Cari Colleghi,
proprio non resisto a non inviarvi questo messaggio, la cui origine e' presto detta. Come vi e' noto, sono sempre stato "critico" nei confronti degli attuali "venti di riforma", delle loro motivazioni ideologiche e pratiche (ampiamente propagandate quali motivate e irrinunciabili, sia le prime che le seconde, ma poi per esempio saprete della fiera e legittima contestazione di qualche giorno fa da parte dell'Ordine degli Ingegneri), della "rassegnazione" con cui essi vengono subiti nel nostro ambiente, anche da parte di chi, al pari di me, nutre grosse perplessita', etc.. Orbene, ho appena ricevuto alcune riflessioni al riguardo da un collega di altra sede (un matematico attivo presso la Facolta' di Ingegneria che preferisce non essere nominato), e mi sento in dovere di farvele conoscere.
[Nota aggiunta il 19 aprile 2003: il collega, e caro amico, in questione, mi autorizza a riportare il suo nome: Giuseppe De Cecco, dell'Università di Lecce.]
"... non voglio abdicare al mio compito di docente, che e' quello di trasmettere sapere e, se e' possibile, costruire anche sapere ... nella mia esperienza [lunga e autorevole, Presidente di CCL, vice-Preside, etc., nota di UB] l'unica cosa che gli studenti hanno chiesto con insistenza e' stata sempre nuovi appelli d'esame ... non c'e' mai stata una richiesta di tipo culturale o di carattere piu' generale, ad esempio sul rispetto dei doveri accademici da parte degli studenti o dei docenti. Devo dedurre che su questo versante va tutto bene. ... l'anno accademico sta diventando una successione di periodi d'esami, intervallati da qualche lezione ... Dalle discussioni sembra che l'ostacolo maggiore al rapido conseguimento della laurea sia il rapporto con i docenti, che se ridotto al minimo consentirebbe il successo. Invece, per me, meno ore di lezioni o lezioni concentrate* vuol dire soltanto maggiore difficolta' di approfondimento e quindi maggiore probabilita' di insuccesso (io sono sempre stato contrario ai semestri intensivi) ... La segreta speranza degli studenti (e forse di qualche collega) e' che minore quantita' di programma vuol dire automaticamente facilita' nel superamento dell'esame. Questo e' illusorio! La maggior parte delle bocciature nelle materie di base riguarda proprio la non padronanza dei "concetti di base" irrinunciabili, non delle tecniche, delle "ricette per l'uso", cosi' care agli aspiranti ingegneri** ... La parola d'ordine attuale e' "dobbiamo conformarci agli standard europei". Ma colleghi francesi, tedeschi, spagnoli si lamentano di questo adeguamento verso il basso degli studi universitari [seguono numerose citazioni, tra cui quella da "Le Figaro", 8.2.99, che ho inserito in epigrafe] ... Inoltre aggiungo che il conformismo non e' un atteggiamento scientifico, e' imposizione di autorita': "Nullius in verba" (non ti fidare delle parole di nessuno) e' il motto della Royal Society ... Ritengo infine che la frammentazione del sapere in atto e la tendenza a una eccessiva specializzazione stanno rovinando la nostra cultura e anche l'avvenire degli ingegneri italiani, finora molto apprezzati anche all'estero per la loro buona preparazione di base che ha permesso la flessibilita' e l'adattabilita' anche a specialita' diverse da quella della laurea conseguita ... La tecnologia di oggi e' basta sulla scienza di ieri. Ecco come si esprime S. Ting (premio Nobel per la Fisica): "La scienza di base il cui unico scopo e' quello di comprendere la natura, e' il grano di semina delle future tecnologie. Stiamo mangiando il nostro grano di semina? E distruggendo il raccolto dei nostri figli?"..." [le ultime parole, unite a quelle considerazioni di Clifford Stoll che pure vi avevo recentemente inviato, mi fanno ritenere che certe "riserve" provengano anche da ambienti USA...].
In conclusione, diro' solo che, dopo aver scombussolato, con successo!, il mondo della scuola, e qualche generazione di studenti (sento da OGNI parte esprimere disagio verso la situazione attuale, ma pochi tentano di stabilire un rapporto di causa ed effetto tra talune sciagurate "riforme", e il forte "disagio giovanile": chissa' che fine ha fatto il "metodo sperimentale"), al grido di "modernita'! modernita'!", talune "forze" (ovviamente attive anche in altri, e forse piu' importanti, settori) si sono impegnate a sconvolgere l'universita', e quindi la preparazione dei futuri professionisti e dei prossimi docenti della scuola***: troppi tra noi si sono resi, e sono ancora, "complici"****...
Sempre cordialita',
dal vostro UB
* Mi sto dedicando proprio in questo periodo alla progettazione del prossimo corso d'Algebra, un tempo importante e formativo, accorgendomi di quanto sia difficile mantenerlo su certi standard con il corrente sistema dei "moduli". In passato si potevano tenere due veri insegnamenti annuali (tanto per capirci, uno dedicato ai giovani, e l'altro agli studenti piu' maturi), diluendo nel tempo la presentazione e l'assimilazione dei "concetti duri"; oggi cio' e' praticamente impossibile, bisognerebbe avere quattro moduli, ovvero 240 ore di lezione frontale. Parliamoci chiaramente, si e' preferito chiamare un professore, di presumibili "maturita'" ed "esperienza", a fare "esercitazioni", piuttosto che "lezioni", perche' "tutti" possano essere caballeros (la proliferazione dei titoli e dei corsi, per non dire delle sedi, e' stato un "contentino" offerto a una parte del corpo accademico, insieme alla recenti "incentivazioni", al fine di fargli accettare alcune "novita'"…).
** Sergio Invernizzi ricordava qualche settimana fa proprio qui a Perugia le parole di De Finetti ("nell'ormai lontanissimo 1944"): "la stravagante idea dei semplicioni che vorrebbero dalla scuola un ricettario di 'cio' che serve'".
*** Mi sembra di poter collegare la progressiva "decadenza" dei nostri corsi con la "fragilita' culturale" che ho avuto modo di verificare anche durante una recente fugace attivita' didattica presso la Scuola di Specializzazione per Insegnanti.
**** Tra le reazioni piu' comuni, quella di proporsi come "amiconi" degli studenti, o come psicologi improvvisati. In qualche senso "complice" e' anche chi per "quieto vivere" (a questa colpa, talvolta, non sfugge neppure il sottoscritto) non se la sente di resistere allo Zeitgeist (ma secondo me, piu' concretamente, al "gruppo" di persone che ha il potere di concepire e mettere in pratica "strategie culturali", favorendone per esempio l'accettazione con l'espediente dianzi descritto: di far credere a ciascuno che "altri" stanno gia' facendo cosi', e che e' indispensabile uniformarsi), nella persuasione che effettivamente "con lo spirito del tempo non e' lecito scherzare: esso e' una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l'ingrata proprieta' di volersi affermare quale criterio assoluto di verita', e pretende di avere per se' tutta la razionalita'" (C.G. Jung, "Realta' dell'anima"). Questa "passivita'" non e' pero' eticamente consentita a chi di professione ha scelto di fare l'"intellettuale"...