TRE ESEMPI DA NON DIMENTICARE
Nel punto N. 54 della pagina "Dissensi
e consensi"
(http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/dissens.htm)
riportavo un coraggioso articolo di Massimo
Fini sull'"affare Milosevic". Per inciso, mi pare che di quel processo
non si siano più avute notizie, ma forse è una mia personale
carenza. Non mi stupirebbe però che fosse tuttora pendente, sarebbe
infatti un ulteriore elemento che si inserisce nel quadro dell'opinione
sulla "giustizia dei vincitori"*. Magari i giudici, o i loro committenti,
ci tengono a ricevere l'attenzione totale delle telecamere, che adesso
è rivolta verso nuove imprese dei supermen della democrazia,
quindi attendono, mentre l'imputato resta naturalmente in carcere: tanto
che importa,
lo ... spettacolo ha le sue regole.
Ripropongo integralmente il pezzo qui
di seguito, insieme con taluni brani allo stesso modo edificanti (il tutto
e' alquanto collegato), perché i casi di cui si parla non sono così
noti come meriterebbero, laddove sembrano invece in grado di spiegare il
clima di decadenza morale che affligge, a distanza di sessant'anni dagli
eventi, il nostro paese. Ritengo quindi, al solito, di fare cosa opportuna,
almeno per alcune persone.
* Un corrispondente mi comunica che questa "giustizia" è comunque migliore di ogni altra mostrataci precedentemente dalla storia. Sarà, non mi sento in effetti particolarmente versato nel saper scegliere tra il peggio e il meno peggio (condizione nella quale mi sono sempre trovato quando bisognava andare a votare); replico solamente che l'evoluzione dello spirito umano esige certe prese di coscienza, e la necessità di un superamento di ciò che conserva ancora connotati riprovevoli.
(UB, settembre 2004)
E' la giustizia dei vincitori
Massimo Fini
SLOBODAN Milosevic è stato arrestato. Giustizia
è fatta. Ne siamo sicuri? L'accusa che i Pubblici ministeri serbi
rivolgono all'ex presidente della Jugoslavia è di quelle risibili:
abuso d'ufficio, l'essersi fatto vendere la villa di Dedinje a prezzi di
favore. Ciò è tutto quanto la magistratura serba è
riuscita finora a trovare sul conto di Milosevic. Non è cosa da
giustificare un arresto e, tantomeno, un assedio alla villa presidenziale
che ha per certi versi ricordato, a parti invertite, l'assedio di Salvador
Allende alla Moneda circondata dai tagliagole del generale Pinochet. L'arresto
è avvenuto nella notte fra il 31 marzo e il primo aprile. La data
è significativa, perché è quella della scadenza dell'ultimatum
che gli Stati Uniti avevano lanciato al governo jugoslavo per arrestare
Milosevic, pena il ritiro degli aiuti (50 milioni di dollari) promessi
dagli americani per tentare di ricostruire economicamente la Jugoslavia
da essi bombardata e devastata, e, attraverso opportune pressioni sulla
Banca Mondiale e il Fmi, di quegli altri aiuti che dovrebbero arrivare
dagli organismi internazionali. Una giustizia "ad orologeria" diremmo in
Italia. Una giustizia che si svolge sulla base di un ricatto abbastanza
vergognoso (soldi in cambio di diritti) e che lascia molti dubbi sulla
reale indipendenza dello Stato jugoslavo e, ancor più, della magistratura
di quel Paese nei confronti del governo. È a tutti evidente, e del
resto è stato anche detto "apertis verbis", che l'arresto di Milosevic
per reati di poco conto è propedeutico alla sua consegna per "crimini
di guerra" al Tribunale internazionale dell'Aja la cui sentenza, di natura
ovviamente e squisitamente politica, è già scritta. Si profila
quindi una "Norimberga dei Balcani", cioè la giustizia dei vincitori
sui vinti.
