo della
matematica».
[114] Curioso per esempio che
nella maggior parte dei testi che si occupano di queste cose si menzionino
formalismo, intuizionismo, logicismo, etc.,
ma mai ... il "kantismo". La matematica post-moderna ha senz'altro apportato
contributi essenziali alla chiarificazione dei fondamenti di questa disciplina,
sebbene alla luce di una filosofia "non adeguata". Quanto avvenuto
costringe a interrogarsi su come mai ciò abbia potuto verificarsi, e a porre il
controfattuale storico se un peraltro motivato "immobilismo
filosofico" (conforme all'opinione del logico tedesco Karl von Prantl,
autore di una Geschichte der Logik im
Abendlande in 4 volumi, 1885-1890, quale essa risulta dalla seguente
indiretta citazione: «Immanuel Kant thought that there was nothing else to
invent after the work of Aristotle, and a famous logic historian called Carl
Prantl claimed that any logician who said anything new about logic was
"confused, stupid or perverse"», http://www.answers.com/topic/aristotelian-logic)
sarebbe stato in grado di produrre altrettanto.
[115] Con ovvio rimando all'opera
An Investigation of the laws of thought
di George Boole (1854). Se l'insegnamento della matematica non è conforme alle
leggi dell'intelletto, ecco che essa continuerà a rimanere invisa ai più, che
non vi si riconosceranno (ma questo non è ovviamente l'unico elemento per cui
la matematica è detestata da molti).
[116] Secondo un'espressione del
logico-matematico Gaisi Takeuti, citata in: Rudy Rucker, Infinity and the Mind - The Science and Philosophy of the Infinite,
Birkhäuser, 1982, Prefazione.
[117] Che rimane appunto al di
fuori di una concezione della matematica restrittivamente intesa (si rammentino
le note 61 e 78): ma perché mai il campo d'azione del pensiero matematico dovrebbe
essere limitato dai confini che alcuni filosofi "scettici" (almeno
nei fatti) hanno preteso di imporgli, in un momento di "crisi"
generale della scienza e dell'Europa?
[118] «Was vernünftig ist, das
ist wirklich, während was wirklich ist, das ist vernünftig» (Grundlinien der Philosophie des Rechts,
Berlin, 1820, Vorrede, § 17).
[119] E' questo un
"principio" metafisico che appare bene illustrato dalle parole di
Spinoza: «Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum» (Ethica Ordine Geometrico Demonstrata,
Parte II, Prop. 7; tralasciamo ovviamente di discuterne le possibili molteplici
interpretazioni), che viene messo in dubbio dalla fisica post-moderna (si
rammenti la nota 112). Secondo il premio Nobel Richard P.
Feynman: «What I am going to tell you about is what we teach our physics students
[...] and you think I'm going to explain it to you so you can understand it?
No, you are not going to be able to understand it. [...] It is my task to
convince you not to turn away because
you don't understand it. You see, my physics students don't understand it
either. That is because I don't understand it. Nobody does. [...] It's a
problem that physicists have learned to deal with: They've learned to realize
that whether they like a theory or they don't like a theory is not the essential question. Rather, it
is whether or not the theory gives predictions that agree with experiment.
[...] The theory of quantum Electrodynamics describes Nature as absurd from the
point of view of common sense. And it agrees full with experiment. So I hope
you can accept Nature as She is - absurd» (QED - The strange theory of light and matter, Princeton University
Press, 1985, pp. 9-10, corsivi nel testo).
[120] L'interpretazione del
famoso pensiero esposto nella prefazione dei Lineamenti della Filosofia del Diritto (cfr. la nota 118) è una
questione complessa, in cui non ardiamo addentrarci. Essa va quindi ben al di
là di quella "letterale" da noi esaminata, che pure si prestava
opportunamente alla citazione nel contesto in esame.