Perché questo fu il processo di Norimberga su
cui, in un coraggioso discorso tenuto all'Assemblea Costituente nel luglio
del 1947, Benedetto Croce, che non era un fascista e nemmeno un comunista,
ma un liberale, si espresse con queste parole: "Segno inquietante di turbamento
spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure aver il coraggio di confessarlo)
i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito
per giudicare e condannare, sotto nome di "criminali di guerra", uomini
politici e generali dei popoli vinti". I tribunali tipo Norimberga sono
inquietanti per almeno due motivi. Perché i vincitori non si accontentano
di essere tali ma pretendono - cosa inaudita, nel senso letterale di mai
udita, prima di Norimberga - di essere anche moralmente migliori dei vinti.
Perché fanno coincidere il diritto con la forza, la forza del vincitore.
Che è l'esatto contrario del diritto. Infine non si può fare
a meno di notare che quando in Jugoslavia c'era al potere il "dittatore
Milosevic" (per la verità era stato regolarmente eletto dal consenso
del suo popolo) la più parte della stampa era in mano all'opposizione
che lo scarnificava con una satira violentissima che fa impallidire quella
per cui da noi è scoppiato lo scandalo di Satyricon, e i suoi avversari
politici erano liberi tant'è che poi hanno vinto le elezioni, mentre
ora che in Jugoslavia c'è la democrazia il capo dell'opposizione
viene arrestato. E il motivo di questa brutale rimozione, come ci spiega
compuntamente Sergio Romano sul Corriere della Sera "non è morale...
ma politico: finché Milosevic controllerà il partito socialista
e potrà contare su amici e clienti, il governo non sarà in
grado né di riformare l'apparato statale, né di fare pulizia
nelle stalle dell'economia pubblica". Insomma si decapita il leader dell'opposizione
perché questa la smetta di "remare contro". Un bell'esempio di democrazia,
non c'è che dire.
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(Benedetto Croce a ottant'anni)
Del comportamento tenuto da Benedetto Croce in quegli anni tristi per la nostra patria si parla anche nel seguente interessante pezzo, in cui si riferisce pure del caso di Vittorio Emanuele Orlando ("Voci di dentro dell'Italia della sconfitta", di Bruno Gatta, StoriaVerità, Europa Lib. Ed., Roma, N. 34, 2002, p. 26).
> In Italia la firma del Trattato di pace. fu invero indolore,
passò in voluta e silenziosa dimenticanza, a remissione delle colpe
e dei sentimenti di tutti. La polemica si riaccese solo qualche mese dopo,
alla Costituente, quando il governo sollecitò la ratifica. Insorsero
Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce. Il venerando presidente della
Vittoria non si rassegnava a che molte delle conquiste della Grande Guerra
fossero perdute: Pola, l'Istria, Zara, Fiume, gran parte del Friuli, compromessa
la stessa Trieste. Parlò per quasi due ore, con pacatezza dolorosa
all'inizio ma alla fine dette sfogo alla sua passionalità patriottica
ed avvocatesca, e proruppe nella famosa apostrofe che resta nei resoconti
e nelle memorie parlamentari:
"Vi prego, vi scongiuro, onorevoli colleghi, al di là
e al di sopra di qualunque sentimento di parte non mettete i vostri partiti,
non mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità.
Questi sono voti di cui si risponde dinnanzi alle generazioni future, si
risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità".
Parole sanguinose che provocarono un vero tumulto nell'aula
di Montecitorio e nell'animo dei deputati costituenti, ai quali pochi giorni
prima Benedetto Croce aveva rivolto un doloroso richiamo di coscienza:
"Io non pensavo - esordì il filosofo con manifesta
sofferenza spirituale - che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni,
riservato un così trafiggente dolore. Noi italiani abbiamo perduto
una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro che l'hanno deprecata...
e non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né
dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte".
Croce negava, però, ai vincitori il diritto di
emettere un giudizio morale e giuridico sull'Italia, di erigersi a giudici
dei vinti. I tribunali internazionali, che gli Alleati hanno istituito
per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra
ministri e generali delle nazioni vinte sono - disse - un segno inquietante
di turbamento spirituale dei nostri tempi. Giulio Cesare non mandò
innanzi ad un tribunale l'eroico Vercingetorige ma lo trascinò per
le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e poi lo fece strozzare
nel carcere. Forse era una pratica meno ipocrita. Parimenti si è
preso il vezzo di calpestare la coscienza dei popoli che hanno perduto
la guerra pretendendo che riconoscano le loro colpe.
"E' una pretesa che neppure Dio rivendicherebbe a sé
perché Egli non scruta le azioni dei popoli ma unicamente cuori
e menti dei singoli individui".
Croce si accalorò nel suo discorso e gridò
al governo di non approvare - approvare no - il documento di pace,
e piuttosto di giudicarlo con:
"quell'occhio storico che abbraccia la grande distesa
del passato e si volge riverente e trepido all'avvenire. E non vi dirò
che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future
dell'Italia che non muore, i nostri nipoti e pronipoti ci riterranno responsabili
e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire
e inginocchiare la nostra comune madre a ricevere rimessamente un iniquo
castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla
propria fama è in certi casi estremi richiesta all'uomo che vuole
il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è
più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse
la durevole diminuzione che l'avvilimento, da noi consentito, ha prodotto
nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non
debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso".
(Vittorio Emanuele Orlando)
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L'edificante atteggiamento tenuto da tali degni esponenti della classe intellettuale del nostro paese (chi oggi avrebbe l'ardire di fare altrettanto?) di fronte ai veri "nemici della patria" era stato preceduto da quello sfoggiato da Giovanni Gentile, quando era già chiaro che le sorti del conflitto volgessero purtroppo al peggio (dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti alla fine del 1941 ne aveva ovvia consapevolezza chiunque possedesse un minimo senso di realismo). Riportiamo parte di un articolo di Jader Jacobelli (Il Corriere della Sera, martedì 17 agosto 2004), inserendo un solo personale commento tra parentesi quadre. Come si sa, Giovanni Gentile fu poi proditoriamente assassinato il 15 aprile 1944.
> Il 24 giugno del 1943 Gentile, che ormai era stato emarginato
dai fascisti, fu invitato a pronunciare in Campidoglio un discorso cosiddetto
di pacificazione, invito che accettò sebbene nei giorni precedenti
avesse ricevuto lettere di minaccia, e la famiglia gli raccomandasse prudenza.
Fu un discorso fortemente retorico. Disse fra l'altro:
"Nessun italiano ha oggi il diritto di dire "questa non
è la mia guerra, io non l'ho voluta", non c'è nessuno in
Italia, che prenda parte alla vita della nazione in modo più o meno
attivo, che non abbia voluto la guerra in cui la Patria è impegnata".
La conclusione fu tale da rivelare quanto il filosofo
fosse ignaro [Ma non è detto: l'autore
qui confonde probabilmente l'ignoranza con lo sprezzo delle conseguenze.]
della reale situazione del Paese e dell'imminente crisi del regime:
"Con questa fede nella Patria immortale noi mandiamo
il nostro saluto di riconoscenza e di amore agli eroici soldati di terra,
del mare e del cielo; e continuiamo a guardare alla Sacra Maestà
del Re, silenzioso e sicuro nella semplicità austera del gesto e
della parola; a guardare negli occhi del Duce, che conosce le tempeste
e ci ha dato tante prove del coraggio che le fa vincere, dell'indomita
passione con cui si deve guardare al destino. Viva l'Italia!".
La sera del 26 giugno Radio Milano-Libertà trasmise
il commento da Mosca di Palmiro Togliatti:
"No, signor filosofo, tra il fascismo e la grande massa
degli italiani passa lo stesso rapporto che tra il bastone e colui che
è bastonato". E aggiunse: "Vogliamo la pace e la libertà,
e con esse la nostra salvezza. Se il signor Gentile non lo capisce, peggio
per lui. La santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà
finalmente anche di questo filosofo venduto ai nemici della patria".